lunedì 31 dicembre 2007

La psicologia clinica nell'epoca dell'emergenza ecologica

INDICE DEI PARAGRAFI

  • Psicologia clinica e clinica medica
  • La psicologia, la psicologia clinica, Sigmund Freud
  • Note sul trattamento psicoanalitico e su quello psicoterapeutico
  • La psicologia clinica
  • Psicologo clinico e psichiatra
  • Lo psicologo clinico e il passaggio dal modello bio-psico-sociale a quello bio-psico-socio-cultural-ecologico
  • Cosa accade nei servizi pubblici psichiatrici
  • Inadeguatezza del "modello medico" nei confronti delle problematiche psichiche e relazionali
  • L'epoca dell'emergenza ecologica e il disagio psichico connesso ad essa
  • Riferimenti bibliografici
Psicologia clinica e clinica medica
Se parliamo di "psicologia clinica" possiamo chiederci di cosa si occupa questa branca della psicologia e in che cosa si differenzia dalla clinica della medicina. Precisiamo subito che la psicologia clinica non ha niente a che fare con la clinica medica e la sua prassi oggettivante. Carl Gustav Jung scrisse in Riflessioni teoriche sull'essenza della psiche (1954), in un passo ormai memorabile e da tutti citato, che la psicologia raggiunge il suo obiettivo "scientifico" solo abolendosi come scienza. In altri termini, quello che Jung voleva dire è che la psicologia studia la soggettività umana e che tale studio non ha altri punti di riferimento se non nella stessa psiche umana, e dunque lo studio psicologico non può essere confuso con quello delle "altre scienze naturali". E' strano che qui Jung abbia considerato la psicologia nell'ambito delle "scienze naturali", mentre è più pertinente considerare la psicologia nell'ambito delle scienze della cultura. Jung osserva che la psicologia consiste nel processo del "farsi coscienza" (Jung, 1954, in tr. it. 1972, pp. 305-306).
Solo mantenendosi "soggetto" la persona ha una sua psicologia e può cercare di conoscersi tramite uno studio introspettivo o nella relazione con l'altro, mentre se si oggettiva quello che ottiene non è altro che la sua depersonalizzazione. La clinica medica è invece concentrata sullo studio del corpo umano nella sua organicità, nella sua anatomia, fisiologia e patologia. Le osservazioni cliniche del medico mirano a un sapere oggettivo. Individuati i sintomi della malattia del corpo e formulata la diagnosi, al medico non rimane che prescrivere la terapia e ipotizzare la prognosi. Tutto ciò finalizzato a una terapia farmacologica, o chirurgica, o ad altri tipi di terapia che sono approvati dalla scienza medica occidentale. In questo senso, l'epistemologia del medico e quella dello psicologo clinico sono diametralmente opposte e differenti. Su queste basi, sono differenti anche i modelli d'intervento dello psichiatra organicista, che basa le sue cure sulla psicofarmacologia, e il modello psicoterapeutico dello psicologo clinico.
La psicologia, la psicologia clinica, Sigmund Freud
La "psicologia", come sappiamo noi tutti, è nata dalla madre di tutto il sapere e che è la filosofia. Solo nel 1800 con gli esperimenti dei tedeschi Wundt e Fechner si è cominciato a parlare di una "psicologia scientifica" ( Schultz, 1969, tr. it. 1974, p. 57; Madsen, 1970, 1977 seconda ed., tr. it. 1979). Nel corso del XX secolo la psicologia ha avuto un vasto sviluppo, fino al suo riconoscimento come disciplina complessa e variegata, dando luogo a una miriade di psicologie particolari, di sotto discipline, riassunte dalla psicologia generale (Canestrari, 1984). Non possiamo di certo dimenticare il contributo decisivo dato alla psicologia da parte di Sigmund Freud, a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento. Con Freud, in termini più decisamente psicologici, si è iniziato a parlare di inconscio. La scoperta o, se vogliamo, l'invenzione dell'inconscio freudiano (di cui Freud inizia a parlare negli Studi sull'isteria scritti insieme al suo amico Josef Breuer e che riguardano il periodo 1892-95) diventa una svolta decisiva, dal punto di vista psicologico, per studiare il disagio della mente.
Se la psicologia moderna, con le sue sotto discipline, come la psicologia della percezione, la psicologia della memoria, la psicologia cognitiva e così via, (Canestrari, 1984) cerca di studiare e conoscere aspetti particolari e importanti del funzionamento mentale, ci sono altri tipi di psicologia che si occupano, invece, dello studio sia del benessere che della sofferenza e del disagio psichico. D'altra parte, si sono sviluppate psicologie che sono al crocevia con altri saperi come il diritto, con la psicologia forense, la psicologia della tossicodipendenza, la psicologia della devianza, la criminologia.
Sigmund Freud (Gay, 1988, tr. it. 1988), come sappiamo tutti, fu un pioniere della psicologia, e i suoi studi erano orientati alla ricerca delle cause che motivano il comportamento umano. Egli fu, a mio avviso, il primo e vero psicologo clinico. Si era laureato in medicina a Vienna, e inizialmente si occupò di esperimenti in laboratorio nel campo della neurologia. Ben presto lasciò perdere questo interesse attratto più dalle cause che provocano i disturbi mentali, come nel caso dell'isteria e soprattutto nelle donne (Freud, Breuer, 1892-1895, tr. it. in Opere 1886-1895, 1967, pp. 161-439). Essendo un pioniere, Freud commise tanti errori, come è del tutto comprensibile. Si rivelò un ricercatore dell'animo umano, più che uno scienziato accademico e positivista che lavora sui dati oggettivi. In un certo senso, si occupò anche di psicofarmacologia, a partire dallo studio sulla cocaina. Di questa sostanza ne fece un uso personale e consigliò di assumerla anche alla sua fidanzata Martha Bernays e al suo amico medico Ernst von Fleish-Marxow al posto della morfina, che prendeva per attenuare il dolore di un suo problema organico. Freud credeva negli effetti terapeutici della cocaina e probabilmente in buona fede ne consigliò l'uso (Freud, 1974, tr. it. 1979). Tuttavia, anche se il padre della psicoanalisi riuscì a smettere con l'assunzione di questa sostanza, egli rimase, quasi fino alla morte, un preoccupante tabagista (Lesourne, 1984, tr. it. 1986), facendo un uso giornaliero di sigari. Circa dieci anni prima della morte, a Freud fu diagnosticato un tumore alla gola. Malgrado ciò, egli continuò a fumare sigari, fino a quando gli fu possibile, e subendo un numero incredibile di operazioni chirurgiche in quell'organo del corpo già patologizzato, fino ad avere difficoltà a parlare. Non è un caso che fu lo stesso Freud a formulare concetti come "coazione a ripetere" per la nevrosi, e più tardi a considerare una motivazione inconscia al godimento in una forma dannosa allo stesso soggetto, motivazione che egli chiamò "pulsione di morte" (Freud, 1920, in tr. it. Opere 1917-1923, 1977, pp. 187-249). D'altra parte, Freud aveva sperimentato su se stesso la "pulsione di morte" con la sua passione tabagica (Lesourne, 1984 , tr. it. 1986).
Credo che vale la pena precisare che Freud non era uno psichiatra, e che dopo un brevissimo tempo che si dedicò alla neurologia, e alla preoccupante sperimentazione della cocaina, egli si interessò all'ipnosi, recandosi a Parigi per entrare in contatto con lo psichiatra (per certi versi, ciarlatano) Jean-Martin Charchot, primario della clinica neurologica della Salpetrière. Charcot con l'ipnosi trattava le donne che presentavano sintomi isterici. I suoi esperimenti sembra che fossero controversi, e che pagasse le "pazienti" che 'trattava' quando dava dimostrazione della sua presunta bravura davanti a un pubblico. Ritornato a Vienna, dopo un breve periodo in cui utilizzava anche lui l'ipnosi per curare l'isteria, lasciò perdere questo metodo man mano che, grazie anche a quanto riferivano le sue "pazienti", mise a punto il cosiddetto "metodo catartico", favorendo l'espressione verbale, oggi diremmo la narrazione, dei conflitti che stavano alla base del sintomo nevrotico, e che, secondo la sua valutazione, erano di solito di tipo sessuale. Da qui prese inizio la psicoanalisi, e che consiste nella messa a punto progressiva di una psicologia dinamica.
Freud, comunque, ci ha insegnato che lo psicologo clinico, come del resto e in primo luogo lo psicoanalista e in generale lo psicoterapeuta, devono fare i conti con le loro contraddizioni psichiche e la tendenza a patologizzare, e trovare la via per contenere la propria "pulsione di morte". Massimo Recalcati giustamente ha osservato che la "pulsione di morte" andrebbe indirizzata e sublimata verso finalità favorevoli alla vita (Recalcati, 2007). In Freud, d'altronde, psicoanalisi e scrittura (v. Mahony, 1987, tr. it. 1992) sono state due pratiche inscindibili, dal punto di vista sia diagnostico che auto-terapeutico, a partire dal disagio che lo accompagnò, esistenzialmente, per tutta la vita. Freud scriveva molto bene, al punto che ricevette, come sappiamo, il Premio Goethe per la letteratura.
Il disagio di Freud e la sua, come direbbe Melanie Klein, "pulsione epistemofilica" per conoscerlo e addomesticarlo, dovrebbe far riflettere quegli psicoanalisti, psichiatri, psicologi, psicoterapeuti che ci tengono a mostrare agli altri quel falso Sé che consiste nella "fuga nella salute", come se il tempo non scalfisse il loro divenire umano ed evitasse di farli ammalare, apparendo immortali, perfetti, sempre in salute, negando agli altri la loro verità nell'esibizione di una maschera ufficiale. E' ovvio, credo, che ciò non ha nulla a che fare con la "salute" a cui si riferisce l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). James Hillman in un suo poderoso saggio aveva sottolineato che è proprio della mente umana, e quindi di tutti gli esseri umani, la tendenza a patologizzare (Hillman, 1975, tr. it. 1983). Se l'OMS nella Conferenza di Helsinki del 2005 ha stabilito che non c'è salute se non c'è "salute mentale", ciò significa che, in tutta umiltà, dobbiamo prenderci cura di noi stessi e che la "salute mentale" non si conquista una volta per tutte, ma comporta una sorta di manutenzione della propria psicologia nel corso dell'esistenza. Non esistono le categorie astratte del "sano" e del "malato" in cui incasellare per sempre le persone, come tende a realizzare una certa psichiatria. In realtà, tutti siamo esposti alla patologia della psiche, come del resto ognuno di noi ha una sua salute mentale come persona unica, al di là della maschera dei falsi e ipocriti adattamenti e conformismi sociali.
Melanie Klein, per esempio, osservava che la nostra mente oscilla tra diversi modi di funzionamento che lei aveva chiamato "posizioni". La "posizione" più evoluta, lei diceva, non si conquista una volta per tutte, ma comporta sempre un nuovo lavoro psichico per raggiungerla, proprio perché la mente umana comporta una psicodinamica delle emozioni. Lo psichiatra e psicoterapeuta Luigi Cancrini, conosciuto e stimato sia negli ambienti 'psi-' che anche fuori, in un'intervista una volta disse, dopo tanti anni di lavoro, che era ritornato a sottoporsi a una psicoanalisi perché ne sentiva il bisogno. Questa affermazione pubblica di Cancrini è un esempio di umiltà e onestà di un operatore della "salute mentale" con molti anni di carriera alle spalle e direttore di una scuola di terapia familiare. Credo che tutti gli psichiatri, psicoanalisti, psicoterapeuti, psicologi, dovrebbero considerare esemplare l'onestà professionale di Cancrini, ma anche riflettere su quanto diceva Melanie Klein, ossia che la salute della mente non si conquista una volta per tutte, ma comporta un lavoro psichico continuo. Ciò si riallaccia a quanto Jung ha saggiamente osservato sul beneficio provvisorio della psicoanalisi, e di cui accenno in questo lavoro nel paragrafo successivo.
D'altra parte, un'altra insidia per la mente è la "fuga nella malattia". Carl Gustav Jung nella sua bella autobiografia Ricordi, sogni, riflessioni (Jung, 1961, tr. it. quarta ed., 1984) racconta un episodio della sua adolescenza in famiglia. Carl Gustav aveva iniziato a mostrare segni di disinteresse verso la scuola, e il padre era preoccupato per il suo futuro. Un giorno fece visita alla famiglia Jung un amico, e il padre di Carl Gustav rivelò a questo amico le preoccupazioni verso il figlio. Carl Gustav in realtà, di nascosto, aveva ascoltato le parole del padre nei suoi confronti, in quel momento di apertura al suo ospite, ed ebbe una sorta di illuminazione che gli fece abbandonare quella momentanea fuga nella malattia in cui si era lasciato andare. Così decise di motivarsi a studiare e uscire fuori da quella crisi personale con una presa di coscienza responsabile.
Note sul trattamento psicoanalitico e su quello psicoterapeutico
Con Carl Gustav Jung nasce l'idea che deve essere lo stesso psicoanalista a sottoporsi a un trattamento analitico, prima che sottoponga ad analisi i suoi "pazienti". Successivamente, dalla seconda metà del Novecento fino a oggi, che viviamo in questa prima decade del XXI secolo, è diventata prassi comune ad ogni scuola di psicoterapia consigliare a ogni candidato psicoterapeuta di intraprendere un percorso di terapia personale, con un minimo di ore di terapia stabilito dalla scuola. Jung tuttavia è realisticamente disincantato, nonostante la sua concezione costruttiva della psicoterapia, sulla possibilità di ottenere la cosiddetta 'guarigione' una volta per tutte dopo un trattamento di psicoanalisi. Così egli scrive in La funzione trascendente (1958):
Secondo un pregiudizio universalmente diffuso, l'analisi sarebbe una sorta di "cura" alla quale bisogna sottoporsi per un certo periodo di tempo per venirne poi congedati una volta guariti. E' un errore tipico dei profani, che risale alle origini stesse della psicoanalisi. Senza dubbio il trattamento psicoanalitico può essere considerato un riaggiustamento dell'atteggiamento psicologico [...]. [...] può durare anche per un lungo periodo, ma sono assai rari i casi in cui una "cura" intrapresa un'unica volta ottiene un successo così durevole. [...] al contrario, non si deve perdere mai di vista il fatto che la vita dell'inconscio continua, e torna sempre a produrre situazioni problematiche. Non è il caso di essere pessimisti: dopotutto abbiamo assistito a troppi risultati positivi, ottenuti con l'aiuto della fortuna e di un lavoro approfondito. Ma questo non ci impedirà di tenere conto del fatto che l'analisi non è una "cura" buona una volta per tutte, bensì in primo luogo un semplice riaggiustamento più o meno radicale. Cambiamenti che abbiano validità incondizionata e illimitata nel tempo non ne esistono assolutamente. La vita esige d'essere sempre riconquistata da capo.
(Jung, 1958, in tr. it. 1972, p. 96).

Jung ha una visione etico-esistenziale sia della psicoanalisi/psicoterapia che delle problematiche psicologiche che ognuno di noi deve affrontare nella vita. Non esistono delle norme collettive che ci possono aiutare quando l'esistenza ci pone davanti dei conflitti fondamentali. Ad essi possiamo rispondere solo individualmente, con le nostre scelte. D'altra parte, Jung prende atto che i "pazienti" sono motivati a ritornare più di una volta dal loro analista o terapeuta, a causa delle loro difficoltà interiori e nella realtà esterna. Se ciò può non meravigliare, osserva Jung, tuttavia fa riflettere sul fatto che l'analisi non risolve i problemi psichici del "paziente" una volta per tutte. L'atteggiamento di Jung, in questo senso, riflette una certa filosofia esistenziale che fa parte del suo modo realistico di considerare le cose della vita. Nei confronti delle "difficoltà" che si incontrano nel corso del tempo non c'è nessuna terapia che si possa proporre, anzi, si deve constatare con Jung, che sono proprio tali "difficoltà" a far parte della salute. Al contrario, solo l'eccesso di ostacoli che si incontrano nell'esistenza li fa considerare fastidi di cui si potrebbe fare a meno. Infine, Jung è dell'avviso che in psicoterapia non si tratta soltanto di considerare il modo come risolvere le difficoltà presenti, ma anche "nel sapere come affrontare con successo difficoltà future", quale atteggiamento in senso "spirituale-morale" è più consono davanti "agli influssi perturbatori dell'inconscio", e come il terapeuta può cercare di "trasmetterlo" al "paziente". (Jung, 1958, tr. it. 1972, pp. 96-97).
Renzo Carli, professore ordinario di Psicologia clinica allla Facoltà di Psicologia dell'Università di Roma, ha precisato che una funzione importante dello psicoterapeuta è quella di favorire il passaggio trasformativo dalla dimensione fantasmatica del "paziente" all'alleanza terapeutica orientata all'interrogazione e alla riflessione nei confronti della loro relazione diadica. In questo senso, secondo Carli si tratta di istituire la "posizione meta rispetto agli eventi che via via si succedono nel corso della cura". In altri termini, Carli sottolinea che la funzione essenziale che caratterizza la psicoterapia sia "l'atteggiamento interrogativo". Su questa base si forma l'identificazione tra le due componenti della coppia psicoterapeutica. In questo modo, il loro lavoro si avvale di due componenti fondamentali: da una parte un "apprendimento metodologico" che istituisce la "ricerca di senso", permettendo di attribuire un compito molto rilevante allo psicoterapeuta nei confronti dell'esperienza di "cura"; dall'altra abbiamo la "comprensione di senso" nei confronti dei sintomi, ricercando il loro significato latente. (Carli, 1987, pp. 167-168).
Rispetto al colloquio con la persona adulta, Adriana Lis, professore associato di Psicologia clinica all'Università di Padova, scrive un passo importante nel suo Psicologia clinica che vale la pena di riportare citando la stessa autrice:
Ci si aspetta mediamente che in condizioni normali una persona adulta sappia avere relazioni soddisfacenti e costruttive con gli altri, sappia individuare dei legami privilegiati e ne tenga vivo il desiderio, ma anche che abbia la capacità di stare sola in determinate circostanze e di tollerare la propria solitudine, senza sentirsi disperatamente abbandonata, ma per così dire in compagnia di un proprio mondo interiore che mantiene il legame con la realtà.
(Lis, 1993, p.68).

Nelle parole di questo brano di Adriana Lis echeggia quanto ha scritto Donald W. Winnicott nel suo lavoro letto il 24 luglio 1957 alla Società Psicoanalitica Inglese, dal titolo La capacità di essere solo. In questo lavoro, Winnicott all'inizio premette che altri analisti hanno scritto sul desiderio o la paura della solitudine, mentre, a suo parere, occorre anche considerare gli "aspetti positivi della capacità di essere soli". E' comune credere che la solitudine sia una condizione subita, per cui la persona poi, in tale condizione 'forzata', debba trovarsi a soffrire molto. Winnicott vuole ribaltare questo pregiudizio nei confronti della solitudine. Egli, infatti, osserva che della solitudine si può anche godere, e che questa capacità viene acquisita durante l'infanzia. Già in questa prima parte della vita, lo stare soli può essere vissuto come "un bene assai prezioso" e "altamente raffinato". Alla base della capacità di essere solo, puntualizza Winnicott, c'è l'esperienza, già nella prima infanzia, di essere solo quando la madre è invece presente al piccolo. Questo tipo di esperienza appare "paradossale", perché si sperimenta l'essere solo "in presenza di un'altra persona". Nelle epoche successive della vita, scrive Winnicott, "la capacità di essere soli è quasi sinonimo di maturità emotiva". Anche nella situazione post-orgasmica, cioè dopo un rapporto sessuale, osserva ancora Winnicott, i partner si trovano soli, eppure sono felici di esserlo. Questa solitudine in presenza dell'altro si può considerare come "un'esperienza sana", ed è una solitudine che non comporta il ritiro in se stessi. (Winnicott, 1957, in 1965, tr. it. 1970, 29-33).
Parlare della capacità di essere soli nel 2007 è importante se, per esempio, a Berlino, in una popolazione superiore a tre milioni di abitanti più della metà, cioè un milione e settecentomila, vivono come single (Aspesi, "Single. Il tramonto del partner", in la Repubblica, 14 dicembre 2007). Anche in Italia i single sono in crescita, anche se le nostre città non raggiungono il record di Berlino. Questa annotazione statistica e sociologica è un indicatore di come saranno le nostre società del futuro, cioè costituite da individui che preferiranno sempre più abitare da soli, senza tuttavia escludersi da relazioni significative con gli altri. Se la tendenza è questa, ebbene che la psicologia clinica e la psichiatria rivedano il significato dell'esperienza di solitudine e di relazione, anche perché queste due esperienze, in realtà, sono in stretto rapporto tra loro. Infatti, la "relazionalità dell'Io" di cui parla Winnicott è considerata come una "potenzialità, più che un atto di relazione" (Winnicott, 1957, in 1965, tr. it. 1970, p. 31, nota a piè di pagina).
Tuttavia, lo stile e la filosofia di vita single comporta e comporterà sempre di più un insieme di problemi politici, sociali, economici, culturali, se non relazionali e del vivere pratico, che richiede dei cambiamenti collettivi e nella mentalità generale delle persone. Dal punto di vista sociologico, il fenomeno single è da mettere in relazione con l'idea di libertà e i processi di individualizzazione (Beck, 1994, 1996, 1997, tr. it. 2000) che sono ormai in atto nelle nostre società liquide occidentali. Come ha osservato Zygmunt Bauman (Bauman, 2000, tr. it. 2002; Bauman, 2003, tr. it. 2004; Bauman, 2005, tr. it. 2006; Bauman, 2006a, tr. it. 2007; Bauman, 2006b, tr. it. 2007) a cui si deve la formulazione dei concetti di "società liquida", "modernità liquida", "vita liquida", "amore liquido" e "paura liquida", non è detto che tutti gli individui siano in grado di sentirsi all'altezza di vivere un'esistenza disancorata da qualsiasi salvagente politico-sociale-economico, di fronte alla crisi del welfare State. Anzi, la modernità liquida comporta un alto grado di insicurezza e incertezza del vivere, inoltre accresce l'angoscia da tollerare e gestire a livello individuale. E' però un'esperienza comune che il vivere in maniera individualizzata, ognuno per conto proprio, senza poter ricorrere a delle solidarietà sociali istituzionalizzate in caso di bisogno, è senza dubbio causa di disagio per le singole persone, e per la collettività nel suo insieme. In questo senso, la consapevolezza che l'intervento dello psicologo clinico avviene nel contesto di una "società del rischio" (U. Beck, 1986, tr. it. 2000) e delle problematiche che emergono dal vivere in una "modernità liquida" (Bauman, 2000, tr. it. 2002) credo che sia importante.
La psicologia clinica
La psicoterapia è uno dei compiti di cui si può occupare lo stesso psicologo clinico, ma il suo ruolo fondamentale è quello di formulare una valutazione delle risorse e del disagio dell'"utente" che si rivolge a lui, sia che prende l'iniziativa la stessa persona che 'sta male', o che sia un inviante a proporne la valutazione clinica. La psicologia clinica si interessa, dunque, di "clinica", ma questo aggettivo non ha nulla a che spartire con l'uso che ne fa la medicina del corpo umano. Sheldon J. Korchin, in tal senso, scrive:
La psicologia clinica si occupa della comprensione e del miglioramento del funzionamento umano. Insieme ad altre branche della psicologia e delle scienze del comportamento essa condivide il compito di accrescere la conoscenza dei principi del funzionamento psichico nella "gente in generale", ma la sua competenza specifica riguarda i problemi umani delle "persone in particolare". Facendo parte delle professioni che rientrano nel campo dell'igiene mentale, la psicologia clinica partecipa alla responsabilità di migliorare il benessere di coloro che sono affetti da disturbi psichici. In quanto disciplina clinica, essa si dedica a migliorare la sorte degli indidivui sofferenti, servendosi delle migliori cognizioni e tecniche disponibili e sforzandosi, attraverso la ricerca, di accrescere la conoscenza e di affinare le tecniche necessarie ad aumentare l'efficacia degli interventi futuri.
(Korchin, 1976, tr. it. 1977, p. 11).

Lo stesso Korchin specifica che
[...] il termine "clinico" sarà impiegato per designare chiunque, con interventi sistematici, tenta di modificare e migliorare lo stato del paziente. Tali interventi possono consistere nello studio della personalità per ricercare le potenziali cause del suo cattivo funzionamento e programmare gli interventi appropriati; oppure possono consistere in uno dei vari tipi di attività psicoterapeutica; o, ancora, possono consistere in azioni svolte sull'ambiente sociale del paziente, sulla famiglia, sulla scuola, sull'ambiente di lavoro o sulla comunità in senso lato.
(Korchin, 1976, tr. it. 1977, p. 14).
Psicologo clinico e psichiatra
Lo psicologo e psicoterapeuta Carl R. Rogers durante la sua attività di professore universitario nell'Università del Wisconsin (periodo 1957-1963) sperimentò l'amara esperienza del conflitto con gli psichiatri in un ambiente che considerò alienante e chiuso al nuovo, per cui, avendo sperimentato delle angosce rimanendo in quell'ambiente, decise di dare le dimissioni e di continuare la sua attività di psicologo e psicoterapeuta al di fuori dell'ambiente accademico. Sappiamo quanto consenso e successo Rogers ebbe, anche dopo che se ne andò dal mondo universitario, nell'ambito della sua professione nel mondo intero, fino al punto di essere proposto al Premio Nobel per la Pace per il suo attivismo nell'ambito delle relazioni internazionali. Questo però, come si suol dire, è un altro discorso e ci porterebbe fuori dall'argomento che in questo paragrafo intendo trattare. Quello che però voglio sottolineare è che Rogers è stato uno psicologo innovativo e che le sue idee nuove nell'ambito della psicoterapia incontrarono l'ostilità degli psichiatri nell'ambito universitario dove lui stesso insegnava (Rogers, Russell, 2002, tr. it. 2006, pp. 38-39) .
Nel 1976, quando Korchin pubblicò a New Jork per la Basic Book il suo Modern Clinical Psychology, anche lui rilevò "le tensioni" che anche oggi intercorrono tra la professione dello psicologo clinico e quella dello psichiatra, anche se queste due professioni di solito collaborano in sinergia tra loro. Tuttavia, osserva Korchin, accade che
molti psichiatri si oppongono alla pratica indipendente della psicoterapia da parte degli psicologi. [...]. Basti per ora notare che gli argomenti di tutte e due le parti, sebbene espressi in termini di benessere del paziente e di convenienza sociale, riflettono spesso interessi di potere professionale, di orgoglio, di prestigio e interessi economici.
(Korchin, 1976, tr. it. 1977, pp. 39-40).

I conflitti che affliggono, strutturalmente, queste due professioni, psichiatri e psicologi, da un punto di vista sia morale che deontologico sono un dato di fatto riprorevole. Di solito sono gli psichiatri i soggetti che provocano questi conflitti, anche perché hanno più potere istituzionale negli ambienti di lavoro dove esercitano la loro professione. Ciò non toglie che anche gli psicologi devono farsi carico delle loro responsabilità nei confronti di queste difficoltà relazionali, e agire di conseguenza per ottenere il rispetto per la dignità, il riconoscimento e la qualità della loro professionalità.
E' interessante notare che dodici anni dopo che Korchin aveva pubblicato la sua importante opera sulla psicologia clinica negli Stati Uniti, in Italia Grasso, Lombardo e Pinkus pubblicano nel 1988 un saggio sulla psicologia clinica dove rilevano le stesse difficoltà di cui aveva scritto Korchin tra la figura dello psicologo clinico e quella dello psichiatra. Così scrivono, in questo senso:
[...] è storica ormai l'incomprensione e in molti casi la forte ostilità della nuova psichiatria nei confronti tanto della psicologia quanto dello psicologo visto come un professionista "laico" con un bagaglio di conoscenze teorico-pratiche specifiche e un ruolo professionale autonomo in questo come in altri campi della sanità.
(Grasso, Lombardo, Pinkus, 1988, p. 45).

Dobbiamo aggiungere che nel 2006 la psichiatria ha cercato di derubare gli psicologi della specializzazione universitaria, post-laurea, in "psicologia clinica" con una proposta di legge approvata nel periodo estivo, proprio quando i parlamentari presenti nei due rami del Parlamento erano quelli di parte, favorevoli agli psichiatri, in aule semideserte. Per diversi mesi ormai sembrava che le cose fossero così e che ci si doveva rassegnare allo 'scippo' di psicologia clinica da parte degli psichiatri agli psicologi. Poi, grazie all'interessamento dei vertici sindacali e di altre rappresentanze apicali, la specializzazione in psicologia clinica è di nuovo passata agli psicologi con un nuovo provvedimento legislativo.
E' da sottolineare che anche in questi anni della prima decade del XXI secolo la situazione tra psicologi clinici e psichiatri, nell'ambito della sanità pubblica, non è cambiata, forse è anche peggiorata per l'accresciuto potere che hanno gli psichiatri, avendo carta bianca sul loro operato da parte del vertice burocratico-amministrativo istituzionale delle asl, e per il ricorso a pratiche mobbizzanti anche nei confronti degli psicologi clinici, quando gli psichiatri tentano di delegittimare il loro operato professionale e disfarsene con strategie gruppali di espulsione dal loro servizio. D'altra parte, sconcertante constatazione, nei servizi delle asl, è quella di psicologhe che hanno una scarsa gestione della psicodinamica delle loro emozioni negative (invidia, vendetta, isolamento sadico a danno di terzi, meschinerie, tendenza a umiliare in combutta con altri operatori), nonostante una considerevole anzianità di servizio, e che abusano della loro posizione istituzionale mostrando una disdicevole identificazione con l'aggressore, in funzione anche loro, come gli psichiatri, di pericolose e irresponsabili pratiche mobbizzanti nei confronti di altri psicologi.
Lo psicologo clinico e il passaggio dal modello bio-psico-sociale a quello bio-psico-socio-cultural-ecologico
Lo psicologo clinico si occupa, in modo particolare ma non esclusivo, del caso singolo, come osserva Korchin, e cerca di essere di aiuto all' "utente", o "paziente" o "cliente", come si voglia chiamare la persona sofferente che si è rivolta a lui, agendo attraverso diversi canali. All'"utente" può essere proposta una psicoterapia per migliorare il suo assetto mentale, oppure una terapia di coppia se il problema centrale si sposta sulla coppia, o una terapia familiare, o si tratta di agire su altri terreni relazionali come nel caso dell'ambiente di lavoro o quello scolastico. Tuttavia, non è detto che tutte queste competenze devono appartenere allo stesso psicologo, per cui egli può farsi carico di quelle per cui si è formato, mentre per le altre può inviare l'"utente" a un collega con le altre competenze richieste, o a un servizio pubblico che tratta problemi specifici.
Lo psicologo clinico, ormai da tempo, tiene conto del modello classico bio-psico-sociale nel considerare i problemi della persona che ha chiesto aiuto, tuttavia tale modello ha fatto il suo tempo e ha bisogno di essere allargato anche ad altre dimensioni come quella culturale (come insegna sia la psicologia culturale che la psichiatria culturale, rispetto, per esempio, alle problematiche etniche e multiculturali) e quella ecologica (che studia questioni che riguardano il rapporto tra l'individuo e l'ambiente, come insegna Gregory Bateson, ma anche la qualità ecologica della mente di cui si sono occupati, oltre Bateson, anche gli psicoanalisti, come, per esempio, Michael Eigen con Cibo tossico, o sul versante orientale un autore come Osho Rajneesh con Dalla medicazione alla meditazione). In questo senso, mi sembra legittimo poter parlare di un modello bio-psico-socio-cultural-ecologico nell'affrontare i problemi delle persone sofferenti che si rivolgono allo psicologo clinico in cerca di aiuto. In questo senso, allora, l'ambito d'intervento dello psicologo clinico deve tenere in considerazione più variabili intervenienti nel suo lavoro, mentre il suo punto di vista va raffinato secondo una prospettiva sintetica, oltre che analitica, tenendo in considerazione il modo di affrontare le questioni secondo l'epistemologia della complessità. Quando si tratta di combattere lo stigma, i pregiudizi razziali, l'emarginazione sociale, l'intervento dello psicologo può allora fare riferimento al modello bio-psico-socio-cultural-ecologico, e non solo alla tradizionale prospettiva psicosociale. E' importante, in questo senso, che lo psicologo clinico abbia una buona formazione sociologica e antropologica che non sia una preparazione solo storica di queste discipline, ma anche aggiornata agli studi più recenti, in modo da poter disporre di una lettura attuale dei problemi di cui deve occuparsi. L'individuo non può, d'altro canto, essere considerato in se stesso soltanto, come ha fatto una certa psicoanalisi, guardando esclusivamente alla dimensione intrapsichica delle difficoltà personali, d'altra parte importante e fondamentale per il lavoro psicologico.
L'essere umano è in ogni caso situato in un contesto ambientale (fisico, urbano e sociale), e i suoi problemi sono derivati dalle difficoltà che emergono nella soddisfazione delle sue motivazioni personali, Freud direbbe "pulsionali", lungo il continuum tra i poli del conflitto e dell'integrazione, dell'inclusione e dell'esclusione sociale. Con Gregory Bateson (Bateson, 1972, tr. it. 1976) sappiamo quanto sia importante evitare la scissione tra l'essere umano e l'ambiente, per evitare danni sia al primo che al secondo, mentre la realtà delle cose ci conferma che, purtroppo, questa scissione esiste, così come i danni ad entrambi le parti di questa diade. La trascuratezza e il saccheggio della natura ha provocato lesioni e impoverimenti all'ambiente fisico, mentre le conseguenze di questi danni alle risorse ambientali ora si stanno ripercuotendo sull'uomo stesso, ad iniziare dalla sua salute complessiva.
Cosa accade nei servizi pubblici psichiatrici
Nei servizi pubblici psichiatrici, nell'Italia del primo decennio del XXI secolo, il "modello della custodia" e quello "comunitario" tendono a confondersi, mentre il "modello terapeutico" dello psicoterapeuta è diventato minoritario, a causa del processo di privatizzazione della psicoterapia inaugurato negli anni dell'ideologia neoliberista al potere. L'utente dei servizi psichiatrici è percepito come "malato", secondo il modello medico, il disagio viene fatto ricadere esclusivamente su di lui, per cui l'istituzione tende a controllarlo e a medicalizzarlo con gli psicofarmaci. Loic Wacquant (Wacquant, 2004, tr. it. 2006) ha osservato come la tendenza del sistema sociale odierno, governato da una politica neoliberista, tende a punire i poveri sia con il carcere o con la medicalizzazione psichiatrica. Zygmunt Bauman (Bauman, 2006a, tr. it. 2007, pp. 58-60) ha sottolineato che i poveri sono dei consumatori imperfetti o "difettosi" poco utili al sistema consumistico, per cui la tendenza è quella di cercare di fare a meno di loro, anche perché sono delle potenziali minacce nei confronti dei bravi consumatori ricchi che rischiano di essere derubati dai poveri. In questo senso, i poveri vengono stigmatizzati dal sistema perché vengono percepiti come potenziali delinquenti. Vengono allora messi in atto dei dispositivi di sicurezza da parte del sistema politico-sociale, attraverso il controllo repressivo della polizia e la possibilità del carcere, da una parte, e il controllo della medicalizzazione psichiatrica nei confronti delle persone "disturbate", dall'altra. La via più breve è quella psicofarmacologica, che riduce lo stato mentale del soggetto a quello vegetale, mentre la psicoterapia viene limitata a una cerchia selezionata di utenti, più nel privato che nella sanità pubblica, più a pagamento che come un servizio pubblico gratuito. Il censo diventa allora un'altra forma di selezione, per cui sono i benestanti o il ceto medio superiore che può permettersi la psicoterapia privata. Gli altri sono costretti ad arrangiarsi con una 'cura di massa' depersonalizzata. Se non è il modello custodialistico, è quello comunitario ad essere adottato dal servizio psichiatrico pubblico attraverso interventi di tipo sociale finalizzati all'"adattamento" del "paziente". Sia nel caso del modello custodialistico che quello comunitario, l'individuo sofferente è considerato sempre nell'ottica della medicalizzazione o dell'assistenza sociale, dunque si ha a che fare con un "paziente", non con una persona. E' nel modello terapeutico adottato dallo psicologo clinico/psicoterapeuta che invece il soggetto sofferente è considerato come una persona da aiutare per un miglioramento del suo assetto mentale e per sviluppare nuove modalità relazionali.
Inadeguatezza del "modello medico" nei confronti delle problematiche psichiche e relazionali
Come già era chiaro negli anni '60 del XX secolo, da parte di esperti di diversa estrazione professionale, il "modello medico" per quanto riguarda il disagio mentale impedisce una adeguata comprensione dei problemi mentali, così come il trattamento che dev'essere adottato in maniera pertinente. Tutti, già allora, erano d'accordo nel mettere da parte tale modello che risultava fuorviante e che distorceva la natura delle difficoltà psicosociali dell'utente (Korchin, 1976, tr. it. 1977, p. 159). Se confrontiamo quanto scrive Korchin nel suo Modern Clinical Psychology, a metà circa degli anni '70 del secolo scorso, e quanto viene rilevato dai sociologi critici del neoliberismo e della globalizzazione (Wacquant, Bauman) in questi primi anni del XXI secolo, emergono delle analogie sconfortanti e attuali. Così scrive Korchin:
Attraverso quelle che vengono chiamate cure mediche, i devianti vengono in realtà puniti e incarcerati. La medicina non può e non deve giudicare questioni etiche e sociali. Szasz sosteneva perciò che i disturbi psichici dovevano essere "... considerati come la espressione della lotta che l'uomo conduce con il problema di come dovrebbe vivere". E, ancora: "La malattia mentale è un mito avente la funzione di mascherare, ovvero di addolcire l'amara pillola dei conflitti morali nelle relazioni umane."
(Korchin, 1976, tr. it. p. 160).

Tendenza soprattutto di non pochi psichiatri è quello di attribuire un'importanza distorcente alla diagnosi psichiatrica, dunque, percependo riduttivamente l'utente attraverso le etichette psichiatriche, trascurando quelle che sono le sue risorse e potenzialità di cambiamento. Percepire l'utente prevalentemente attraverso l'etichettatura psichiatrica, non fa che distorcere la sua soggettività, nuocendo allo stesso intervento terapeutico. Il sociologo Erving Goffman, in Asylums, aveva studiato questo fenomeno a Washington nell'internamento dei "pazienti" in un ospedale psichiatrico, svelando quali fossero, in tale ambiente considerato come "istituzione totale", "i meccanismi dell'esclusione e della violenza" (Goffman, 1961, tr. it. 2001). La diagnosi in psichiatria, in altri termini, distorce il processo percettivo e cognitivo dello stesso operatore, e nasconde un'insidia sottile nei confronti del "paziente", che così rischia non solo l'etichettatura attraverso cui vede se stesso e che lo danneggia in quanto gli si crea una falsa credenza, ma è proprio questa falsa credenza diagnostica che inoltre lo stigmatizza e può ghettizzarlo in un ricovero ospedaliero, come nella percezione sociale che la comunità può avere nei suoi confronti (v. Korchin, 1976, tr. it. 1977, p. 163).
In un bel saggio del 1999, Il coraggio di cambiare, Donata Francescato e Willi Pasini hanno messo in evidenza i fallimenti della sanità pubblica in Italia e della sua cattiva organizzazione in gerarchie rigide e obsolete. Secondo loro il "modello medico" è fallimentare e occorre cambiarlo con il "modello sociale". Uno dei fallimenti della sanità pubblica, loro affermano, è anche da ricercare nel fatto che non si dà spazio al merito degli operatori, e che i medici si sono organizzati corporativamente proprio quando sanno che il loro modo di operare sta perdendo di credibilità.
L'epoca dell'emergenza ecologica e il disagio psichico connesso ad essa
Edgar Morin considera l'epoca in cui stiamo vivendo come l'"era dell'ecologia", in un articolo comparso su la Repubblica del 27 novembre 2007, p. 27. Morin accenna ai gravi problemi ambientali, politici, alla circolazione di armi da guerra, alle logiche di vendetta, alla barbarie che domina il nostro pianeta e che si maschera dietro il "calcolo tecno-economico", al sapere frammentato che ci impedisce di fare il punto sulle questioni essenziali e globali. Se le cose stanno così, allora c'è da disperarsi sul destino della vita in generale e dell'uomo stesso. Morin, tuttavia, proprio in questa disperazione che domina l'attuale epoca individua tre possibili speranze: 1) che possa accadere l'improbabile; 2) la fede nelle potenzialità umane inespresse; 3) la possibilità di una metamoforsi. L'improbabile si può comprendere solo se consideriamo il probabile. Quest'ultimo non è ciò che accadrà date certe condizioni, perché ci sono casi in cui il probabile non si verifica, mentre accade l'improbabile. D'altro canto, è da mettere in conto che gli esseri umani sono dotati di "forze generatrici e rigeneratrici" che nella civiltà possono addormentarsi o logorarsi. Morin osserva che bisogna risvegliare queste "forze", sviluppandole proprio nella situazione di crisi. Solo così esse potrebbero permetterci di intraprendere una nuova direzione buona per noi tutti, e indicarci "un nuovo inizio". Infine, abbiamo bisogno di una metamorfosi, un cambiamento che ci permetta di trasformarci in un sistema vivente "più complesso e più ricco". Siamo arrivati a un punto in cui o periamo o ci trasformiamo. Nella situazione in cui ci troviamo con la globalizzazione, osserva Morin, non possiamo stagnare in essa, ma superarla in quella che lui chiama "società mondo", che si può realizzare con una "politica della civiltà" e una "politica dell'umanità". Da una parte c'è il rischio della morte del pianeta, dall'altra la rigenerazione in una nuova possibilità di vita. E' però nella disperazione che nasce la spinta verso la speranza. La speranza complessiva, allora, secondo Morin, consiste nella metamorfosi verso la "società mondo".
Se, dunque, stiamo vivendo un'emergenza ecologica globale, possiamo chiederci in che senso ciò può essere importante per lo psicologo clinico. Si tratta di trovare i nessi tra le problematiche che stiamo vivendo a livello ambientale e le loro ripercussioni sulle singole persone, sulla salute della loro mente e dell'organismo. Non possiamo fare a meno di rilevare l'accrescita indifferenza che caratterizza la "modernità liquida" (Bauman), di quel narcisismo che serpeggia nel modo di pensare 'ognuno per sé, dio per tutti', e che ha rimosso la solidarietà umana specialmente di fronte a quelle situazione di bisogno individuale/gruppale/collettivo a cui gli altri hanno voltato le spalle. A sua volta, è probabile che questi altri saranno costretti a subire la stessa indifferenza con cui loro hanno trattato coloro che hanno chiesto aiuto ma invano.
Adriano Zamperini, professore di Psicologia sociale all'Università di Padova, ha osservato che l'indifferenza equivale a un difetto di sensibilità, e che non è una sorta di 'malattia' morale del singolo, come si vorrebbe far credere, per cui l'indifferente dovrebbe essere sottoposto a un trattamento psicoeducazionale.
Secondo Zamperini, invece, nell'ottica dello psicologo sociale, l'indifferenza è un atteggiamento che deriva dal dilagante conformismo e da cui bisogna prendere le distanze con emozioni di dissenso, come nel caso del buon samaritano, capace di solidarietà verso il prossimo, invece di conformarsi all'insensibilità o indifferenza del passante distratto (Zamperini, 2007). Il narcisismo, del resto, è diventato una componente inalienabile, nel bene come nel male, della personalità di ognuno, tuttavia nelle situazioni di emergenza, come è accaduto il 21 settembre 2001 a New Jork, con la distruzione delle Twin Towers da parte dei terroristi, gli esseri umani hanno mostrato di essere ancora capaci di mobilitarsi per aiutare le persone che hanno bisogno di aiuto e assistenza.
L'emergenza ecologica in cui stiamo vivendo, come risulta dalle riflessioni dei sociologi, genera paura. Questa paura che nasce dalle problematiche ambientali, insieme alle varie ansie e insicurezze legate al lavoro flessibile, al caro vita, alla difficoltà di tenersi una casa a causa dei mutui 'impazziti' con interesse variabile, dunque alla scarsità di denaro per condurre una esistenza dignitosa, può rendere la vita più difficile e dura, e provocare quei disagi mentali e relazionali che fanno decidere le persone a richiedere un aiuto attraverso l'intervento dello psicologo clinico e dello psicoterapeuta. Sarebbe veramente una grave distorsione della realtà se gli psichiatri insistessero a voler applicare il loro "modello medico" di fronte a problematiche che possono essere affrontare o sul fronte psicoterapeutico, per un miglioramento dell'assetto mentale della persona sofferente che chiede aiuto, o su quello del cambiamento epocale, dunque di ordine politico, sociale, economico, culturale, ecologico. Tra queste due possibilità si inseriscono, certo, risposte intermedie, come la psicologia e la psichiatria di comunità nei casi di persone con difficoltà psico-esistenziali gravi, e che - come rilevano Grasso, Lombardo, Pinkus - sono soggetti ai tentativi di "recupero" nel sociale, a volte basati sulle manipolazioni degli utenti da parte degli operatori, e che caratterizza "quell'insieme scarsamente codificato di tecniche che possono essere definite di psichiatria socio-comunitaria" (Grasso, Lombardi, Pinkus, 1988, p. 45). In ogni caso, ciò che necessità, come emerge anche dalla 'seconda speranza' di Morin sopra citata, è l'incoraggiamento ad esprimere le risorse e le capacità personali negli individui che soffrono di qualche disagio, attivando la loro intelligenza, nelle sue possibili forme (almeno sette secondo Howard Gardner, in Gardner, 2005, tr. it. 2005), alfine di migliorare la loro autostima, la fiducia in se stessi, la sicurezza personale e una maggiore consapevolezza.
Per concludere, vorrei ricordare le qualità terapeutiche della risata e dello humour, come è stato evidenziato in qualche convegno degli psicoterapeuti, e soprattutto come affermano studi recenti e attendibili (v. gli articoli qui citati nei riferimenti bibliografici, di Agnese Codignola e di Anastasia Stephens, o il saggio di Robert R. Provine), ma anche qui bisogna fare attenzione, perché c'è la risata che, come si suol dire, 'fa buon sangue' e fa bene a tutti, mentre certe risate sadiche, che di terapeutico non hanno niente, risultano essere solo delle derisioni malevoli che è meglio evitare, sia tra colleghi che con gli utenti. Un'osservazione simile, del resto, si potrebbe fare anche con lo humour. Che Patch Adams e Groucho Marx siano con noi!
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