sabato 8 ottobre 2016

Di alcune forme di inganno, negazione e pregiudizio

INDICE

1. Il malinteso di Albert Camus

2. Empatia e disempatia

3. La personalità che fraintende (capire una cosa per un'altra)

4. L'equivoco culturale nella comunicazione (la psichiatria transculturale insegna)

5. La malafede (Sartre)

6. Il doppio vincolo (Bateson)

7. La confusione delle lingue (Ferenczi)

8. Il pregiudizio e lo stereotipo (la psicologia sociale insegna)

9. La fabbrica politica della macchina del fango nel Paese del Tacco

10. L'inganno/pregiudizio dell'algoritmo (sequenze di istruzioni computerizzate)

Riferimenti bibliografici

Riferimenti cinematografici



1.  Il malinteso di Albert Camus 

Cos'è il malinteso, se non intendere per un verso sbagliato un evento del mondo? Possiamo intendere una relazione, una situazione, un comportamento non secondo la logica che a loro appartiene, ma secondo un intendere personale, o condiviso con un'altra persona, irrigidito in se stesso, per cui la presenza di una distorta "coazione a ripetere", nella personalità di un individuo, diventa responsabile di un rituale maligno causa-effetto già collaudato in altre occasioni, con esiti certi e letali.
Nel Nuovo Zanichelli (11° ed., 1983)  per malinteso  si dà il significato "Male interpretato",  "Falsa o errata interpretazione che è causa di screzi, dispiaceri". Per sinonimo si dà "Equivoco". 
Decio Cinti (1995, 1999), nel suo Nuovo dizionario dei sinonimi e contrari, alla voce malinteso attribuisce i seguenti significati: "equivoco,  - interpretazione sbagliata, falsa - ambiguità - fraintendimento - travisamento".
La parola beninteso, presente nel Nuovo Zanichelli, ha invece il significato di "retto, giusto, inteso opportunamente", e rappresenta, precisamente, il contrario della parola malinteso
 Queste note generali su come possiamo intendere l'emergere di un 'malinteso', nella costituzione di una comunicazione relazionale dalle conseguenze perverse, tragiche e dolorose, ci introducono nella trama dell'opera di Albert Camus Il malinteso, di cui qui appresso parleremo.
Intendere male, sarebbe questo il malinteso, ma si 'intende male' e si cade in un 'pensiero' di causa-effetto distorto, fin dall'inizio, di una relazione dalle conseguenze fatali, probabilmente perché la personalità di chi 'intende male' è disturbata, come nel caso del personaggio di Marta dell'opera teatrale tragica Il malinteso (1944, tr. it. in 1993, pp. 5-50) di Albert Camus. Marta, una donna di 30 anni, e la madre di 60 anni, dopo che il figlio Jan se ne è andato via, vent'anni prima, gestiscono uno squallido albergo di uno sperduto paesino della Boemia, da cui specialmente Marta spera un giorno di andarsene via, agognando una futura  esistenza in un posto di mare.
Nel frattempo che Jan se ne è andato via per trovare la sua strada, suo padre è morto mentre la madre e la sorella, Marta,  sono diventate delle assassine che uccidono e derubano i loro clienti d'albergo.  I clienti privi di vita, perché hanno bevuto una bevanda drogata, poi vengono trasportati  vicino al fiume e lasciati trascinare dalla corrente dell'acqua, privi d coscienza, se non vengono già uccisi in albergo.
Jan si è sposato con Maria. Lui ha 38 anni mentre la moglie 30. Loro due sono molto innamorati reciprocamente. Jan si è realizzato economicamente nel luogo dove è andato a vivere, e adesso desidera ritornare dalla madre e dalla sorella per portare il benessere economico, per aiutarle a vivere meglio anche loro.
Tuttavia, Jan, dopo un'assenza  totale di vent'anni dalla famiglia d'origine, vent'anni che non frequenta più i suoi familiari, ora è imbarazzato, non sa essere diretto e franco nel rivelare la sua identità a madre e sorella, così prende la decisione di rivelarsi gradualmente, iniziando a presentarsi sotto un'identità fittizia, nonostante il parere contrario di Maria che invece è per rivelarsi direttamente  subito per la sua vera identità. Jan, invece, dichiara a Marta, quando arriva all'albergo, di essere un altro, un certo "Haseck Karl", per vedere come viene accolto dai suoi familiari d'origine.
Ma andiamo con oridine. Maria non vorrebbe lasciare Jan  e nei suoi confronti è molto possessiva, esprimendo il suo amore verso di lui. Il suo consiglio è di rivelarsi immediatamente, ma Jan non accoglie il consiglio della moglie. Ai suoi familiari vuole presentarsi come un cliente qualsiasi che cerca una stanza singola.
Marta ha sviluppato una personalità disturbata, si mostra fredda, rigida, distaccata, anaffettiva, e che non vuole dare confidenza a un cliente sconosciuto, per cui si mostra molto difensiva e apparentemente indifferente, tipico di un'assassina  sociopatica che continua ad esserlo. Quando Jan  si presenta, da solo, per chiedere una stanza lei dice che è capitato nel momento sbagliato, cioè quando le due donne, madre e figlia,  amministratrici dell'albergo, hanno intenzione di chiudere l'attività alberghiera e andarsene via da quel posto.  Così Marta deve prendere la 'decisione' se accogliere lo 'straniero' nell'albergo oppure no. Decide per il sì, ma, precisa, solo per trattarlo come tutti gli altri clienti. In che modo 'trattarlo come tutti gli altri'? C' è qui un sottinteso che, ovviamente, Jan non conosce. Marta come ha trattato gli altri clienti? Lì ha uccisi, o addormentati con un potente sonnifero, prima di trascinarli con la madre nella corrente del fiume vicino all'albergo. Morte certa, a quanto pare. Naturalmente, prima ai clienti gli sono state vuotate le tasche dei loro averi. Dunque, il sottinteso che noi lettori del dramma ancora non conosciamo è che Marta intende, a livello latente, trattare questo nuovo cliente, "Haseck Karl", come tutti gli altri che sono stati addormentati o uccisi e poi derubati. A livello manifesto, le parole di Marta possono essere intese a livello di 'cortesia' formale circa il comportamento deontologico che un albergatore deve tenere con i suoi clienti.  
Durante il pernottamento, Marta arriva nella stanza che ospita Jan con una tazza che contiene, dice lei, del thè, ma che in realtà è del thè mescolato con sonnifero o veleno. Si tratta di una bevanda non richiesta  dal cliente, che accetta dopo una debole resistenza e che beve davanti alla stessa Marta.
Scomparsa la donna, viene a visitare Jan la madre nella sua stanza. Da questo colloquio, Jan lascia trasparire dalle sue parole, sempre in maniera velata,  di essere il figlio. La madre, probabilmente inquieta, gli dice che gli è stato portato 'per errore' quel thè. Intanto Jan perde i sensi.
La madre pur essendo un'assassina come la figlia, ha orrore di quell'omicidio. L'anziano servo, che alla fine ha l'ultima parola, sottrae il passaporto a Jan e lo consegna a Marta che così scopre di aver ucciso suo fratello! Marta, con la solita freddezza, lo comunica alla madre che ormai vecchia e stanca decide di morire, ancora più avvilita della morte del figlio, gettandosi nel fiume.
Arriva Maria all'albergo e chiede del marito. Inizialmente Marta mente, dicendo che è partito la sera stessa, ma Maria non si fa convincere da quella menzogna, e insiste per sapere la verità, perché suo marito è il fratello di Marta. Con spietata freddezza, Marta allora rivela l'atrocità del suo gesto, compiuto per un malinteso. Marta stessa si sente inorridire del suo assassinio, anche se lo maschera con la sua solita indifferenza. Di fronte a Maria dice che il suo desiderio di un'altra vita al mare gli è passato e che ora anche lei vuole morire. Marta esce di scena.
Maria angosciata e disperata, rimasta sola, ad un tratto vede arrivare l'anziano servo a cui chiede di aiutarla in quel momento di disorientamento, sofferenza a cui non si dà pace, ma lui con voce ferma le dice "NO!" Maria poco prima  aveva invocato "Signore, ascoltatemi, stendete la vostra mano."  E' a quel punto che compare l'anziano servitore, come se fosse l'incarnazione di Dio, dicendo "Mi ha chiamato?" Maria è confusa, fragile, gli chiede aiuto, ma Dio, almeno quel 'Dio', si rivela spietato negandole aiuto.
Il malinteso così rimanda a un mondo assurdo, spietato, dove di fronte a problemi di sopravvivenza si è pure disposti a uccidere il primo malcapitato, dove pure Dio è senza pietà, lasciando che la persona sofferente e fragile sia costretta a cavarsela da sé in una situazione di orrore che è molto difficile da accettare, non avendo nessuno ad aiutarla a tirarsene fuori, tranne che se stessa. Solidarietà? Fratellanza? Nel mondo del malinteso sono sentimenti che non esistono, regnando il deserto e l'orrore dell'anima.
Il malinteso, dunque, nel corso della rappresentazione teatrale  si dispiega giocando con il male nella diacronia del tempo. Certo, se Jan avesse rivelato subito la sua identità probabilmente Camus non avrebbe potuto scrivere questa tragedia classica, o l'avrebbe scritta in maniera diversa.  L'opera  rivela la difficoltà della comunicazione umana  come difficoltà e complicazioni che provoca la personalità in preda ai suoi sensi di colpa, come nel caso di Jan che ha delle riserve a rivelarsi subito per quello che è alla madre e alla sorella. Cosa sarebbe accaduto se però Jan si fosse rivelato subito? Sarebbe stato accolto favorevolmente dai suoi familiari o avrebbe dovuto fare i conti con i loro risentimenti per non essersi fatto sentire per tutti quegli anni di assenza, mentre loro, nel frattempo, e morto il padre, erano diventate delle assassine?
La possibilità di arrivare a una verità condivisa, una trasparenza delle identità, è resa impossibile proprio da come il tempo trascorso, vent'anni di assenza di Jan dalla famiglia di origine, abbia trasformato i personaggi di questo dramma. Madre e figlia sono state travolte dall'orrore del vivere in un paesino sperduto della Boemia, freddo e inospitale, dopo la morte del marito  per la vedova e del padre per la figlia, di un figlio assente da molti anni, costrette a vivere sole, indurite dalla solitudine  e dalla durezza della vita.
Jan, lontano dalla sua famiglia d'origine, intanto è riuscito a realizzarsi, si presume nel lavoro, perché l'opera teatrale non dice  nulla su questo.  Jan si è sposato con Maria in un felice matrimonio. Lui, probabilmente lacerato dai suoi sensi di colpa, vuole ora mettersi in contatto con madre e sorella per  riparare alle sue colpe, come se fosse, in questo caso, la rappresentazione artistica della psicologia formulata da Melanie Klein, colpe dovute alla sua lunga assenza, ma intanto il tempo aveva trasformato quelle due donne in due mostri che, come il Saturno di Goya ingoia i suoi figli, avrebbero assassinato pure il loro parente tornato per portare loro del benessere, anche se non sapevano che fosse Jan, se non dopo averlo ucciso. Come nello schema classico del crimine dove uccido e poi mi uccido, che accade soprattutto negli assassini che hanno legami parentali, ma a volte anche in individui che soffrono di gravi sensi di colpa e uccidono persone che conoscono ma non parenti, anche qui, nel malinteso, alla fine anche madre e sorella si tolgono la vita dopo che hanno soppresso la vita di Jan.
Nella tragedia è dunque un equivoco che spinge Marta a uccidere questo sconosciuto che è il fratello. Ammettiamo che però Jan si fosse rivelato subito, come avrebbero potuto, madre e sorella, convivere con la consapevolezza di essere delle assassine in presenza di Jan? Si sarebbero presentate per quello che erano diventate di fronte al loro parente, ritornato per farle felici? Non basta un 'malinteso' per uccidere, prima del 'malinteso'' c'è  la presenza di due personalità sociopatiche  che, nel corso del tempo, sono diventate tali e hanno ucciso più volte degli sconosciuti per sottrarre loro denaro e altri averi. Nell'ipotesi che Jan avesse potuto conoscere madre e sorella, dopo vent'anni di assenza, sarebbe rimasto disgustato se avesse saputo la loro verità, ma forse il suo senso di colpa si sarebbe ingigantito e avrebbe pensato che se erano diventate delle criminali è anche perché lui se ne era andato, e non aveva potuto aiutarle per evitare quello che loro due erano diventate. Questa rimane solo un'ipotesi, certo.  E' anche possibile che queste due donne sarebbero diventate due criminali in ogni caso, per vari motivi, che possono essere di origine psicologica e culturale, per la loro ignoranza e la ricerca di denaro secondo vie mentalmente distorte. Il 'malinteso' non ha che complicato l'assurdità del loro gesto di fronte all'uccisione di Jan, uccidendo la loro stessa speranza  di un'altra vita migliore, consegnandole, come un boomerang, alla loro stessa morte cercata.


2. Empatia e disempatia

Anche nel personaggio di Marta, nella tragedia Il malinteso, troviamo un deficit di empatia. Marta è  cresciuta in stretto contatto con la madre, ed entrambi diventando assassine hanno sviluppato un'assenza di empatia che consiste nell'evitare di mettersi nei panni dell'altro, freddezza, indifferenza, considerare l'altro come uno 'straniero' che non ha niente di umano, proprio perché Marta e sua madre sono diventate 'straniere' a se stesse nella loro alienazione.
L'essere umano si sviluppa nel legame che, fin dalla nascita, tiene con la madre. Quando questo legame è tendenzialmente amorevole, quando la madre è "sufficientemente buona" (Winnicott), il bambino cresce anche lui sufficientemente buono. L'empatia agisce a partire dal buon legame che la madre costruisce con il figlio piccolo.
Le 'cose buone' che il bambino ha ricevuto, soprattutto nel corso del rapporto con la madre, e poi con il padre, e in misura minore, anche se importante, con eventuali fratelli e sorelle, nonni e altri parenti, costituiscono i mattoni della sua personalità. Proprio perché ci costituiamo essenzialmente come 'presenze del mondo'  gli altri sono, direttamente o indirettamente, altre 'presenze del mondo' simili a noi, con cui solo potenzialmente diventano nostri interlocutori. In ogni caso, se la comunicazione tra esseri umani  fa sentire parte dello stesso mondo, non è detto che si desideri entrare in relazioni con tutti gli esseri umani, perché siamo simili, vero, ma siamo anche differenti per personalità e cultura, per lingua e aspetto fisico, e per altre differenze ancora, senza però giustificare il razzismo, che è sempre riprovevole, e che si esprime come fenomeno disempatico.
A partire dall'ascolto degli altri e del mondo, noi ascoltiamo pure noi stessi e diventiamo tendenzialmente empatici. L'empatia inizia con l'ascolto e ascoltare i nostri sentimenti rispetto alle risonanze interiori che gli altri hanno su di noi, ci permette di cercare di comprenderli, anche profondamente nei sentimenti e nelle emozioni, che apprendiamo nella risonanza dentro di noi e dandogli il nome corretto.
Potrei parlare dell'empatia con Edith Stein, Heinz Kohut, Frans de Waal, solo per citare alcuni nomi, ma preferisco, in questa sede, dare per scontato la loro lettura, e formulare delle libere riflessioni.
La differenza tra gli esseri umani è una costatazione: sia nell'estremità della curva di Gauss verso la diversità positiva, sia verso la diversità negativa. La differenza può, dunque, essere un arricchimento personale, in termini di "capitale simbolico" (Bourdieu), e interpersonale rispetto il rapporto con gli altri, ma anche un impoverimento quando si frequentano persone problematiche che non fanno nulla per migliorarsi, o devianti in senso abituale e criminogeno. La differenza tra le persone, d'altra parte, concerne una differenza su molteplici variabili, come i fattori  psicologico, sociale, culturale, linguistico, geografico.
Su base economica ci può essere una differenza di classe sociale (ricco capitalista, classe media, classe operaia o classe manuale, sottoproletario o nullatenente in termini di beni materiali o economici) o di ceto (che consumi ci si può permettere?, a quale classe si appartiene rispetto al reddito?, ma il ceto riguarda come il denaro si spende, quali gusti si coltivano, quali case si preferiscono possedere se si hanno i capitali per comprarle? Il ceto differenzia come ci si veste, quali persone si frequentano, che cibo o quali bevande ci si può permettere, quali hobby si praticano, se di élite o di massa, e così via). Le differenze tra le persone non impedisce loro di entrare in rapporto reciproco, di sentirsi appartenere a un mondo comune. La lingue è forse lo scoglio più difficile per comprendersi, per empatizzare. La differenza delle lingua può provocare malintesi linguistici nella comprensione reciproca, ma non sono difficoltà insuperabili.
La Rivoluzione francese, nonostante il sangue che è costata, ha partorito tre famosi valori che tutte le nazioni  democratiche dovrebbero porre tra i loro principi di base e metterli in pratica, e non solo la Francia: libertà, uguaglianza, fraternità. Fra questi tre, il valore più difficile da realizzare è proprio la fratellanza, basti guardare alle guerre e alle perdite di esseri umani nel corso del XX secolo in termini di milioni, causate dalle atrocità dei due conflitti mondiali, delle persone ferite, e delle ulteriori guerre sparse in diversi territori del pianeta, per capire che la "fratellanza" è un valore così difficile da mettere in pratica.
 Oggi, nel secondo decennio del XXI secolo, si è accresciuto l'individualismo neoliberista in maniera abnorme nelle società occidentali, e questo tipo di individualismo narcisista e cinico, incapace di empatia, anche tra psicologi, psichiatri, psicoanalisti, impedisce alla radice il valore della fratellanza. Le persone che vivono nelle metropoli sono come degli zombie indifferenti, ognuno per conto suo, incapaci di creare legami interpersonali. I rapporti interpersonali sono solo finalizzati a scambi commerciali, e chi è gentile o saluta il prossimo viene deriso.
La fratellanza un poco c'era quando le società occidentali erano più marxiste, forse un poco comuniste. Oggi che ha vinto il neoliberismo, a partire dalla Thatcher in poi, dunque dagli anni '70 del Novecento, si è insinuato nelle reti sociali, come un serpente velenoso, questa ideologia del nuovo capitalismo (Hayeck, Freedman, Nozick, ecc.), del capitalismo finanziario patologico, che ha portato alla  prima depressione economica mondiale del 2007-2008 e che continua a proiettarsi ancora nell'anno in cui scrivo, il 2016. La Thatcher è, a mio avviso, alla radice dell'individualismo malato ed estremo di oggi, anche perché lei diceva, in forma ideologica, ovviamente, che non esiste la società, ma solo gli individui e le famiglie! In questo modo la Thatcher inaugurava la morte del Welfare State, dello Stato sociale, delle istituzioni al servizio dei cittadini. Con la Thatcher iniziava l'era dell' "individualizzazione", come dicono i sociologi della globalizzazione, ossia che ogni cittadino, non potendo più contare sulo Stato, doveva cavarsela solo con le proprie risorse, dunque ricorrendo al solo "fai-da-te".  
     Essere fratelli, dunque solidali,  oggi è molto difficile. Spesso la retorica politica è piena di parole come 'fraternità', a destra come a sinistra. Sono stati proprio i 'fratelli' Caino e Abele a entrare in conflitto tra loro, come racconta il Vecchio Testamento, e dove Caino ha ucciso Abele. Non conta niente avere sensi di colpa dopo che si è ucciso. Bisogna "trattenersi" (v. Onfry, 2012, tr. it. 2013) prima di uccidere, per evitare quella che potrei chiamare la disempatia automatica, impulsiva, sociopatica. Non ha senso piangere lacrime ipocrite "da coccodrillo", dopo che si è provocato un danno irreparabile!
E' troppo facile uccidere e rubare, truffare e  danneggiare gli altri, fare il proprio tornaconto egoistico e poi recitare di essersi pentiti davanti la macchina della giustizia solo per non subire pesanti condanne penali. Nel film di Stanley Kubrick, Arancia meccanica (titolo originale A Clockwork Orange, Regno Unito, Stati Uniti, 1971), tratto dal romanzo omonimo di Anthony Burgess, la banda di Alexander DeLarge e dei suoi Drughi (Pete, Dim, George), ossia dei veri e propri bulli tardo-adolescenti e sociopatici, ruba, stupra donne, danneggia la proprietà altrui, dà botte ai malcapitati e uccide. Poi uno di loro viene preso dalla polizia e subisce il carcere, e per scontare una pena inferiore si sottopone a un programma di condizionamento cognitivo-comportamentale che lo rende indifeso, neutralizzando la sua naturale aggressività. Altri due della banda diventano poliziotti (i delinquenti che per identificazione con l'aggressore diventano apparentemente l'opposto, difensori delle istituzioni della società) che quando possono utilizzano la maschera del loro ruolo per commettere reati infami. E' quello che succede quando questi poliziotti, ex membri della banda delinquenziale dei Drughi, incontrano l'altro ex membro diventato, nel frattempo, un povero indifeso e lo maltrattano, invece di mostrarsi solidali con lui.
Fratellanza?, dove e quando? Ecco, come è difficile che l'essere umano pratichi questo valore in maniera genuina. Certo, se poi la 'fratellanza' si dovrebbe praticare tra delinquenti, è impossibile, perché tra di loro prevale la legge del più forte e del più perverso, se non del più disturbato mentalmente, per cui anche se in passato ci sono stati legami di appartenenza alla stessa banda, in condizioni differenti questi legami sono nulli e ritorna la psicodinamica biblica di Caino che uccide Abele. Caino e Abele erano legati da legami di sangue, erano fratelli, eppure succede che 'tra fratelli' ci si può scannare!
In questo senso, l'amicizia e la pace sono più significativi dell'essere fratelli, perché è proprio quando si è fratelli che scatta l'ambivalenza e i sentimenti distruttivi. Preferisco l'amicizia, che è un tipo di legame meno forte e più sano, quando c'è, alla fratellanza che uccide!
Albert Camus, che poi ha ricevuto, nel 1957, il Premio Nobel per la Letteratura, ha cercato di praticare l'amicizia quando si trovava in Algeria, suo Paese natale, figlio di una madre che parlava poco e che lavorava come donna delle pulizie, e di un padre che si occupava di agricoltura e morto in guerra quando Albert era ancora bambino. Camus a Tipasa (Algeria)  praticava la filosofia solare, l'amicizia, il "pensiero meridiano".
Quando Camus si trasferì a Parigi si accorse che praticare l'amicizia era quasi impossibile in quel mondo borghese e individualista, dove ognuno era, in realtà, contro l'altro. Camus trovò negli anni '30 e '40 del Novecento un' Europa sanguinaria, dove il nazismo aveva portato ai campi di concentramento, alla tortura con l'acqua fredda, ai forni crematori, alle docce col gas, alle scalinate della morte, all'Olocausto, mentre senza essere di meno lo stalinismo aveva portato ai processi truccati dei dissidenti, ai gulag sovietici e allo sterminio di milioni di persone in URSS.  Così il Partito comunista sovietico non era meglio del Partito nazista!
Sartre si schierò con i sanguinari di sinistra, Camus contro, pur ritenendosi 'comunista', un comunista che invece patteggiava per la vita. Sartre  non ha preso una posizione critica e di distacco nei confronti della disempatia politica che si traduce nella violenza sanguinaria, Camus, invece, era per l'empatia politica del pensiero meridiano e pacifista (cfr. Onfry, 2012, tr. it. 2013). Il comunismo di Camus non era quello del 'dividere', ma quello dell'unire. Ad Algeri Camus era per la convivenza dei francesi con gli arabi, non per la violenza dei francesi contro gli arabi, o viceversa (v. il film di Gianni Amelio, tratto dal romanzo omonimo non terminato di Albert Camus, Il primo uomo, titolo originale Le premier homme, Italia, Francia, Algeria, 2011). Camus in realtà si riteneva un anarchico che amava la vita, un filosofo mediterraneo, un nietzschiano che amava la terra ed era interessato all'anarco-sindacalismo. Il malinteso di Marta, nell'opera omonima, è anche il malinteso di Sartre verso Camus.
Fratellanza in senso generale, allora, può significare:
1)legami di sangue tra fratelli che possono essere sani o malati in senso psicologico: quando sono sani c'è aiuto reciproco, volersi bene, lealtà; quando sono malati, generano odio fino all'assassinio intra-parentale;
2) solidarietà (condizionata);
3) rispetto dell'altro (condizionato);
3) pratica di valori trasparenti (lealtà), se si tratta di una fratellanza esistenziale, mentre se si tratta di una fratellanza politica può, purtroppo, trasformarsi nel suo opposto;
4) che a una promessa seguono coerentemente poi i fatti: 'avevi detto che avresti fatto questo e quello, perché poi non lo hai fatto, visto che siamo fratelli?, invece non sei stato di parola, mi hai tradito!';
5) condividere amichevolmente delle esperienze, in maniera disinteressata, nella 'fratellanza esistenziale'.
Fratellanza  invece non è:
1) la furbizia malvagia;
2) l'ambivalenza;
3) l'eccesso di opacità;
4) dire 'sì' con un sorriso di gomma a cui segue, invece,  un 'no' nel 'non detto' interiore;
5) la 'retorica sofisticata per le masse' che nasconde la 'pratica politica egoistica dell'azione' (le due facce di Giano);
6) strumentalizzazione dell'empatia, svuotata di senso, quando viene praticata per fini disempatici.
In quest'ultimo caso, il 6), il sincero punto di vista del subalterno S viene ricevuto con un  'sorriso' di facciata  da chi interpreta il ruolo di potere P, in un campo di relazioni condizionate da rapporti di forza, dove quest'ultimo parla a S poi con falso 'garbo',  per 'pugnalarlo alle spalle', approfittando dell'asimmetria dei rapporti di potere, praticando una maschera di 'empatia' come "falso Sé" e falsa relazione, condizionata politicamente, mentre P pratica la disempatia furbesca e malevola alle spalle di S!
Purtroppo, in certi ambienti di lavoro, molto politicizzati, accade questo, altro che fratellanza! In questi ambienti di lavoro si pratica l'ideologia retorica della fratellanza, ma non esiste la vera fratellanza. In questo caso, le relazioni di lavoro sono sempre sotto la minaccia del principio di castrazione se si dice la verità o se si è se stessi! In questi ambienti di lavoro non si può che indossare una maschera (difesa contro l'altro), come, del resto, fanno tutti.
La fratellanza autentica, intesa come esseri umani che si riconoscono in legami di amicizia e di aiuto reciproco, al di là dei legami di sangue, non tollera la maschera. Ne segue, inevitabilmente, che negli ambienti di lavoro politicamente condizionati e gerarchizzati non si può praticare la vera fratellanza, se non come retorica ideologica. In caso contrario, cioè nella 'fratellanza autentica', al dire seguirebbe una prassi di coerenza basata sulla solidarietà.
Per quanto riguarda il valore dell'uguaglianza, sappiamo tutti che è un valore della democrazia, e che non ci può essere vera libertà se non c'è uguaglianza, o almeno una società che tende a ridurre le disparità di classe sociale e le ingiustizie economiche, anche se la disuguaglianza non viene del tutto smantellata. I valori hanno senso quando sono veramente condivisi tra le persone, e non sono retorica del potere. Così, parlare di libertà ha senso in una società libera, non in una società neoliberista, parlare di uguaglianza ha senso in una società che tende all'uguaglianza, mentre 'dire una cosa' e 'praticarne un'altra' rende il dire falso e retorico, il fare una pratica egoistica e di potere.
Ormai è risaputo che nel mondo della globalizzazione da una parte c'è 'una minoranza di ricchi e ricchissimi', e dall'altra 'i poveri sempre più poveri', mentre la classe media a suon di tasse viene resa sempre più povera, in quanto i ricchi pur essendo tali godono privilegi che li rendono quasi esenti dal pagare tasse, anche se attualmente pare che anche loro sono tenuti a dare il loro contributo di fronte alla legge che impone la trasparenza dei redditi e che persegue più severamente i reati di corruzione, frode, evasione fiscale. La classe media, inoltre, viene resa povera dallo sganciamento dei contratti di lavoro dal costo della vita, per cui la vita costa sempre di più, ma i contratti di lavoro non vengono rinnovati e gli stipendi giacciono nella stagnazione del tempo, per cui se nel tempo A si poteva acquistare 10, nel tempo successivo B, a parità di stipendio non aumentato, si possono comprare  con la stessa somma solo 7, poi 6, e più tardi 5, perché il resto se lo prende il governo, il comune, e altri enti, sotto forma di tasse. Così ci si impoverisce.
Il fumetto Dylan Dog, ideato da Tiziano Sclavi, nei numeri mensili 198 e 199 (marzo e aprile 2003), con soggetto e sceneggiatura di Michele Medda e disegni di Giovanni Freghieri, copertina di Angelo Stano,  parlano della "disempatia", ossia della pratica della disumanità. Un tizio, un certo professor Emerick, la cui identità completa è Thomas Emerick Boyle, a Londra ha messo su dei corsi di disempatia per fare imparare ai corsisti come essere per niente 'buoni', essere del tutto cattivi, immoralmente competitivi, aggressivamente distruttivi, odiare il prossimo, infischiarsene degli altri, arrivare perfino all'omicidio, in poche parole essere disempatici [in altri termini, la filosofia praticata dai neoliberisti da almeno gli ultimi trent'anni del XX e dell'alba del XXI secolo]. Questo processo è mediato dal simbolo del dio Mazua di una tribù amazzonica. Emerick e il suo compagno di avventura Firth vengono fatti prigionieri da questa tribù e obbligati ad affrontarsi l'uno contro l'altro armati di una mazza, in presenza dei membri della tribù e del totem di legno che raffigura Mazua. I due amici, amici da vent'anni, ad un tratto sono costretti a mettere da parte la loro amicizia se uno di loro due vuole sopravvivere, come un mettere in atto il mito biblico di Caino contro Abele, con la tragica conclusione che uno dei due muore e l'altro sopravvive. In questo caso sopravvive Emerick, obbedendo a questa 'legge della giungla'. Nel fumetto però si tratta di una esemplificazione del detto di Plauto "homo homini lupus", l'uomo è lupo per i suoi simili, ripreso più tardi dal filosofo Hobbes.
Alla fine, questa pratica di estrema disumanità, con l'azione di Dylan Dog, naturalmente, si ritorce contro i loro praticanti e il loro 'maestro'. Dylan sfida Emerick, davanti agli altri corsisti nell'aula, a battersi l'uno contro l'altro. Il gioco di Dylan non è però quello disempatico, a differenza di Emerick. Così, nella lotta corpo a corpo, Dylan non reagisce, lasciandosi letteralmente massacrare dai colpi di Emerick. All'inizio i corsisti bramano 'sangue', come se si trovassero in un'arena dell'antica Roma, sotto l'influenza della disempatia, ma nell'andare avanti della lotta si identificano con Dylan, attivandosi in loro l'empatia e la compassione, e ritenendo scorretto il comportamento di Emerick, che a sua volta viene massacrato a botte dagli stessi corsisti.
Inoltre, successivamente a questo episodio, Emerick finisce in galera, non solo per come ha trattato Dylan, ma anche per aver cercato di truffare il fisco. La morale di questa storia è che la disempatia, insegnata in un corso di disinibizione dell'aggressività da un falso insegnante di psicologia, quale Emerick, è una pratica da abbandonare del tutto se si vuole vivere bene con se stessi e con gli altri, oltre che andare contro gli stessi principi che stanno alla base della civiltà, almeno quella occidentale.
Questo episodio sulla "disempatia" del fumetto Dylan Dog, in due puntate, è del 2003, ambientato, dunque, nella Londra di oggi che lo sceneggiatore  Michele Medda rappresenta come cinica, super-competitiva, cattiva contro i colleghi di lavoro in difficoltà, invece di trovare da parte loro della solidarietà, e con capi spietati e crudeli che creano capri espiatori, invece di mostrarsi comprensivi, umani, tolleranti. Si tratta di una storia che ci fa capire verso dove non dobbiamo andare, cioè verso la disumanità, questa disumanità mostruosa che invece è perseguita dal capitalismo finanziario contemporaneo, lo stesso che ha provocato la prima crisi mondiale dell'economia occidentale del XXI secolo, a partire dai delinquenti sociopatici e truffatori di titoli spazzatura di Wall Street, e che poi, questa crisi economica statunitense, si è diffusa anche nei Paesi europei [v. i film Oliver Stone Wall Street, produzione USA, (1987) e Wall Street. Il denaro non dorme mai, produzione USA, (2010)].
Nell'anno 2013 abbiamo vissuto sotto le conseguenze dell'ombra di quelle manovre finanziarie criminali americane, che nella sola Italia ha portato a fenomeni quali una disoccupazione alta, suicidi soprattutto dei manager  in difficoltà economiche, a partire soprattutto dalle disposizioni del Governo Monti,  precarietà generalizzata dei giovani, aumento della corruzione in tutti i settori della società, compresa l'università, emigrazione di non pochi giovani verso i Paesi europei economicamente più sviluppati o negli Stati Uniti, in cerca di un loro posto dignitoso nel mondo, riduzione dei finanziamenti per scuola, università, sanità.
Tra gli esperimenti di laboratorio degli psicologi comportamentisti, c'è quello di due topolini che si contendono lo spazio di una stessa gabbia in cui sono rinchiusi e del poco formaggio che a loro viene messo a disposizione. Alla fine, per motivi di sopravvivenza, si aggrediscono tra di loro. Gli esseri umani, ovviamente, non possono essere paragonati a dei topi. Anche se apparteniamo al regno animale, siamo una specie particolare, speciale, perché assumiamo la posizione eretta del corpo, il nostro cervello ha la più sviluppata quantità di corteccia cerebrale rispetto alle altre specie di animali superiori consentendo, così, socialità ed empatia e la nascita della cultura e della civiltà,  per cui solo in una condizione di regressione estrema e in cui siamo attaccati possiamo diventare, a sua volta, aggressivi, ma di solito, in condizioni di vita sociale civile,  tendiamo a comportarci in maniera pacifica. Secondo l'orientamento della nostra cultura occidentale, viene premiato lo sviluppo dell'intelligenza, delle facoltà superiori della mente, dell' inter-soggettività relazionale empatica e orientata verso il riconoscimento reciproco.
I fenomeni di relazione perversa e di competizione patologica esistono, purtroppo, anche nelle società occidentali, nelle istituzioni pubbliche e private, come esemplifica il fumetto Dylan Dog sulla disempatia, di cui ho trattato sopra. La logica del capitalismo finanziario e della 'legge del più forte' (sic!) purtroppo inquina trasversalmente la società in cui viviamo. Gli antropologi è vero che hanno scoperto tribù, in qualche parte della Terra, che sono cannibali e aggressive verso altri esseri umani, forse verso gli stranieri o i membri di altre tribù, ma si tratta di casi rari dovuti alla loro particolare cultura bellica. Ne parlava già Michel de Montaigne nei suoi Saggi, riportando quanto gli era stato comunicato da qualche viaggiatore che aveva conosciuto dei cannibali.


3. La personalità che fraintende (capire una cosa per un'altra)

L'individuo che fraintende il discorso del suo interlocutore parte dal presupposto auto-referenziale del suo mondo precostituito, per cui traduce/tradisce la comunicazione dell'altro sconosciuto che non appartiene al suo mondo, ma su cui proietta i suoi pregiudizi per tradurlo secondo l'alfa e l'omega dei suoi punti di riferimento relazionali, incapace di un ascolto empatico. L'individuo che fraintende distorce il senso del discorso dell'altro, ne travisa il senso perché il suo tradurre è un tradire le parole altrui perché se rimanesse sul piano dell'ascolto di un discorso che non gli appartiene cadrebbe nell'angoscia. L'individuo che travisa le parole altrui non può che intendere che esclusivamente solo ciò che è riportabile alle sue micro-relazioni, il resto per lui appartiene al misterioso, a ciò che non riesce a decifrare, che non è auto-referenziale. L'unica cosa che può fare è torcere secondo un senso che non gli appartiene il discorso altrui, rischiando di snaturarne il senso, per renderlo a lui familiare ma senza senso per l'altro portatore di altri mondi situazionali e di senso.  
E' quello che accade in una situazione relazionale del film Oltre il giardino (titolo originale Being There, tratto dal romanzo Presenze del 1971 dello scrittore polacco Jerzy Kosinski, prodotto da Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, 1979), nella interpretazione principale di Peter Sellers, quando il personaggio di "Chance Giardiniere" va via dalla casa dove ha sempre abitato, dopo la morte del proprietario, e incontrando dei teppisti parla con il loro capo in una comunicazione da parte sua che viene completamente travisata dal teppista. Quest'ultimo non comprende nulla delle frasi di Chance, per cui gli attribuisce, proiettivamente, dei suoi significati personali che si riferiscono, in modo pregiudiziale, al suo mondo, accompagnando alle sue frasi minacciose la vista di un coltello, provocando l'allontanamento di Chance da quel gruppetto di bulli ignoranti e con cui è impossibile comunicare in maniera sensata e corretta. Il teppista auto-referenziale, come si potrebbe dire, capisce una cosa per un'altra. D'altra parte, anche Chance travisa, nella sua ingenuità, il comportamento del teppista.
E' molto comune, nella comunicazione quotidiana, 'capire una cosa per un'altra', per cui la comunicazione va rettificata con continui feedback del soggetto che formula le frasi-informazioni al soggetto che riceve lo stesso materiale verbale, nel caso avesse compreso male. Comunicare è anche una forma di apprendimento, e questo apprendimento è circolare e la circolarità della comunicazione va verificata e aggiustata nel caso in cui le informazioni non fossero state apprese nel modo corretto. Già a scuola, fin dalla scuola elementare il bambino apprende a correggere le informazioni che non ha appreso bene dalla lezione dell'insegnante. D'altra parte, l'interrogazione ha lo scopo di appurare se l'insegnamento sia stato appreso nel modo corretto da parte dell'allievo. Questa circolarità dell'apprendimento ha lo scopo di ridurre il più possibile le distorsioni e le incomprensioni nel materiale delle varie discipline. In sostanza, l'apprendimento è fuso con la relazione e gli affetti che sono mediati dalla relazione stessa tra l'insegnante e l'allievo.
Le relazioni umane quotidiane sono forme di apprendimento che possono essere distorte dall'interferenza di emozioni negative disturbanti. Questo lo possiamo vedere soprattutto all'interno dei nuclei familiari, ma anche in ogni situazione relazionale. La sindrome della confusione di lingue, di cui già aveva parlato Sandor Ferenczi in un suo breve lavoro (Ferenczi, 1933, tr. it. in volume quarto, 2002, pp. 91-100), consiste nello scambiare il "linguaggio della tenerezza" per il "linguaggio della passione". Questa confusione è portatrice di un malinteso. Ne parleremo in seguito.
Il mio paziente, che chiamo Atropax ,invita la ex amante, dopo che la loro relazione era finita ed era passato un po' di tempo che non si vedevano, a una cena a casa sua, ma lei, che chiamo Lisergy, gli dice che non vorrebbe che si creasse tra loro due "un malinteso". Velatamente, Atropax, nel suo immaginario, è come se avesse voluto invitarla per poi avere una serata erotica con lei, ma Lisergy ha subito intuito che si poteva arrivare a questo, così formula una frase in cui rende chiaro che è meglio evitare la cena, per non incappare in  "un malinteso". Allora Atropax, scoperto nel 'non detto'  del suo desiderio sessuale da Lisergy, subito si ricompone e assume la posizione formale di chi ritira indietro l'invito e si dà arie di persona perbene, rimanendo gentile e apparentemente non risentito dalle parole di lei. Il "linguaggio della tenerezza" è come un'esca di Atropax per Lisergy, ma Lisergy se ne accorge, e non vuole che quell'esca si traduca nel "linguaggio della passione" dopo la cena, per cui della cena non se ne fa nulla. Il passaggio da un linguaggio all'altro non è possibile e nell'immaginario non viene fantasticata una possibile fusione sessuale tra loro due, o se questa fantasia c'è poi viene respinta, come viene respinto il "malinteso", cioè capire una cosa per un'altra.


4. L'equivoco culturale nella comunicazione (la psichiatria transculturale insegna)

Se un africano arriva in Italia carico della sua provenienza culturale non diventa facile, per comprendersi, il tentativo di uno scambio comunicativo con i nativi del Paese ospite, non solo per la differenza di lingua, ma anche per il fatto che l'altro proviene da una tradizione culturale e geografica completamente differente e di cui la sua lingua  ne indossa l'impronta che mappa i riferimenti simbolici della sua mente. Non si tratta soltanto del fatto che lo straniero africano impari a parlare l'italiano, anche se questo rappresenta il primo passo per comprendersi, o che un interprete della lingua dell'africano si faccia da mediatore linguistico rispetto agli interlocutori italiani, a partire dalle persone che rappresentano le autorità italiane. Possibili incomprensioni possono nascere dal fattore culturale. In questo senso, lo psichiatra transculturale, che si pone in maniera ubiquitaria tra, per esempio, la cultura di provenienza dell'africano e la cultura del Paese ospite, può cercare di ridurre le incomprensioni linguistico-culturali, cioè i malintesi culturali, predisponendo situazioni in cui la comunicazione transculturale sia possibile al minimo delle incomprensioni.


5. La malafede (Sartre)

Jean-Paul Sartre dedica un capitolo del saggio L'essere e il nulla (Sartre, 1943, tr. it. quinta ed., 1975) al fenomeno della malafede. In polemica con la psicoanalisi e il concetto di inconscio, Sartre formula la categoria della "malafede" e rimette in discussione il concetto di personalità inteso nel senso freudiano. Sia Sartre che Simone de Beauvoir invece accolgono favorevolmente il punto di vista dello psicoanalista Stekel che neanche lui accetta il concetto di inconscio secondo la formulazione freudiana. Per Sartre, seguendo il metodo fenomenologico sulla scia di Edmund Husserl e in un atteggiamento non sempre in accordo  con Martin Heidegger, le questioni  che l'essere umano si trova a vivere impegnano la coscienza. Come Husserl, Sartre pensa che la coscienza è coscienza di qualcosa. In se stessa la coscienza è assenza, un involucro vuoto. Tuttavia è la coscienza che diventa consapevole di ciò che l'essere umano vive e cerca di dargli un senso. Sartre non è d'accordo con la psicoanalisi che intende 'analizzare' l'essere umano, è invece favorevole alla comprensione nella sua presenza complessiva (atteggiamento che potremmo indicare come 'olistico'). 
Date queste premesse, consideriamo adesso il fenomeno della malafede. Sartre per cercare di fare emerge il significato della malafede considera i casi del cameriere e della donna al suo primo appuntamento con un uomo, e tanti altri casi.
Il cameriere, per esempio, vive una sorta di ambivalenza tra l'essere cameriere e non esserlo. Si tratta di un uomo che, in cuor suo, non si percepisce come cameriere, ma quello che lui svolge come lavoro è proprio quello del cameriere, dunque è un cameriere. La malafede, in questo caso, emerge nel fatto che il cameriere è quello che è, ma lui, nella sua interiorità, non accetta di esserlo. Il cameriere dunque vive la doppia negazione propria di ogni malafede: è "ciò che non è" e non è "ciò che è".
La donna che va al primo appuntamento con un uomo, in fondo, si rende conto benissimo di ciò che lui pretende da lei. Lui inizia a prenderle la mano, ma lei non vuole accelerare il corteggiamento. Le va bene che lui la corteggi, ma non vuole che questo corteggiamento sia rapido. Non sa bene se desidera farsi corteggiare, deve prendere una decisione, ma ancora è indecisa, tuttavia si lascia passivamente prendere la mano, evitando di stringere quella dell'altro per non fargli credere 'che ci sta'. Nella donna c'è questo ambivalenza del 'ci sto e non ci sto', il suo essere si trova a vivere quella situazione, ma nello stesso tempo vuole tirarsi indietro smentendo il senso complessivo di quella situazione, ma non si sente del tutto di tirarsi indietro. E' però quella situazione che la definisce, anche se lei pensa il contrario, per questo, nella sua indecisione, si comporta da incerta, evitando di inviare segnali inequivocabili al suo corteggiatore che lei aderisce incondizionatamente al suo desiderio di volere una relazione con lui. Ha bisogno di tempo per chiarirsi se 'ci sta o non ci sta'. Anche qui, dice Sartre, troviamo lo stesso atteggiamento contraddittorio di malafede, lo stesso essere "ciò che non è" e non essere "ciò che è".
In quello che possiamo indicare come il manifesto dell'esistenzialismo sartriano, L'esistenzialismo è un umanismo (1946, tr. it. ?, stampato nel 1978), il filosofo francese osserva che l'uomo inventa se stesso. Non c'è una 'natura umana', ma una condizione umana. In questo senso, gli atti  che si compiono ci definiscono. Nell'esempio che troviamo nel saggio L'essere e il nulla,  il cameriere non può che essere un cameriere, non può mentire a se stesso che non lo sia se questo è il lavoro che lo impegna. Se nega questo diventa incoerente e dunque cade nella malafede. La malafede è, dunque, una forma di menzogna con se stessi, ma non "una menzogna in quanto tale". Nel primo caso si tratta di una menzogna rivolta a se stessi, nel secondo caso di una menzogna rivolta agli altri. Se il bugiardo è consapevole della verità che nasconde, tuttavia la nega verso gli altri tentando di vendere la sua bugia. L'individuo in malafede, invece, non solo nega la verità, ma nega la negazione della verità!
La bugia, allora, è un "comportamento di trascendenza". La coscienza si dà come "nascosta ad altri" per mezzo della menzogna. In questo caso entra in gioco "la dualità ontologica dell'io e dell'io degli altri". Al contrario, nel caso della malafede c'è solo "menzogna a sé". La maschera della malafede consiste, allora, nel presentare in una forma di mascheramento "una verità spiacevole" oppure nello spacciare come verità "un errore piacevole". In apparenza, così, la malafede si dà come menzogna nella sua struttura, ma il fatto che il mascheramento è rivolto a se stessi e non agli altri è un dettaglio che mostra come si tratta di un fenomeno di malafede che non è assimilabile alla menzogna tout court. E' verso me stesso che la verità viene nascosta quando sono in malafede. La malafede comporta "l'unità di una coscienza" ed è rivolta a se medesimo, mentre la menzogna è caratterizzata dalla duplicità dell'ingannatore e dell'ingannato, dal bugiardo e dell'ingenuo che crede a quella bugia.
Sartre dice che l'essere in malafede comporta lo stare nell'essere, pur tuttavia fuggire da esso. In altre parole, nel caso della malafede, mentitore e soggetto che riceve la bugia corrispondono alla stessa persona.
Mi viene da associare la malafede al personaggio dell'usuraio nel fumetto di Nick Raider. Squadra omicidi, "Gli avvoltoi", numero 109, uscito  il primo giugno  1997, dove gli usurai sono padre e figli, ossia la famiglia di Norman Kovacs. E' soprattutto Norman Kovacs che si trova in malafede: se presta 100, poi pretende 1000, e si auto-percepisce come 'generoso' e 'buono', e allo stesso tempo è avaro. Quando era giovane e prestante Norman Kovacs andava dai debitori con una mazza da baseball a pretendere la restituzione del debito gonfiato al 100% di interessi. Se l'indebitato non pagava o non pagava almeno quanto Kovacs padre pretendeva, il malcapitato veniva preso a mazzate. Questo ruolo, dopo che non poteva più interpretarlo lui, Norman, per una gamba messa male e per cui si doveva muovere con un sostegno, mandava suo figlio Eddie, detto "Brufoli" a causa di una massiccia acne sul viso, con il fratello Ted, più fortunato con le donne e più 'mite' (sic!), a massacrare testa e gambe del debitore 'inadempiente', a volte anche fino alla morte.
Prendiamo il caso della tristezza. Secondo Sartre, quando si è tristi in realtà ci si fa tristi.  'Farsi triste' è possibile perché "non sono triste". Così la tristezza, in quanto essere triste nel momento in cui dico che 'mi sento triste', mi sfugge. La coscienza di Sergio, per esempio, è triste perché c'è una spinta dell' "essere-in-sé della tristezza" a diventare tale.
Non si può essere in malafede come il tavolo è il tavolo, o il calamaio è il calamaio.La malafede vive invece nella contraddizione. La struttura della malafede, come realtà umana, è costituita da una contraddizione ontologica, in cui l'essere si dà allo stesso tempo nelle modalità del "ciò che non è" e del "ciò che è". La malafede appare un concetto di "disgregazione" in un "processo di evanescenza".
Questa 'evanescenza' della malafede significa che basta poco a farla scomparire. Si tratta di un fenomeno diffuso tra le persone. La malafede va e viene come il movimento di un pendolo, "tra la buona fede e il cinismo". La precarietà della malafede costituisce, così, una struttura della psiche che Sartre definisce "metastabile", ossia che si trova, almeno al momento, in condizioni di instabilità e che tende alla stabilità di un equilibrio. Essa provoca un sentimento di  "imbarazzo" di una certa gravità. Del resto, la malafede non è facile comprendere o rifiutare.
Nella malafede emerge una "evidenza non persuasiva". Ora la malafede "coglie delle evidenze", ma esse non sono sufficienti a convincerla o a cambiarla "in buona fede". La malafede si dà nella sua spontaneità, sul piano dell'essere, estranea a "una decisione riflessiva e volontaria". La malafede è come quando ci si dispone a dormire o si sogna. E' un modo di essere. La malafede continua ad essere nel tempo nonostante sia un fenomeno "metastabile".
Anche la sincerità per Sartre non è tale. Essa non può che essere un fenomeno di malafede perché va incontro a quello che caratterizza il "fondo della coscienza", con la sua contraddizione ontologica fondamentale di cui ho già sopra accennato, per cui il suo essere  è allo stesso tempo "ciò che è" e "ciò che non è".  In apparenza la sincerità si caratterizza nel suo "essere ciò che si è", certo, ma deve fare i conti con l'altro modo di essere della coscienza che è il "non essere ciò che si è", e questo la mette in discussione in quanto tale. Se allora non si può essere sinceri per se stessi, non si può nemmeno criticare gli altri se non sono sinceri.
Sartre prende in giro le 'anime belle', la sincerità dei "cuori puri", con riferimento ad alcuni scrittori. Gli esseri umani, al contrario,  non sono soltanto 'ciò che sono', ossia A=A (principio di identità). Gli esseri umani sono anche, potremmo dire, principio di contraddizione, per cui non sono solo "ciò che è", ma anche "ciò che non è", per cui questa contraddizione costituisce il "fondo della coscienza".


 6. Il doppio vincolo (Bateson)

Il doppio vincolo dell'antropologo Gregory Bateson (v. Bateson, 1972, tr. it. 1976), uno dei pionieri della terapia sistemica della famiglia, è una forma di doppio inganno cognitivo, cioè sulla difficoltà di come va interpretato il comportamento della madre schizofrenogenica da parte del figlio che diventa schizofrenico.  Si tratta, in sostanza, di una trappola senza scampo, dove il figlio viene punito con la frustrazione affettiva da parte della madre, sia se mostra affetto, sia se non lo mostra. In entrambi i casi la madre diventa ansiosa: se il figlio mostra affetto, la madre non lo tollera e lo allontana da sé, se invece il figlio rimane indifferente la madre si preoccupa. Il figlio così viene punito dalla madre e disorientato, perché non sa più come comportarsi nei suoi confronti. Il figlio diventato psicotico vive allora un'incertezza su come vanno interpretate le frasi dell'altro, rimanendo indeciso tra più possibilità di senso.  


7. La confusione delle lingue (Ferenczi)

Con l'espressione, nelle traduzioni italiane, "confusione di lingue" (nel titolo) o "confusione delle lingue" (nel testo) lo psicoanalista Sandor Ferenczi - in un suo breve ma importante lavoro del 1932 e pubblicato postumo nel 1933, dal titolo, appunto, Confusione di lingue tra gli adulti e il bambino. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione (Ferenczi, 1933, in tr. it. 2002, pp. 91-100) - riflette sulla fenomenologica psichica del trauma e dello stupro sessuale dei bambini, di come gli adulti confondono il linguaggio della tenerezza, proprio del bambino, con quella della passione che conduce all'orgasmo sessuale tra adulto maschio e bambina/bambino, oppure una donna con un fanciullo. Ferenczi considera qui il meccanismo dell'identificazione con l'aggressore, dove l'aggressore  è l'adulto di cui il bambino ha paura, se non terrore, quando da lui viene traumatizzato anche con lo stupro sessuale. 
L'adulto sottovaluta le conseguenze psicologiche negative che il suo comportamento sessuale può avere con il bambino abusato, crede che il bambino dimentica quello che accade e che non ha conseguenze su di lui il suo abuso. Ferenczi è dell'opinione che l'adulto può apprendere dal bambino, a livello educativo, a come comportarsi, capire che il mondo del bambino è quello del gioco e della tenerezza, e che non gli appartiene "il linguaggio della passione". Pertanto l'adulto occorre che impari a distinguere questi due modi di essere, la tenerezza e la passione, come a orientare l'una verso i bambini e l'altra verso altri adulti. 
Bisogna stare attenti a questo, perché il trauma, e in particolare il trauma sessuale, è portatore di psicopatologia. Sono, secondo il punto di vista di Ferenczi, gli adulti che sono alterati dall'uso di droghe, dall'alcol, che hanno tendenze psicopatologiche a comportarsi in maniera traumatogena verso i bambini. Nel bambino possono sopravvenire sentimenti negativi in seguito a un trauma, come odio, disprezzo, rifiuto, "una paura immensa".  La prepotenza o l'autorità di individui adulti possono bloccare i bambini, zittirli, fino a impedire loro di pensare. In uno stato di paura, il bambino cede alla volontà dell'adulto aggressore, identificandosi pure con lui, alla sua volontà violenta. In questo modo, l'iniziale identificazione del bambino con l'adulto in un secondo tempo  viene sostituita dalla sua introiezione, che così diventa una presenza interna in una sorta di "trance traumatica", nei due sensi "positivo o negativo". In queste condizioni, il bambino può pure mantenere, dice Ferenczi, la sua tenerezza, nonostante il trauma interiorizzato.
Secondo Ferenczi, il bambino ha subito una forma di "identificazione per paura con il partner adulto". Inoltre il bambino introietta pure il senso di colpa vissuto dall'adulto in relazione a un 'gioco' che fino a quel momento era stato vissuto come 'innocente'. Se il bambino poi 'sopravvive' alla situazione traumatogena, vive una certa confusione, o addirittura si trova in una condizione psichica di scissione, vivendosi allo stesso tempo come "innocente e colpevole", e dei suoi sensi non ha più fiducia. Scrive significativamente, in tal senso, Ferenczi:

"Il bambino di cui si è abusato diventa un essere che obbedisce in modo meccanico, o che si impunta, ormai incapace di rendersi conto del motivo del suo atteggiamento. Lo sviluppo della sua vita sessuale è bloccato o assume forme perverse, per non parlare delle nevrosi e psicosi che ne possono derivare. [...] la personalità ancora debolmente sviluppata risponde a un dispiacere improvviso non con la difesa, ma con l'identificazione e l'introiezione di colui che minaccia o aggredisce."
(Ferenczi, 1933, tr. it. in 2002, p. 97).

Ferenczi allora osserva che è una violenza psichica che si fa subire ai bambini che si trovano ad attraversare "la fase della tenerezza" quella di obbligarli a una forma di amore che non è quella da loro desiderata, sia nel caso in cui la forma di amore non è quella da loro  accettata, sia quando si tratta di una quantità di amore esagerata. Queste declinazioni negative dell'amore sono assimilabili a quelle in cui il bambino viene del tutto privato d'amore, portando tutti questi casi a conseguenze di tipo psicopatologico. In tali casi può accadere che il bambino, essendo la sua una fase di immaturità e innocenza, si trovi a subire forme di "amore passionale venato di senso di colpa" dovute alla "confusione delle lingue" rispetto alla tenerezza e alla passione.
Ferenczi è critico verso le forme di "amore forzato " e le "intollerabili misure punitive", perché entrambi portano a delle "fissazioni", per non parlare delle conseguenze psicopatologiche che esse comportano, come crimini o cadere nella depressione. Così il trauma, come lo spavento, provoca "scissione della personalità". Se i traumi sono ricorrenti anche  nelle fasi del ciclo di vita successivi, si accrescono pure le "dissociazioni", e dunque la personalità si frammenta. A livello di terapia invece occorre di trovare il modo di 'ricucire' i vari frammenti della personalità.
Ferenczi mette in guardia anche nei confronti di una strategia adulta di legare i bambini a se stessi attraverso "il terrorismo della sofferenza". Ferenczi cita il caso di una madre lamentosa che  in questo modo rende la figlia una sua 'infermiera', ed in modo egoistico impedisce che lei possa  avere uno spazio per i suoi interessi.
Per finire, anche se in maniera sommaria, il pensiero di Ferenczi in questo interessante lavoro, lui scrive che da questo momento in poi è bene che sia dato un valore maggiore "al modo di pensare e di parlare dei bambini, degli allievi e dei pazienti, dietro il quale nascondono le critiche, in modo da sciogliere loro la lingua e avere così l'occasione di imparare diverse cose." (Ferenczi, 1933, tr. it. in 2002, p. 100). 
Ferenczi perviene a queste sue conclusioni a partire dai suoi insuccessi professionali con pazienti che mostravano una certa sensibilità, accusandolo anche di essere presuntuoso quando affermava di voler utilizzare i suoi errori per trarne un vantaggio terapeutico. Ferenczi ammette che noi tutti facciamo tanti errori. Secondo lui, se gli errori che si commettono in analisi davanti al paziente si ammettono, cercando di non duplicare lo stesso errore in futuro, allora si ottiene la sua fiducia. Questo sentimento di fiducia che può emergere nel paziente verso l'analista è, secondo Ferenczi, ciò che differenzia il presente da un passato caratterizzato da traumi. Il paziente che evidenzia e corregge le esagerazioni dell'analista sono in grado di cogliere, nel caso di Ferenczi, gli aspetti aggressivi rispetto al suo particolare approccio di "terapia attiva". Allo stesso modo quella che lui chiama "ipocrisia professionale" nel suo essere radicale. (Ferenczi, 1933, op.cit., pp. 93-94).
Ferenczi osserva che i pazienti non sono ben disposti verso la "compassione" che l'analista può avere verso di loro, mentre sono "toccati" dalle sue  vere espressioni di simpatia. Occorre rispettare il paziente, ed evitare l'inganno verso di lui, anche perché se ne accorge subito, essendo molto sensibile. Il paziente ha come una sorta di "chiaroveggenza" verso ciò che sente e ciò che pensa l'analista.
Anche la "confusione delle lingue" della passione con quella della tenerezza, da parte dell'adulto, è una sorta di inganno che può costare un caro prezzo al bambino abusato in termini di trauma e delle conseguenze che esso può avere nelle fasi successive del suo ciclo di vita. In questo senso, Ferenczi in questo importante lavoro sulla "confusione delle lingue" non solo mostra di essere onesto nel suo modo di lavorare come analista, parlando dei suoi errori professionali, errori che vuole utilizzare in senso favorevole nell'analisi per riguadagnare la fiducia del paziente ammettendoli in quanto tali, ma è preoccupato anche di come poter trovare una via psicologica per fornire delle indicazioni al fine di evitare i casi di "confusioni delle lingue" che possono provocare traumi inaccettabili nell'infanzia dell'essere umano.



8. Il pregiudizio e lo stereotipo (la psicologia sociale insegna)


Il vocabolario Il Nuovo Zingarelli (Zingarelli, undicesima ed., 1983, p. 1456) definisce il "pregiudizio" nel seguente modo:
"Idea od opinione errata, anteriore alla diretta conoscenza di determinati fatti o persone, fondata su convincimenti tradizionali e comuni ai più, atta a impedire un giudizio retto e spassionato: essere pieno di pregiudizi; avere pregiudizi verso, contro, nei confronti di q.c. o di q.c.". 
Si tratta di una prima e principale definizione di "pregiudizio", che rende l'idea su che cosa stiamo parlando quando si parla di "pregiudizio". Il "pregiudizio", del resto, è parente dello "stereotipo", di cui parlo in seguito in questo stesso paragrafo. 
Un esempio di pregiudizio, che conosciamo tutti, era diffuso nel passato come cultura popolare e accettato dalle collettività in preda all'emotività e al bisogno di proiettare la dimensione  psichica del "cattivo" su una persona trasformata in "capro espiatorio" sociale. Dal Medioevo fino ad alcuni secoli avanti, il pregiudizio prende forma, per esempio, verso la donna vissuta come 'diversità', nella figura della "strega". Le streghe, su cui la collettività proiettava in maniera scissa il "negativo" o il "cattivo", erano considerate come praticanti la "magia nera" e pertanto responsabili, spesso a torto, del male che si abbatteva su una comunità. 
Per far cessare questo "malocchio" collettivo non rimaneva che una soluzione estrema come il rituale sociale, a cui partecipava tutta la comunità, questa sì invasata da pulsioni criminali, della morte della "strega" al rogo. Spesso erano i religiosi cattolici a spingere la comunità verso l'individuazione del male nella donna considerata 'diversa' e praticante sortilegi, una "strega", appunto. Affinché la comunità potesse ritrovare la sua pace, allora occorreva 'uccidere' la "strega" con il rogo, anche se questa "strega", in realtà, poteva essere innocente. Nella cultura pop, in riferimento alla figura della "strega", i fumetti hanno dedicato albi delle serie a questa figura. Un esempio per tutti, l'episodio n. 336 di Dylan Dog dal titolo "Brucia strega... brucia!", settembre 2014. 
In altre forme, la gogna verso un capro espiatorio, dunque una persona innocente, viene praticata ancora oggi, in maniera più sottile e perversa, attraverso Internet. E' recente il caso della pubblicazione di foto o video hot di una ragazzina che aveva rapporti sessuali su un sito informatico, e per la vergogna  si è suicidata! Il meccanismo del pregiudizio rimane lo stesso, come, in forme più rozze e crudeli, si praticava nei secoli dell'Inquisizione religiosa, lo è ancora oggi in un contesto differente e in forme più eclatanti, in cui la gogna mediatica diventa mondiale! 
Oggi la collettività di ragazzini ignoranti e crudeli mette in atto una specie di "rogo" mediatico quando prendono di mira una/uno di loro in situazioni che trasformano una persona in capro espiatorio da distruggere psichicamente e socialmente, come quando ci si trova in intimità sessuale. I compagni irresponsabili presenti all' 'evento' lo riprendono coi cellulari o in cinepresa e ne fanno un video, per poi rendere quelle immagini pubbliche, ovviamente senza il consenso della persona o delle persone interessate. Le conseguenze possono essere tragiche, come è successo anche qualche giorno fa. Porre una persona in condizione di "pregiudizio" può essere catastroficamente fatale.
Lo stereotipo è un concetto, come ho accennato sopra, simile a quello di "pregiudizio", studiati entrambi dalla psicologia sociale. Tra le varie definizioni di "stereotipo" scelgo la seguente:
"Percezione o concetto relativamente rigido ed eccessivamente semplificato o distorto di un aspetto della realtà, in particolare di persone o di gruppi sociali: pensare per stereotipi."
(Zingarelli, Il Nuovo Zingarelli, undicesima ed., 1983, p. 1904). 
Considerare una persona o un gruppo di persone secondo un 'pensiero' distorto e che prescinde dalla conoscenza personale  dell'altro, significa cadere nel pregiudizio e nello stereotipo, se si incasella una o più persone in categorie a priori e su cui si proiettano convinzioni sbagliate e chiuse radicate nella mente, senza metterle in discussione e senza conoscenza 'faccia a faccia' della persona o delle persone che si hanno davanti a sé o di cui si parla in loro assenza. Quando poi sono più individui a esercitare pregiudizio e stereotipo insieme, le convinzioni distorte si rafforzano a causa dell'emotività ostile collettiva.
E' quello che, per esempio, accade nei confronti dello "straniero" che lo si mette alla gogna a prescindere da una conoscenza interpersonale e scoprirne, al contrario, la sua umanità. E' quello che sta accadendo in questi giorni contro i migranti. Anche se il fenomeno della migrazione di massa, soprattutto africana, è preoccupante per i Paesi europei, questo non significa che bisogna trattare queste persone come capro espiatorio collettivo. Semmai deve essere l'Unione europea, e i governi dei singoli Stati europei, ad arginare il fenomeno con politiche umanitarie mirate e con la diplomazia con i Paesi africani, trovando un accordo di pace per evitare altre migrazioni e fare in modo di creare delle condizioni di vita dignitosi nei Paesi africani-problematici, affinché vivere in quei luoghi non sia più un inferno. 



9. La fabbrica politica della macchina del fango  nel Paese del Tacco 

Troppo comodo parlare male di qualcuno. L'aforisma di Oscar Wilde dice: "[...] vi è una sola cosa al mondo peggiore del far parlare di sé, ed è il non far parlare di sé." (Wilde, 1890, tr. it. 1991, p. 16). Allora preferisco non fare pubblicità di nessuno, e utilizzare una breve favola  per riferirmi più a un fenomeno della cattiveria cinica  e del peggio.  Il protagonista di questa favola lo chiamo: Mister F.
Non affronterò questo argomento  secondo una ricerca giornalistica rigorosa, con tante di date e avvenimenti. Mi lascerò guidare dalla memoria e dalla riflessione su quanto segue. Quando Mister F era primo ministro del governo del Tacco, per punire i presunti 'nemici' utilizzava i suoi giornali e/o le sue televisioni per metterli alla gogna mediatica, anche con pretesti insignificanti. Questo metodo per rovinare la reputazione di un personaggio pubblico, la stampa lo ha indicato con l'espressione "macchina del fango", che fabbrica capri espiatori sociali e mediatici.
Un metodo intenzionale della cattiveria come questo è da irresponsabili, perché non tiene conto delle conseguenze e degli effetti che provoca sulle persone colpite, perché essere svergognati gratuitamente per vendetta davanti ai media globalizzati è un atto delinquenziale che andrebbe punito dalla legge. 
I giornalisti che lavoravano, in quel periodo, presso le testate di Mister F si prestavano al suo gioco distruttivo, probabilmente  per non rischiare di essere licenziati. Infangare con i media la reputazione di personaggi pubblici rispettabili come il direttore di un giornale per motivi falsi, un giudice perché indossava calzini di un colore raro, fa capire la bassezza dell'attacco e la sua infondatezza. Questo succedeva nel Paese del Tacco. Morale: alla fine Mister F venne destituito prima del tempo dal suo incarico di primo ministro, e molti cittadini, compresa la magistratura, metaforicamente parlando, 'gli tirarono le pietre'. 
In un contesto politico in cui Mister F governava, nel Paese del Tacco, altro che le riflessioni di Max Weber sulla figura del buon politico! Weber diceva che il politico di professione deve saper coniugare la politica con l'etica (Weber, 1919, tr. it. in 1976). Se la politica riguarda soprattutto le azioni politiche, il come prendono forma queste 'azioni' è di fondamentale importanza, e il 'come' ha bisogno di farsi 'guidare' dagli ideali, altrimenti il politico diventa un 'pratico della politica' facilmente influenzabile da coloro che lo vogliono trasformare in un corrotto. Il pratico, infatti, cerca solo il suo tornaconto a 360 gradi, strumentalizzando l'alta carica pubblica che ricopre nello Stato, allora userà l'inganno, la malafede, la macchina del fango, le alleanze anche internazionali con personaggi simili a lui, e altre prelibatezze simili per raggiungere i suoi fini personali, e non il bene comune della nazione. In tal caso, l'etica viene negata. Qualcuno potrebbe obiettare, parafrasando Mozart, però al maschile, che così fan tutti! Se il peggio della storia politica viene innalzato a modello da imitare, allora non c'è più speranza di costruire una società pacifica per tutti e per il meglio.
Nel caso della "macchina del fango", il meccanismo di difesa della  negazione presuppone anche quello della scissione, per cui le qualità opposte dell'oggetto intero, per esempio buono e cattivo, bene e male, bello e brutto, come dell'io, vengono separate e le qualità negative delle varie coppie vengono rimosse (terzo meccanismo di difesa che interviene). Così si costruisce un falso Sé costituito solo da buono, bene, bello, e che alimenta quell'ottimismo di facciata che serve a sedurre gli altri e alimentare il proprio potere. Le qualità negative del cattivo, del male, del brutto non è che scompaiono dalla personalità, vengono invece rimosse e alimentano quella che Carl Gustav Jung chiamava Ombra, o gli psicoanalisti, tra cui André Green, il negativo. Se l'Ombra o il negativo non vengono resi coscienti ed elaborati dalla mente, il rischio è che vengono agiti (acting out) anche in forma distruttiva, contro il proprio Sé e contro gli altri. 
In esilio, rispetto all'uso della "macchina del fango" mediatica in politica, viene messo non solo Max Weber, ma anche Immanuel Kant o altri pensatori dell'etica e della politica, tra cui i filosofi della libertà strumentalizzati e distorti nelle loro idee dall'ideologia predatoria del pratico. "Il fine giustifica i mezzi", professano soprattutto i neoliberisti nella loro prassi politica ed economica, più o meno consapevoli o inconsci, ma Machiavelli diceva cose del genere per mettere in guardia il Principe del suo tempo contro il cattivo governo.


10. L'inganno/pregiudizio dell'algoritmo (sequenze di istruzioni computerizzate)

Ne L'Espresso n.40 del 02 ottobre 2016, Fabio Chiusi scrive l'articolo "Com'è ingiusto l'algoritmo". Nell'articolo viene smentita una presunta "oggettività" scientifica dei modelli matematici. Con gli algoritmi non è più l'uomo a stabilire una decisione, ma l'informatica. Succede che siano gli algoritmi a stabilire differenti decisioni. Per esempio: 1) l'algoritmo decide se un individuo è affidabile nella sua richiesta di un prestito; 2) è l'algoritmo che decide la competenza di un professore; 3) è l'algoritmo che valuta la gravità criminogena di un delinquente; 4) è l'algoritmo che decide la sede da assegnare a un insegnante; 5) è l'algoritmo a decidere il "rating di legalità degli appalti, secondo le nuove norme dell'Anac", e così via.
Chiusi osserva che questi algoritmi non sono per nulla ""oggettivi" e "neutri", invece producono discriminazione, ancora di più di un essere umano. In sostanza, gli algoritmi riproducono le "disuguaglianze sociali esistenti", aggiungendone altre.Ancora qualche esempio: è una decisione dell'algoritmo se la polizia agisce di più nei quartieri più svantaggiati, invece dei quartieri dei ricchi; gli afroamericani sono più colpiti da sentenze più gravi, e così via.
In sostanza, i modelli matematici computerizzati alimentano le ingiustizie sociali. Quello che allora avviene con gli algoritmi è che se un pregiudizio viene coperto da "un'apparenza statistica", ciò non toglie che continua ad essere un pregiudizio. Quello che in realtà succede, osserva Chiusi, è che viene così reso più forte un pregiudizio una volta che viene 'vestito' da "una (falsa) valenza scientifica".  (Chiusi, 2016, "Com'è  ingiusto l'algoritmo, in L'Espresso n. 40, 2 ottobre, pp. 72-80).


Riferimenti bibliografici

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- 2003, Dylan Dog, episodio "Homo homini lupus", sceneggiatura di Michele Medda, disegni di Giovanni Freghieri, n. 199, aprile.
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- 1922, Il nuovo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana, undicesima ed., 1983.


Riferimenti cinematografici

- Arancia meccanica (titolo originale: A Clockwork Orange, Regno Unito, Stati Uniti, 1971). Regia di Stanley Kubrick. Interpreti principali: Malcolm McDowell, Patrick Magee, Michael Bates, Warren Clarck, Adrienne Corri, Miriam Karlin, Godfrey Quigley.
- Il primo uomo, (titolo originale: Le premier homme, Italia, Francia, Algeria, 2011). Regia di Gianni Amelio. Interpreti principali: Jacques Gamblin, Maya Sansa, Denis Podalydes, Catherine Sola.
- Oltre il giardino (titolo originale: Being There, Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna, 1979). Regia di Hal Ashby. Interpreti principali: Peter Sellers, Shirley MacLaine, Melvyn Douglas, Jack Warden.
- Wall Street (titolo originale: Wall Street, USA, 1987). Regia di Oliver Stone. Interpreti principali: Michael Douglas, Charlie Sheen, Daryl Hannah.
- Wall Street. Il denaro non dorme mai (titolo originale: Wall Street: Money Never Sleeps, USA, 2010). Regia di Oliver Stone. Interpreti principali: Michael Douglas, Shia LaBeouf.







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