giovedì 5 settembre 2013

Il viaggio come trasformazione interiore e terapia psicologica


INDICE

1. Esistenzialismo del viaggio e del viaggiare

2. Il viaggio come esperienza trasformativa

3. Il viaggio come terapia psicologica

4. Il viaggio come bisogno di solitudine rigenerativa della personalità

5. Il ritorno a casa da un viaggio

6. L'uomo stanziale, L'homme qui marche, il viaggiatore

Riferimenti bibliografici

Riferimento cinematografico

Wikipedia, l'enciclopedia libera



1. Esistenzialismo del viaggio e del viaggiare

A parte il viaggio di massa nei Paesi occidentali per le ferie, soprattutto d'estate, quando ancora l'inizio della Prima Depressione Economica Mondiale del 2007-2008 non ha ancora decimato e cambiato le abitudini estive delle persone, il viaggio può assumere diverse valenze oltre a quello feriale e del conformismo abbronzante collettivo. Il rituale estivo è sempre quello, per la maggioranza  dei vacanzieri della stagione calda, tra cui ritornare al lavoro abbronzati per mostrare ai colleghi i segni del benessere, secondo un copione che si ripete ogni anno sempre allo stesso modo. Come se non esistessero altre alternative per stare bene, al di fuori di quel copione standard. Le persone conformiste usano comportarsi in questo modo. Al di là della 'facciata del vacanziere' che ha bisogno di segni per poter comunicare agli altri 'qualcosa di sé', come una abbronzatura, oppure lo status di un vestito diverso dagli altri, comunicare di essere stato in vacanza  vuole anche dire essere stato in viaggio 'da qualche parte', lasciando immaginare sia in meglio che in peggio il luogo dove il conoscente, l'amico, il collega o il datore di lavoro possano essere stati durante le ferie.
Essere o apparire, questo è il problema: se le persone sentono, ricordano, immaginano, pensano, si comportano in quanto sono se stesse, oppure sentono, ricordano, immaginano, pensano, si comportano come maschera e apparenza. Perché si viaggia, dal punto di vista psicologico, al di là delle giustificazioni superficiali comunicate al conoscente ritornati da un viaggio? Quale valore profondo e vero si dà al viaggio? Il viaggiare viene vissuto come un'esperienza personale che ci migliora o è solo una omologazione collettiva? Si viaggia scegliendo luoghi da visitare per la loro pregnanza simbolica, come arricchimento del Sé, o si viaggia come la fotocopia sbiadita di una guida turistica ormai inattendibile?...
In ogni caso, il viaggio è l'occasione per cambiare ambiente e per aprirsi all'avventura nel desiderio di nuove esperienze, secondo le proprie inclinazioni. Il viaggio è portatore anche di un cambiamento del  Sé (emozioni e sentimenti) e dell'Io (cognizioni e difese) se ci si espone al nuovo, alla differenza, alla conoscenza del 'non familiare' (unheimlich), come un salto nell'ignoto.
Si può viaggiare per lavoro, come nel caso dell'autista di un camion o di un informatore farmaceutico, spostandosi non solo da una città all'altra, ma anche da una regione all'altra per lunghe percorrenze. Ci si può spostare con furgoni, auto o altri automezzi per diversi motivi, piacevoli o spiacevoli. Si può viaggiare in treno, in bus, in moto, in bicicletta, in aereo, in nave, sopra un cavallo o un elefante. Ci si può spostare come turista, migrante, autostoppista, globetrotter, esperienza esistenziale, cura o terapia. Il viaggio è, del resto, molto 'gettonato' in letteratura e nelle sceneggiature dei filmBasti pensare al romanzo On the road, tradotto in italiano con il titolo Sulla strada, che è del 1957 e rappresenta il più famoso scritto di Jack Kerouac (Lowell, Massachusetts, 1922 - St. Petersburg, Florida, 1969), considerato il manifesto della Beat Generation.  In quel romanzo di estrazione esistenzialista, Kerouac manifesta il malessere della sua generazione e la ricerca di una nuova identità basata su una autenticità che invece i giovani di allora vedevano che nella loro società americana mancava. Essere  sulla strada, essere in viaggio, è una metafora della ricerca di se stessi. Il viaggio esprime movimento, un allontanarsi dalle proprie origini per conoscere altre persone, altri luoghi, per tentare di trovare se stessi in un lungo viaggio in cui la perdita delle origini esige una continua elaborazione del lutto per aprirsi verso nuove realtà oggettuali.
Ci sono attori giovani e privilegiati come Angelina Jolie Voight e William Bradley Pitt, detto Brad, che hanno tanti soldi e di cui  una buona parte investono nell'acquisto di ville e appartamenti sparsi per i cinque continenti, viaggiando con i loro numerosi figli, vivendo così da globetrotter, spostandosi da un capo e l'altro del mondo, diventando il viaggiare, per loro, un'esperienza così 'familiare' e 'frequente' per cui lo spazio-tempo del mondo geografico diventa la loro casa.  Vivere l'esistenza come famiglia cosmopolita e nella dimensione siamo spesso in viaggio comporta un cambiamento della personalità  e del tipo di valori verso un orientamento elitario all'esistenza della coppia Jolie-Pitt e della loro prole, aumentando la loro "solitudine felice" (Dolto, 1994, tr. it. 1996), pur mantenendo una certa apertura verso le loro relazioni private selezionate e quelle di lavoro.
Il viaggio comporta un 'essere gettati' in un allontanamento dal luogo iniziale che si abita per 'essere in viaggio verso' altrove e assumersi la responsabilità di questa avventura, del rischio di andare verso l' unheimlich, il 'non familiare', lo sconosciuto, come esigenza dell'inconscio di familiarizzare con il mondo più vasto ma ancora inesplorato, o ritrovare posti già conosciuti ma che è da tempo che non si presentificano, come spazi ritrovati nella propria geografia simbolica esterna-interna.
Erik J. Leed autore dell'interessante La mente del viaggiatore. Dall'Odissea al turismo globale ( Leed, 1991, tr. it. 1992) ci permette di riflettere sull'esperienza del viaggio, importante per la comprensione del viaggiare. Leed ci dà l'occasione per arricchirci di significati relativi al viaggio, di cui gli aspetti psicologici sono molto importanti. Non è un caso che Leed quando parla della "partenza" citi pure lo psicoanalista John Bowlby (Londra, 1907 - Isola di Skye, 1990), autore di saggi sull'esperienza della perdita e dell'elaborazione del lutto, come i tre volumi di Attaccamento e perdita degli anni 80' del Novecento, per considerare il viaggio dal punto di vista psicologico, in quanto esperienza che come il lutto per la perdita di qualcosa è caratterizzato da tre fasi essenziali, quali la protesta, la disperazione e il  distacco. Si dimentica Leed però di dire che la fase dell'accettazione della perdita rappresenti pure un'altra fase importante, a conclusione del processo di lutto normale. Queste fasi sono vissute da parte di chi resta e che vive una perdita, mentre chi parte, il viaggiatore, ricerca il viaggio per una questione non solo legata ai luoghi che vedrà, ma anche per rimescolare i 'pezzi' della sua identità e riconfigurarla con le nuove esperienze. C'è dunque, a mio avviso, un bisogno di rinnovamento interiore legato al viaggio. Leed dice che il viaggio si faceva prima anche come viaggio individuale, mentre oggi prevale il  viaggio di massa. In Gilgamesh, per esempio, il viaggio ha una dimensione eroica. Egli è un re che, a un certo punto della sua vita, sente la necessita del viaggio, ma viaggiare vuol dire anche separarsi dalla sua terra e questo non è bene accettato dalla madre e dal suo popolo, che piange questo allontanamento e spera nel ritorno del figlio. Il viaggio, tuttavia, è necessario per espandere, nello spazio e nel tempo, la personalità di Gilgamesh, farsi conoscere in altre terre.
Oggi si viaggia anche come esperienza individuale. Non c'è solo il viaggio delle ferie che si passano al mare o in montagna, c'è pure il viaggio culturale che riguarda l'arricchimento del proprio spirito, conoscendo altre città, visitando musei o gallerie d'arte, chiese medievali, gustando pietanze del luogo che si va a visitare, conoscendo altre persone che si incontrano lungo il proprio viaggio, o persone che si conoscono e che vivono in quei posti che si va a visitare (amici, parenti, colleghi di lavoro, studiosi, amante). I luoghi che si vanno a visitare, lontani dal proprio, rappresentano un "oggetto trasformativo" (Bollas, 1987, tr. it. 1989)) che può favorire "un mutamento dell'io" (Leed), e che permette di vivere l'intimità della propria solitudine ricercata come benessere percettivo-estetico rispetto all'altrove dei luoghi naturali e culturali preferiti e che non si vivono nella propria realtà abitudinaria, come occasione anche di fare nuove conoscenze e creare scambi interattivi con persone di altri contesti sociali e culturali. Certo, siamo nell'epoca dei viaggi globali e di massa, dei viaggi organizzati in gruppo, ma non tutti viaggiano così, altri preferiscono il viaggio esistenziale, viaggiando soli o in coppia, senza programmare nulla, rischiando pure di non trovare un albergo libero nella città che si va a trovare, per amore dell'avventura, anche se oggi è difficile non trovare un albergo con qualche posto, tranne periodi in cui una città viene invasa da stranieri o da provinciali per una fiera o qualcosa del genere.
 

2. Il viaggio come esperienza trasformativa

Eric J. Leed, giustamente, osserva che il viaggio è un'esperienza di  trasformazione, di "modificazione dell'io". Ciò, del resto, viene messo in evidenza da uno scritto della sociologa Valene Smith, citata dallo stesso Leed, a proposito di una delle motivazioni fondamentali del turista, osservando che egli è "una persona che può disporre temporaneamente del suo tempo, che visita per sua scelta un luogo lontano da casa, allo scopo di fare l'esperienza di un mutamento" (Smith, 1977, p. 2, in Leed, 1991, tr. it. 1992, p. 353).
Lo scopo del viaggio è perciò quello di un'esperienza transitoria che purifica e rigenera, e se non c'è questa trasformazione allora il viaggio ha fallito il suo obiettivo.  La motivazione a viaggiare, nella modernità di oggi, sarebbe, dunque, quel vuoto di bellezza e di significato che spinge il viaggiatore a cercare altro dalla propria realtà nel luogo di vita quotidiano. Il viaggiatore cerca la "terra delle origini". Così, dice Leed, il movimento verso "l'esterno", come il recarsi nelle città storiche, è poi compensato da un viaggio verso "l'interno". Si vanno a trovare città come "Firenze, Praga, Parigi, Roma e Gerusalemme", città che ricordano la perdita di un mondo, quello del passato, e che hanno dato vita anche a un nuovo mondo. C'è in questo modo di viaggiare qualcosa che fa pensare al "viaggio filosofico" di un tempo, proprio perché siamo assetati di "significato e contenuti", per cui "i vecchi motivi" ritornano a motivare i nostri viaggi anche se con forme differenti (Leed, 1991, tr. it. 1992, pp. 354-355).
Si viaggia, del resto, per chiarire la propria identità ponendosi in un rapporto di contrapposizione e di differenza con altre persone e ambienti. Lo scrittore e grande viaggiatore Paul Bowles, per esempio, osserva che non avrebbe senso viaggiare per vedere le stesse cose e le stesse persone, o mentalità che si trovano nel posto dove si sta. Da un viaggio, dice Bowles, ci si aspetta di incontrare ciò che è differente (Bowles, 1963, p. vii, in Leed, 1991, tr. it. 1992, pp. 352-353). Dunque, anche la ricerca della 'differenza' diventa  una motivazione del viaggio. Il viaggiatore viaggia per vivere una trasformazione interiore e questa può avvenire anche con il contatto con un altro posto e con gente diversa dal viaggiatore.


3. Il viaggio come terapia psicologica
 
In questo lavoro ci interessa soprattutto il viaggio come cura o terapia psicologica. Un caso esemplare potrebbe essere il viaggio di Michel Eyquem de Montaigne (Bordeaux, 1533 - Saint-Michel-de-Montaigne, 1592) nell'Italia Settentrionale per recarsi in un centro termale e curare i suoi dolorosi calcoli renali. A quei tempi, purtroppo, si viaggiava a cavallo o in carrozza e si trattava di viaggi scomodi e in cui bisognava guardarsi attorno per difendersi da eventuali trappole e da briganti che si potevano incontrare per strada. Per fortuna Montaigne era molto scaltro da questo punto di vista e aveva delle doti relazionali e diplomatiche che gli permettevano di venirne fuori da situazioni del genere. Se apparentemente il viaggio di Montaigne in Italia era  motivato dalla ricerca di sollievo dal dolore dei suoi calcoli, era anche un viaggio che aveva il suo corrispettivo psicologico nella sete di conoscenza di cose nuove da vedere e di avventurarsi in luoghi che non aveva mai visto. Il viaggio in Italia era anche, per Montaigne, l'occasione illusoria di migliorare, trasformare, il suo corpo per attraversare nuove esperienze di tipo terapeutico, per 'guarire' dai suoi calcoli.
In epoca più recente, è il caso di Melanie Reizes Klein (Vienna, 1882 - Londra, 1960), affermatasi, più tardi, come una delle più grandi psicoanaliste di tutti i tempi, a interessarci dal punto di vista del viaggio terapeutico. Dopo che si era sposata con l'ingegnere Arthur Stevan Klein e che aveva avuto tre figli, i conflitti con la madre vedova, Libussa Deutsch che viveva con lei, da cui Melanie si sentiva soffocata, le incomprensioni psicologiche relative alla relazione coniugale, la vita in provincia cha Melanie male sopportava, lavorando Arthur Stevan in un paesino, rendevano la vita di Melanie un inferno, di cui ne venivano a soffrire, indirettamente, anche i figli.
Così, Melanie per curare  la sua infelicità anche la madre le consigliava di mettersi in viaggio, di recarsi in altri posti alla figlia graditi e con qualche eventuale amica, in ogni caso di soggiornare altrove per curare la sua depressione. Così qualche volta Melanie viaggiava con un' amica, conosciuta nell'ambito della parentela del marito, e con lei si spostava lontano in una sua casa dalle parti di Berlino, un'amica con cui stava bene a livello relazionale. Le piaceva anche viaggiare e recarsi a Budapest, dove poi Melanie e la sua famiglia, insieme anche a Libussa, si stabilirono per un certo periodo di tempo.
Dopo la morte di Libussa (1914) e l'analisi di Melanie con Sandor Ferenczi (Miskolc, 1873 - Budapest, 1933), Melanie si mise in viaggio per Berlino. Dopo l'esperienza amara della Klein presso la Società di psicoanalisi berlinese, fu chiamata da Ernest Jones a trasferirsi a Londra e lavorare come membro della Società di psicoanalisi britannica dal 1926 in poi fino alla morte, avvenuta nel 1960. Con la fine dell'esperienza berlinese, la Klein divorziò dal marito, e a Londra visse una nuova fase, più all'insegna di un vero mutamento interiore segnato dall'individuazione come psicoanalista creativa, abbandonando ogni illusione d'amore, dopo la fine di una breve relazione vissuta con un giornalista ebreo, tra l'altro sposato e con prole.
Ritorniamo però indietro nella storia di questa donna molto bella e che credeva nel suo genio. Melanie era una donna  della grande città, nata a Vienna e vissuta là per buona parte della sua vita, e cadeva in una crisi depressiva all'altra dovendo vivere una vita isolata dalle sue relazioni significative, seguendo il marito per motivi di lavoro in piccole città tra Vienna e Budapest. D'altra parte, queste crisi di Melanie erano legate sia a una relazione con i genitori, e soprattutto con la madre, vissuta sotto il segno del rifiuto, di non essere, lei Melanie, accettata e amata come figlia e persona. Sappiamo, con William Ronald Dodds Fairbairn (1889 - Edimburgo, 1964) che il bambino piccolo vive la più grande delle frustrazioni quando dalla madre non viene amato come persona (Fairbairn, 1952, tr. it. 1970).
Così, la relazione problematica vissuta da Melanie come se fosse un succedaneo che veniva a sostituire Sidonie, la sorellina morta da bambina, fu questa per lei una grave frustrazione vissuta fin da piccola. (v. Grosskurth, 1987, tr. it. 1988). Da sposata, il viaggio, allora, diventava per Melanie Reizes Klein un'esperienza terapeutica, una sorta di 'medicina per i nervi' quando si separava dagli oggetti d'amore ambivalenti e ostili. A quei tempi, soprattutto, nei primi anni del Novecento, gli stessi medici consigliavano di viaggiare per ritrovare se stessi, dove il viaggio  veniva considerato una sorta di toccasana per la mente sofferente. D'altra parte, non è detto che la separazione dagli oggetti significativi sia sempre dolorosa, quando queste persone, con cui si è legati da affetti importanti, si rilevano problematiche e dolorose nella relazione stessa, per cui allontanarsi da loro attraverso il viaggio, come nel caso di Melanie Reizes Klein, diventa una occasione per riflettere sulla propria vita da lontano e dall'esterno di quell'ambiente vissuto nel segno della sofferenza interiore, e per ritrovare, nella solitudine, quella energia positiva per stare meglio con se stessi e pensare anche a possibili alternative future di vita.


4. Il viaggio come bisogno di solitudine rigenerativa della personalità

Possiamo chiederci come mai ci sono persone che si possono permettere il giro del mondo in barca a vela da soli, solcando i mari della Terra, oppure alpinisti solitari che cercano di salire una montagna altissima, rischiando la morte? Certo, si tratta di un'esperienza di solitudine, ma anche di altro. Lo psicologo Mihalyi Csikszentmihalyi nel saggio La corrente della vita (Csikszentmihalyi, 1990, tr. it. 1992) parla del "divenire della coscienza", di "motivazioni intrinsiche", di "sé autotelico" che trasforma le sfide e supera le minacce esterne, dove le sfide rappresentano occasioni per crescere, e che bisogna fare affidamento sulle "ricompense intrinseche", più che su quelle estrinseche che sono dell'ambiente esterno, come bisogna motivarsi all'azione dalle motivazioni interiori piuttosto che da quelle esterne a se stessi e che provengono dagli altri. Da questo punto di vista è importante il concetto di flow o flusso. Csikszentmihalyi introdusse il concetto di "flusso" nel 1975. Quando si è concentrati nello stato di flow si è del tutto presi da ciò che si sta facendo, e questo totale assorbimento fa sì che le altre cose passino in secondo piano, nello sfondo, spostando l'attenzione esclusivamente verso il focus della propria azione, concentrandosi su ciò in cui si è del tutto immersi o assorbiti. In questo modo il vissuto del momento diventa veramente un'esperienza.
La solitudine è un bisogno importante dell'uomo. Anche quando si sta soli si è in relazione, ma con se stessi e con gli oggetti interni, e si pensa con loro, con le dimensioni della variabile temporale (situazioni del passato, vissuti del presente, rappresentazioni del futuro), si formulano riflessioni circa come pensare se stessi (rappresentazioni dei vari aspetti dell'identità personale), riflessioni su come impostare la propria azione a venire, considerazioni relative al proprio Sé e al proprio Io, vivere situazioni di rilassamento e di auto-rigenerazione, realizzare dei viaggi da soli o in compagnia.
In questa capacità  di essere  solo (Winnicott, 1965, in seconda ed. riveduta, tr. it. 1974, pp. 29-39)  c'è una certa maturazione della personalità, come già osservato dallo psicoanalista Donald Woods Winnicott (Plymouth, 1896 - Londra, 1971). In fondo, si viaggia anche per stare da soli, anche se si può viaggiare con altri. Ci sono tante coppie che si godono l'intimità del vivere la propria solitudine in viaggio in presenza del proprio compagno. Questo fa ricordare quella situazione vissuta dal bambino che gioca in presenza della madre, ma da solo. Si tratta di una situazione gradita dal bambino, che gioca con i suoi giocattoli, ma che sa che nella stessa stanza, o in altre stanze della casa, c'è la madre, o qualche altro caregiver, a cui rivolgersi nel caso sente una necessità affettiva o altro. Questo dà al bambino sicurezza.
Si viaggia, dunque, anche per vivere in pace l'intimità del Sé e dell'Io con la propria solitudine, vedendo nuovi paesaggi in treno, per esempio, immaginando, pensando, scrivendo su un taccuino, simpatizzando con  sconosciuti, interagendo liberamente con loro, allacciando nuove amicizie, scambiando indirizzi, ricordi, sorrisi spontanei. Inoltre, in queste situazioni libere si vive la scoperta del mondo e ci si apre verso l'ignoto.  La solitudine viene vissuta per rigenerarsi e trasformarsi nella libertà. Possiamo chiamare questi tipo di solitudine come solitudine rigenerativa del viaggiatore.

 
5. Il ritorno a casa da un viaggio

"Il ritorno a casa" da un viaggio ci fa percepire i luoghi abitudinari che viviamo dall'esterno, osserva Leed, così ci accorgiamo delle assurdità e delle contraddizioni relative al vivere nella nostra città abituale. Il viaggio, di conseguenza, ci dona uno sguardo innocente, semplice, con cui guardare il mondo che abitiamo. Così scrive Leed:

"Quella perdita che è un guadagno in innocenza, semplicità, giovinezza, costituisce, secondo me, la principale trasformazione del transito ed è una caratteristica fondamentale della società e della mentalità prodotta da generazioni di viaggi. La forza del viaggio è corrosiva, spoglia e consuma; è un'esperienza di perdita continua. Il mondo creato dal viaggio è segnato tanto da ciò che manca quanto da ciò che è presente."
(Leed, 1991, tr. it. 1992, p. 354).
 
Il viaggio comporta distrazione, essere distolti dai vissuti degli oggetti ostili, distende e fa stare meglio. Anche se il ritorno alla realtà principale può essere suggestionato positivamente dal viaggio, dalle realtà viste e che hanno arricchito interiormente, come una città e le sue bellezze, la sua cultura, i suoi luoghi, quando si ritorna 'a casa', mano a mano che passa il tempo,  si dimentica di quel viaggio e ci si lascia assorbire dalle 'solite cose', dalle psicodinamiche relative agli oggetti abituali, ritornando a rivivere la realtà quotidiana del luogo abituale di vita, con il rischio di riattivare la ferita psichica precedente con i 'soliti' oggetti familiari quando sono problematici. In questo senso, il viaggio può essere considerato una "fuga" dalla realtà abitudinaria. Il ritorno alla propria realtà, dal viaggio, può essere inizialmente ben visto, comunicare ai conoscenti della realtà abitudinaria le suggestioni e le impressioni che il viaggio può aver impresso nella memoria esistenziale dell'ex viaggiatore, ma poi le solite dinamiche lo appiattiscono nella solita realtà che neutralizzano l'entusiasmo che ha provato nel vedere quegli altri posti.
Essere riassorbiti in una realtà insignificante come quella di un paesino dove 'non succede niente', come direbbe nel film In another country, uscito nelle sale cinematografiche italiane verso la fine di agosto 2013, il personaggio dell'attrice interpretato da Isabelle Huppert, nel suo soggiorno coreano in una zona di mare, diventa la motivazione per 'fuggire' da quel posto, se non si supera la noia che si prova con qualche esperienza significativa, come una relazione sentimentale ed erotica, che ne ritarda la partenza. 
Un altro escamotage che giustifica la "fuga" dall'ambiente non gradito può essere la malattia nervosa, per cui è meglio viaggiare, vedere altri posti per stare meglio, dunque conoscendo altre persone, realizzando  nuove esperienze, così l'altrove può rappresentare un rimedio per stare meglio. Il disagio mentale può motivare un nuovo viaggio. Dunque, il viaggio come terapia.
Il viaggio, se lo si può permettere, con tutte le sue belle implicazioni relative alle esperienze culturali e all'arricchimento interiore, per rigenerarsi interiormente, che non prendere psicofarmaci. Semmai c'è da chiedersi se il viaggio deve essere sempre il rimedio di un disagio psicologico, di un'inquietudine personale, oppure ha pure un valore esistenziale come arricchimento della persona di per se stesso? La terza via potrebbe essere una combinazione o una via di mezzo tra le due possibilità, ossia che il viaggio e il viaggiare siano una cura  per la mente e un'esperienza esistenziale, un arricchimento interiore e una distrazione, la conoscenza di nuovi luoghi o la loro rivisitazione a distanza di tempo e il bisogno dell'inconscio di trascendenza.
Il pittore Paul Gauguin (Parigi, 1848 - Hiva Oa, 1903) (v. "Paul Gauguin", in Wikipedia) amava abitare in Polinesia. Ogni tanto ritornava in Europa, ma poi se ne ritornava nel Paese esotico, dove, alla fine, morì di sifilide. Gauguin viaggiava tra la Francia e la Polinesia, ma amava abitare più in quest'ultimo paese, dove esaltava l'amore, anche nei suoi dipinti. In lingua maori, all'ingresso di casa sua, a Hiva Oa, aveva messo la scritta Te Faruru, "Qui si fa l'amore". Il viaggio aveva donato a Gauguin questo posto per vivere, creare la sua arte e amare, meno repressivo e ipocrita della società borghese di Parigi.
 

6. L'uomo stanziale, L'homme qui marche, il viaggiatore

L'uomo stanziale è colui che ha la sua dimora stabile in un posto dato. 'Stanziale' è anche un termine etologico che si riferisce agli animali che abitano lo stesso luogo. Per Bruce Charles Chatwin (Sheffild, 1940 - Nizza, 1989), giornalista, scrittore e viaggiatore, gli esseri umani si dividono in due tipi: quelli che preferiscono mettere le radici in un luogo e abitarlo, dunque, avere "una base" (gli stanziali); quelli che invece sono nomadi e preferiscono viaggiare, come lo stesso Chatwin (gli itineranti) (Chatwin, 1996, tr. it. 1996, pp. 37, 95).
Chatwin dice di se stesso che non riesce a stare fermo per un mese nello stesso posto, e che se è costretto a rimanervi di più, poniamo due mesi, ciò gli crea una particolare inquietudine (Chatwin, 1996, op. cit., p. 94). Chatwin ha scritto Anatomia dell'irrequietezza (1996) a partire da una frase del filosofo francese Blaise Pascal (Clermont-Ferrand, 1623 - Parigi, 1662), contenuta nei Pensieri pubblicati postumi del 1670. Pascal osserva che l'infelicità dell'uomo sia dovuto al fatto che non se ne sta tranquillo in una stanza, seduto, ma che ha l'inclinazione ad andare per il mondo a mettersi nei guai. Chatwin non condivide il punto di vista di Pascal, e sostiene che il movimento è invece salutare, mentre starsene sempre a casa vuol dire stare male, se non impazzire. Del resto, lo stesso Chatwin con la sua vita, con il suo modo di vivere, spesso in viaggio, sconferma il detto di Pascal. Dobbiamo osservare, tuttavia, che alla fine Chatwin si ammalò di Aids, e questa malattia, allora ancora poco conosciuta, negli anni '80 del Novecento, lo condusse alla morte a soli 49 anni, morendo giovane come Pascal, che morì ancora più giovane, a 39 anni.  Pascal è morto più giovane di Chatwin, dieci anni in meno del secondo, e pare che entrambi i modi di vita, quello di preferire la vita stanziale, per il primo, quello di preferire la vita mobile, per il secondo, non siano serviti ad allungare la vita di ciascuno di loro.
Del resto, il filosofo Henry David Thoreau (Concord, 1817 -  Concord, 1862) nella conferenza Camminare, del 1851, era convinto del benessere del camminare in mezzo alla natura. Camminare, per Thoreau, non era uno sport o un consiglio del medico, ma un'attività che va coltivata come un'avventura dell'interiorità. Il camminare, dice Thoreau, è "l'avventura della giornata" (Thoreau, 1851, tr. it. 1991, p. 13). Chatwin anche lui, d'altronde, elogia il camminare, come il viaggio.
L'artista Alberto Giacometti (Borgonovo di Stampa, 1901 - Coira, 1966) ha dedicato la scultura in bronzo L'homme qui marche  (L'uomo che cammina) (1960) al tema del cammino, si tratta di un'opera d'arte valutata a un prezzo altissimo, sui 74 milioni di euro o i 100 milioni dollari statunitensi, una quotazione rara rispetto a una scultura. Si tratta di un'opera esistenzialista che sottolinea la condizione in solitudine dell'uomo, della sua separazione dagli altri individui e, dunque, del suo stato di vulnerabilità.  Nel 1961  Giacometti disse a un suo amico che trovandosi, una volta, al Boulevard Montparnasse di Parigi gli sembrava di vederlo per la prima volta e che l'atmosfera urbana di quel boulevard  gli sembrava caratterizzata da silenzio, bellezza, immobilità. Il movimento dei passi gli sembrava "una successione di punti di immobilità". Il movimento era dato, in sostanza, da "immobilità che si succedono" e che, dal punto di vista temporale, viveva una sorta di "eternità", una atemporalità interrotta dal sopravvenire da altri 'movimenti immobili', e così via.  Giacometti ha creato più copie di questa opera. Un, per esempio, è esposta alla Fondation Beyeler di Basilea, in Svizzera, L'homme qui marche II.
Chatwin osserva che il viaggio stimola la mente perché si trova nelle condizioni di osservare il nuovo e lo sconosciuto. Al contrario, ciò che è abituale e fisso offuscano i sensi che così non colgono la verità "delle cose". La curiosità, osserva Chatwin, fa parte del modo di essere dell'umano e il viaggio ci permette di conoscere "il valore degli uomini", all'opposto del non viaggiatore. Il viaggio, inoltre, dà "forma" alla mente, mentre stare sempre in un posto, che tra l'altro può essere squallido, può provocare danni alla mente stessa (Chetwin, 1996, op. cit., p. 122).
Chatwin, al contrario di Pascal, è convinto che l'essere umano ha una natura tale che ha bisogno del "cambiamento". Se non viviamo dei cambiamenti, dice Chatwin, "corpo e cervello marciscono", o c'è il pericolo "di impazzire". Il benessere del cervello è dato dal "cambiare ambiente", mentre costretti a vivere in un mondo monotono e tedioso si rischia "fatica, disturbi nervosi, apatia, disgusto di sé e reazioni violente" (Chatwin, 1996, op. cit., p. 121).
Chatwin, inoltre, osserva che "il lusso ostacola la mobilità". I nomadi questi lo sanno e cercano di evitare il "lusso", per evitare di subire alterazioni nel loro modo di vivere (Chatwin, 1996, op. cit., p. 108). Chatwin, in quanto itinerante, ha elogiato il camminare e il viaggiare. Queste attività, secondo lui, sono programmate nel nostro cervello, nel suo "sistema informativo che ci dà ordini per il cammino" (Chatwin, 1996, op. cit., p. 127).
Lo scrittore inglese è per i "viaggi reali", non per "quelli fittizi" come quelli provocati da sostanze che alterano la chimica del cervello, come quando si fa uso di "vino", "haschish", "un fungo allucinatorio".
Viaggiare, in effetti, produce benessere alla mente, oltre ad arricchirla di nuove informazioni rispetto i luoghi che si vanno a visitare. Il  viaggiatore non può che essere anche una persona  curiosa, dove la curiosità è un ingrediente importante del viaggio, certo. Fotografare i luoghi che si visitano, infine, è un sostegno visivo della memoria esistenziale e dell'interazione con gli altri esseri umani, diventando un momento di comunicazione sociale, di socializzazione.

 
Riferimenti bibliografici 

BOLLAS  C.
- 1987,  tr. it. L'ombra dell'oggetto. Psicoanalisi del conosciuto non pensato, Borla, Roma, 1989.

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- 1982 e 1983  tr. it. Attaccamento e perdita, 3 voll.,  seconda ed. riveduta e ampliata, Bollati Boringhieri, Torino,  primo vol. 1999,  secondo vol. 2000, terzo vol. 2000.

BOWLES  P.
- 1976, Their Heads Are Green and Their Hands Are Blue, Random House, New York, 1963.

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Riferimento cinematografico

- In Another Country, Corea del Sud, 2012. Regia: Hong Sang-soo. Interpreti: Isabelle Huppert, Yu Jun-Sang, Jung Yu-mi, Youn Yuh-Jung, Moon So-ri, Kwon Hye-hyo, Moon Sung-keun.
 

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 "Paul Gauguin"
 
       

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