L'idea di parlare di ciò che potremmo chiamare senso non comune comporta la possibilità di non accettare passivamente l'"ovvio", il "banale", il "così è", il "normale" (cioè la legittimazione di un ordine relativo alla cristallizzazione di determinati rapporti di potere tra le forze sociali), come dati di fatto immutabili, perché non lo sono affatto. Zygmunt Bauman (Bauman, 1976, tr. it. 1982) insegna, infatti, che non ci si deve arrendere al cosiddetto senso comune che considera la realtà come un dato immutabile e oggettivo, perché il sociale può sempre essere modificato, superando le resistenze della passività, dell'inerzia, dell'indifferenza. Il "senso comune", in fondo, può essere cambiato con l'azione politica se un progetto di trasformazione sociale diventa una passione collettiva.
La realtà è una costruzione sociale, dicono i sociologi (Berger, Luckmann , 1966, tr. it. 1969), e così anche le mentalità del "senso comune" non sono radicate nel dna, ma sedimentate nella trasmissione culturale delle generazioni che tesse la trama della comunicazione "banale" della vita quotidiana. L'"ovvio", in realtà, consiste in un processo di apprendimento dell'esistente costituito da modi di dire, convinzioni correnti, mentalità del quotidiano, il tutto mediato dal linguaggio con i suoi codici locali legati ai micro-contesti, e che trasformano la lingua ufficiale di una nazione in una miriade di sub-linguaggi o dialetti contestuali del "senso comune" legato a ogni particolare ambiente umano. In ogni caso, a livello mentale, il "senso comune" ha a che fare con il collettivo, e costituisce buona parte dei contenuti e delle forme nei modi di immaginare e pensare orientati verso l'adattamento alla "sociocultura" (costituita dall'insieme degli apparati di dominio con le loro gerarchie, le regole di premi e punizioni, secondo Henri Laborit), e, in forma immediata, all'altro. Costruzioni simboliche e segni mediano il passaggio da una generazione all'altra, pur conservando, in buona parte, anche le convinzioni e i linguaggi precedenti. Così le generazioni vivono in un mondo di simboli e segni linguistici che sono sempre un ibrido creativo tra il "vecchio" e il "nuovo". Ogni epoca culturale è il frutto dell'insieme di processi politici, economici, scientifici, tecnologici, socioculturali.
Vivere l'esistenza nell'ideale dell'autenticità, che in quanto ideale non può essere realizzato fino in fondo, ma sempre in maniera approssimativa, comporta, in ogni caso, superare il "senso comune" per entrare in un rapporto riflessivo con la verità del nostro sentire e percepire il mondo, rimanendo in contatto sia con la realtà interiore che con la realtà condivisa con gli altri esseri umani secondo forme diversificate di relazione (parentela, amicizia, amore, conoscenza, lavoro, interessi comuni).
Abbiamo bisogno, allora, per la 'salute' della nostra mente, di ridurre l'attrazione verso la falsa illusoria apparenza di immagini preconfezionate e seduttive del consumismo urbano e mediatico (giornali, tv, Internet, pubblicità gigantesche sugli edifici delle città). Piuttosto dell'immaginario collettivo che ci fornisce la società dei consumi e che atrofizza l'uso del nostro cervello e della nostra mente, abbiamo invece bisogno di immaginare secondo la via del "senso non comune". Solo nell'attività di immaginare per inventare, avendo accesso all'informazione, come osserva Laborit, abbiamo l'opportunità di sentirci veramente liberi dai condizionamenti opprimenti della "sociocultura", con le sue pretese di dominio, di gerarchia piramidale e la minaccia di punizione se non ci si sottomette agli ordini che provengono dall'alto. Le istituzioni della società civile, per esempio la sanità pubblica, la scuola, gli uffici statali, come osserva il sociologo Richard Sennett (Sennett, 2006, tr. it. 2006), obbediscono a una logica militare, sono strutturate come l'esercito, e rappresentano delle "gabbie d'acciaio", secondo l'espressione di Max Weber, per cui vengono vissute come delle prigioni in cui la gratificazione che si aspetta è sempre rinviata a un domani che non arriva mai. Queste istituzioni pubbliche funzionano ancora secondo forme antiquate di struttura piramidale, e le interazioni tra gli individui che presiedono a questi ruoli pubblici non possono che plasmarsi secondo il "senso comune", mentre l'"individualità" di ognuno di questi impiegati dello Stato, in queste istituzioni, non può esprimersi liberamente, ma solo come residuo o appendice del ruolo recitato dietro la maschera della mentalità collettiva che presiede il funzionamento collettivo della mente individuale.
Per convivere con gli altri, d'altra parte, non possiamo fare a meno del "senso comune" che media l'immediatezza delle relazioni quotidiane, per cui è importante condividerlo per sentirci parte della stessa realtà umana, allo stesso tempo, però, è ancora più importante l'uso dell'intelligenza critica e dell'intelligenza immaginativa che ci apre al nuovo, al possibile, al movimento, alla creazioni di nuove realtà più vivibili nel mondo umano, evitando di ristagnare la mente nel "così è".
E' possibile dare anche una collocazione politica al "senso comune" e al "senso non comune". Il primo è piuttosto conservatore, oltre ad essere collettivo, ancorato alle convenzioni sociali, al passato, ai detti, all'istinto di sopravvivenza. Il secondo è senz'altro progressista, innovatore, creativo, individuale, che si apre verso nuovi valori e nuove visioni del reale. Il "senso non comune" comporta l'uso dell'intelligenza, del pensiero, della riflessione, qualità che sicuramente non appartengono alla dimensione collettiva. D'altronde, il "senso non comune" può essere - attraverso l'individuo che immagina, pensa e riflette - al servizio della società e del collettivo.
Il "collettivo" è un'astrazione logica che indica un insieme anonimo e serializzato di entità tutte uguali che appartengono alla stessa specie o categoria, mentre la parola "individuo", pur essendo anch'essa astratta, rimanda a un essere vivente, a un essere umano concreto. Sono sempre i singoli individui che sono dotati di una mente per immaginare, pensare ed esprimersi, anche quando sono riuniti in un insieme che costituisce un "collettivo", mentre il "collettivo" in quanto entità massiva ed astratta non immagina, non pensa, non sente, non si esprime. Sono i singoli individui concreti che si aggregano per ascoltare o parlare, che si esprimono e prendono decisioni sulle questioni sociali che riguardano tutti, e che formano il "gruppo" o il "collettivo".
La parola "collettivo", del resto, nella sua accezione ancora più astratta e in senso sociologico è simile a "società". Concretamente queste due parole non significano un gran che. "Società", per esempio, è una parola che viene usata nel discorso linguistico per indicare l'aggregazione degli esseri umani nel vivere in contesti comuni e nell'organizzare la vita quotidiana, lo spazio, il tempo, in base ai problemi molteplici che riguardano lo stare insieme, la soddisfazione dei bisogni corporei e sociali (la dimensione materiale), la condivisione degli stessi valori o dei simboli (la dimensione immateriale del vivere) con cui ci si identifica reciprocamente e si formano le identità sociali, inoltre il riconoscimento delle singole personalità e il diritto alla loro libera espressione sociale. La parola "collettivo", invece, non rimanda a "personalità", perché quest'ultima è solo di ogni particolare essere umano. "Collettivo" è un'astrazione che indica la massa degli individui, ma non considerati singolarmente. "Collettivo" è, ancora, una parola astratta quanto "massa", dove anche qui non si considerano le persone con le loro rispettive personalità e si fa riferimento a una condizione indistinta.
La parola "folla", per esempio, appartiene anch'essa alla stessa famiglia di parole astratte quali "collettivo", "massa", "società". "Folla" rimanda a un insieme di individui anonimi che si trovano in uno stesso luogo per caso o per un motivo comune, e per un periodo di tempo brevissimo o breve. Nella "folla" non c'è aggregazione degli individui, ma casualità nel trovarsi nello stesso posto. Inoltre, la "folla" dà luogo a comportamenti irrazionali e indifferenziati, come ha osservato Gustav Le Bon. Per esempio, si può assistere a una manifestazione "collettiva" a cui "tutti", indistintamente, possono partecipare, come la festa del santo protettore di una città, la sagra di paese, la competizione sportiva allo stadio. In questi casi, gli individui stanno nello stesso posto in gran quantità, costituendo una "folla" che, però, da un momento all'altro si disperde.
Riassumendo, il "senso comune" ha che vedere più con la condizione "collettiva" del vivere degli esseri umani di una data "società", è legato alla tradizione, al passato, a un orientamento politico conservatore, alle convenzioni del vivere sociale. Il "senso comune" riconferma lo status quo e accetta il presente così com'è. Quando si dice 'cerca di essere ragionevole', in fondo si vuole riportare l'altro al "senso comune" del percepire i problemi come li può percepire un 'chiunque' astratto, secondo valori condivisi socialmente.
Al contrario, il "senso non comune" appartiene all'individuo plasmato nella sua "individualità". C. G. Jung intendeva la parola individualità in una accezione nobile, di conoscenza e sviluppo psicologico. Egli invece distingueva questo termine da individualismo a cui dava un significato negativo. L'"individualismo" indica la condizione dell'individuo che non ha una sua "individualità" e che agisce massivamente, nel senso di seguire un'ideologia di "massa" che orienta i modi di pensare e i comportamenti individuali, radicalizzando il suo egocentrismo, slegandosi da ogni connotazione comportamentale che considera solidariamente il prossimo. Oggi in misura notevole, come d'altra parte anche ai tempi di Jung, l'"individualismo" caratterizza la mentalità individuale e la realtà sociale, provocando derive psicologiche ed esistenziali. Scrive Jung, rispetto alla distinzione tra "individualismo" e "individuazione": "L'individualismo è un mettere intenzionalmente in rilievo le proprie presunte caratteristiche in contrasto coi riguardi e gli obblighi collettivi. L'individuazione invece implica un migliore e più completo adempimento delle destinazioni collettive dell'uomo, poiché un'adeguata considerazione della singolarità dell'individuo favorisce una prestazione sociale migliore di quanto risulti se tale singolarità viene trascurata o repressa." (Jung, 1928, in tr. it. 1993, p.173).
L'"individualità" si sviluppa, d'altro canto, attraverso un processo di conoscenza personale e che può essere favorito, per esempio, da un percorso psicoterapeutico. In questo senso, l'individuazione di cui parla Jung e che porta al risultato dell'"individualità" è un processo psicologico favorito dalla psicoterapia (junghiana) e che non si esaurisce con tale esperienza, ma che continua anche dopo nel corso dell'esistenza. L'esperienza psicoterapeutica a cui ci si sottopone rappresenta una 'marcia in più', cioè l'apprendimento di un 'metodo', quello psicoterapeutico, che viene interiorizzato, per vivere l'esistenza con un particolare tipo di sguardo che è quello del senso non comune, squisitamente individuale.
Per concludere questa riflessione, voglio precisare che non si può non assumere una posizione nei confronti del "senso non comune" e del "senso comune". Stare dalla parte del "senso comune" significa assumere una posizione conformistica rispetto alla realtà così com'è. Credo che nei confronti del "senso comune" sia necessaria non solo una sociologia critica, nella tradizione della Scuola di Francoforte e di Zygmunt Bauman, ma anche una psicologia critica che decostruisca le forme ei contenuti delle relazioni (conservatrici) dello status quo, per leggerne i rimandi alle fantasie e ai pensieri del quotidiano che fanno il gioco della passività, dell'inerzia, dell'indifferenza, dei modi 'scontati' che riproducono il 'non c'è niente di nuovo sotto il sole' della vita quotidiana. La posizione dell'"etica della conoscenza", come la vede Edgar Morin, va allora conciliata anche con una presa di posizione di carattere psicologico, sociologico e politico.
In altri termini, "senso comune" e "senso non comune" non possono che avere finalità esistenziali differenti. Il "senso comune" permette di condividere punti di vista largamente conosciuti da tutti e che 'non fanno una grinza', che si accettano facilmente da parte della stragrande maggioranza degli individui, anche perché riguarda quella parte di mentale individuale che allo stesso tempo è un mentale collettivo che caratterizza i rapporti interpersonali degli individui in una particolare realtà sociale locale.
Il "senso non comune" riguarda, al contrario, lo sviluppo della personalità individuale e l'originalità della sua ricerca di senso esistenziale. Se l'accettazione del "senso comune" favorisce l'adattamento sociale, la coltivazione del "senso non comune" favorisce la crescita personale. Entro certi limiti, il "senso comune" e il "senso non comune" credo siano complementari e convivono in ognuno di noi. In alcuni questa convivenza provoca una certa tensione esistenziale che ha un suo potenziale energetico e che può spingere verso una riorganizzazione delle proprie risorse, in senso rigenerativo, per dedicarle a compiti significativi, non privi di una idealità morale. In altri, è invece il "senso comune" a prendere il sopravvento, lasciandoli 'sopravvivere' al tempo che passa così com'è.
Tuttavia, è bene osservare che l'essere umano che sviluppa la propria "individualità", come ha fatto notare già Jung, non inizia questo percorso per egoismo, ma per necessità psicologica. Il processo psicologico innescato dall'"individuazione" dovrebbe portare allora una persona a una doppia maturazione, individuale e sociale. In tal modo, l'individuo che sviluppa la propria personalità restituisce alla società il sostegno che dà essa, nei casi migliori, ha ricevuto, in segno di gratitudine. Anche se nella società dell'individualizzazione (U. Beck, Z. Bauman), nell'epoca della "seconda modernità" (U. Beck), praticamente la società di oggi in cui ognuno è per sé, non può che contare, in maniera disincantata, solo sulle proprie forze e aspettarsi poco o niente dagli altri, in quanto gli "aiuti umani" e la cosiddetta "solidarietà" passano dall'utilitarismo mercantile slegati da una possibile morale che anela, disinteressatamente, a realizzare relazioni umane con l'Altro, come invece sarebbe nella prospettiva etica e sociologica di Bauman.
Jung, d'altra parte, è critico nei confronti delle organizzazioni collettive che impediscono lo sviluppo dell'"individualità". Così egli scrive: " Lo sviluppo dell'individualità è al tempo stesso anche uno sviluppo della società. La repressione dell'individualità causata dal prevalere di idee e forme di organizzazione collettive significa decadenza morale per la società." (Jung, 1916, in tr. it. 1993, p.303).
Melanie Klein potrebbe dire che la riparazione è reale quando avviene non solo a livello interiore, ma anche nel mondo esterno nei confronti delle persone per noi significative o che amiamo. Quando siamo capaci di questo, cioè di gesti riparatori che comunicano all'altro che lo abbiamo perdonato per ciò che ci ha frustrato o fatto arrabbiare di lui e ritorniamo a rivederlo come una persona intera a cui ritorniamo a dedicare i nostri sentimenti migliori, facciamo dei veri passi avanti nello svilippo del nostro carattere, diventando capaci di amare. In questo senso, lo sviluppo psicologico ha a che vedere con il segreto del nostro "senso non comune" in una prospettiva individuale. D'altra parte, possiamo anche pensare che il "senso non comune" possa essere considerato in una prospettiva sociologica orientata criticamente verso la decostruzione dei "luoghi comuni" e del conformismo, e che permetta una "immaginazione sociologica", oltre che una immaginazione psicologica, che apre ad altri mondi da inventare e realizzare.
Non dobbiamo dimenticarci che l'ambiente umano ha la sua parte nel favorire o sfavorire lo sviluppo psicologico di una persona, e di questo Melanie Klein (Klein, 1937, in tr. it. 1969, p. 76, nota 6) - geniale e pari probabilmente a Sigmund Freud in quanto a immaginazione psicologica, e che aveva assolutizzato il mondo interiore - ne era consapevole, forse facendo sue le considerazioni di Donald W. Winnicott sull'importanza psicologica che i parenti hanno nella crescita del bambino, anche se nelle sue opere non sviluppò il punto di vista dell'importanza della psicologia dell'ambiente umano per il singolo individuo. Questo compito spettò ad altri. Secondo il mio punto di vista, Melanie Klein rimase prigioniera dell'impostazione intrapsichica della psicoanalisi freudiana, e quindi di quel rigido "senso comune" psicoanalitico, conservatore, che ai suoi tempi rendeva gli psicoanalisti alieni nel loro stesso mondo psichico, non considerando l'altrettanto importante mondo esterno a cui il primo è collegato. Del mondo esterno, interpersonale, relazionale, se ne sono occupati i cosiddetti terapisti della famiglia (che sono tantissimi da ricordare), e poi la psicoanalisi di Winnicott, la psicoanalisi di Kohut, la psicoanalisi della prospettiva intersoggettiva di Atwood, Stolorow, Orange e altri, la psicoanalisi relazionale di Mitchell, Greenberg, e via di seguito.
La storia della psicoanalisi insegna che è facile cadere nella trappola dell'ortodossia che si istituzionalizza in "senso comune" e che difende quel "senso comune" come se al di là di esso non si potesse guardare alla realtà psichica e umana secondo nuove prospettive. Sigmund Freud all'inizio della sua carriera, precisamente quando stava diventando psicologo, incarnava, in fondo, lui stesso la prospettiva del "senso non comune", il creatore di una nuova disciplina, di un nuovo modo di guardare la mente e anche la cultura e la società. Dalla prospettiva di innovatore, quando lui visse un periodo di profonda solitudine, poi Freud passò a quella di conservatore e, come osserva Erich Fromm, di individuo autoritario nel momento in cui credette che la psicoanalisi fosse lui stesso (delirio di onnipotenza?!), mentre gli altri analisti della sua generazione li guardò solo come riflesso che doveva rispecchiare il suo genio creatore. Ecco che allora cominciarono le defezioni dal Movimento psicoanalitico, e i geniali esiliati della psicoanalisi, come C. G. Jung, O. Rank, A. Adler, furono chiamati "eretici", e se lasciarono il movimento di Freud è perché, secondo quest'ultimo e i suoi compiacenti gregari, avevano anche dei problemi psichiatrici (sic!). Questa epurazione dei diversi della psicoanalisi, ossia delle menti più creative, coincise con il momento in cui si costituì una ortodossia nel Movimento psicoanalitico e il suo pensiero unico, e coloro che rimasero furono costretti a sottomettersi al verbo freudiano, tranne qualche parziale eccezione come nel caso del geniale Sandor Ferenczi, che però venne etichettato in senso psichiatrico quando espresse le sue idee creative su un modo differente di concepire l'analisi rispetto a Freud.
Queste cose, purtroppo, accadono ancora oggi: coloro che dissentono da una maggioranza hanno 'qualcosa che non va', per cui il sistema istituzionale, che detiene il potere, tende a svalutarli, etichettarli, discriminarli, isolarli. Tuttavia, sappiamo tutti che sono proprio i singoli individui che dissentono, che hanno un loro punto di vista creativo ed etico che poi contribuiscono maggiormente ad arricchire la società con l'esempio, l' opera e il loro "senso non comune", e a costruire relazioni più umane ed alternative.
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