mercoledì 16 gennaio 2008

Psicologia delle malattie croniche

INDICE DEI PARAGRAFI
  • Preambolo
  • Prima parte: integrazione del medico e dello psicologo nella malattia cronica
  • Seconda parte: il punto di vista della psicologia archetipica di James Hillman nei confronti dei disturbi cronici
  • Terza parte: la psicologia pragmatica di Silvia Bonino sulle malattie croniche
  • Riferimenti bibliografici
Preambolo
In questi primi anni del XXI secolo le statistiche ci dicono che il nostro Bel Paese registra una crescita della popolazione anziana. Noi italiani, commentano i sociologi di queste ricerche, siamo diventati più longevi, mentre il tasso di natalità è molto basso, se non vicino allo zero. Tuttavia, sono i neo-immigrati, i cosiddetti extra-comunitari, che arrivano in Italia e che poi chiedono la residenza italiana, a compensare la scarsa natalità delle coppie nostrane.
Se le malattie croniche possono essere considerate relativamente independenti dall'età, potendo essere presenti anche nei primi stadi del ciclo di vita, è però anche vero che con l'avanzamento dell'età e, dunque, dell'invecchiamento, esse aumentano. La strategia della nuova medicina è quella di favorire una buona cronicizzazione di malattie che un tempo portavano ben presto al veloce deterioramento della salute, e, quindi, alla morte. Favorire la buona cronicizzazione di queste malattie - come quelle dismetaboliche, tipo diabete, o di altro genere come la sclerosi multipla, o svantaggi neurosensoriali come la sordità o la cecità, che segnano le persone per il resto della loro vita, o, ancora, la tossicodipendenza o l'alcolismo - significa che bisogna prendersi cura di se stessi se ci si tiene a continuare a vivere e a ottimizzare le condizioni di salute, riducendo le complicanze di queste malattie croniche o disturbi cronici, imparando a mantenere, nel corso del tempo, la cura di sé che non riguarda soltanto l'aspetto medico, naturalmente prioritario, perché concerne le alterazioni della struttura biologica, che possono essere a volte reversibili e a volte no, ma la cura di sé riguarda anche tutta la manutenzione dell'esistenza nei suoi vari aspetti.
Prima parte: integrazione del medico e dello psicologo nella malattia cronica
Nel malato cronico non è da trascurare la dimensione psicologica della malattia, mentre spesso tutto si riduce nello sguardo freddo e insensibile di una diagnosi medica e di una cura farmacologica, anche se, naturalmente e per fortuna, non sempre è così e ci sono medici che tengono in considerazione l'aspetto psicologico del malato, ma sempre nello spazio limitato che è concesso nel loro intervento.
La malattia ha reso più sensibile nei confronti del problema di salute il malato cronico, portando con sé questa ferita non solo a livello organico, ma anche nei suoi risvolti psicologici. L'insensibilità, la freddezza, la sospettosità che provoca sensi di colpa, se caratterizzano il modo di fare professionale del medico si trasformano in atteggiamenti anti-terapeutici nei confronti del malato cronico. Se è proprio il medico che dovrebbe favorire una alleanza terapeutica basata sulla fiducia che poi si comporta in maniera tale da tradirla, allora ciò ha ripercussioni negative nella stessa cura. Il paziente, proprio perché non si è sentito accolto benevolmente dal medico, tenderà a boicottare la cura che gli ha prescritto.
Cosa ha bisogno il malato cronico in senso psicologico? Per esempio, 1) di essere ascoltato; 2) di avere la possibilità di parlare delle sue angosce rispetto alla malattia; 3) di essere compreso in senso empatico; 4) di essere rassicurato, in modo che possa sentirsi un 'essere umano', e non, riduttivamente, un 'malato' e basta; 5) di avere la possibilità di elaborare l'accettazione della cronicità della sua malattia, e di avere cura di essa nel corso del tempo, potendo contare sul rapporto fiduciario con il suo medico di riferimento; 6) di essere considerato una persona che ha la sua dignità e che deve essere rispettato in quanto tale dal medico curante e dallo psicologo.
Lo spettro dei "malati cronici" è abbastanza largo, e non si riduce soltanto a qualche "malattia organica". Dal diabete alle più vaste malattie del metabolismo, dalla sclerosi multipla all'alcolismo, dalla tossicodipendenza al cancro, considerando, ovviamente, le varie specificità delle diverse malatttie croniche e i differenti medici specialisti che se ne occupano in termini di diagnosi e cura, tuttavia una fattore elementare e di base che le accomuna tutte è che richiedono al paziente di prendersi cura di se stesso nel corso del tempo, senza dare per scontato che una "malattia" che ha delle caratteristiche croniche si risolva semplicemente prendendo una manciata di pillole nel giro di una settimana, e senza cambiare, come invece comporta, lo stesso stile di vita.
Le malattie croniche, infatti, proprio perché sono tali comportano anche dei cambiamenti stabili nel proprio modo di vivere, così che la cura complessiva della malattia diventi stabile nel tempo e un aspetto importante della propria filosofia esistenziale. Non si può dire 'sono un ex malato cronico', perché la cronicità significa che una "malattia" particolare è diventata parte del proprio Sé. Senza la cura la malattia peggiora rimanendo all'interno del circolo degenerativo della stessa, mentre con la cura, se è efficace, si può passare al circolo benigno della cronicità compensata, permettendo di vivere con la malattia un numero maggiore di anni, e dove non ci sono complicazioni patologiche gravi, poter godere di vari aspetti piacevoli dell'esistenza, evitando o riducendo, però, quelle forme di godimento che comportano, allo stesso tempo, dei danni alla salute.
Sigmund Freud ha parlato dell'impasto delle pulsioni, in particolare della libido e dell'aggressività, e che, in Al di là del principio di piacere (1920), egli chiama "pulsione di vita" e "pulsione di morte". Egli osserva che è il disimpasto pulsionale che provoca, da una parte, l'uso dell'aggressività come violenza distruttiva, che può essere rivolta contro se stessi o gli altri, e dall'altra la libido non supportata dall'aggressività può diventare regressiva o assumere forme più o meno patologiche. Rispetto al nostro discorso sulla malattia cronica, specialmente se si tratta di malattie dismetaboliche, il medico di queste malattie invia il paziente dal dietologo o dal dietista per fargli adottare una dieta all'incirca standard rispetto al suo problema di salute. Tuttavia, a livello psicologico il come viene comunicato l'invito ad adottare la dieta credo che sia rilevante, sia nel caso di successo o di fallimento. Se infatti la dieta viene comunicata da parte dell'operatore sanitario in maniera autoritaria e repressiva, è probabile che nel paziente si attivi la psicologia delle proibizioni/trasgressioni. In questo caso, è come se il divieto fosse controproducente e favorisse il comportamento che invece si vuole evitare. La psicologia delle proibizioni/trasgressioni comporta un disimpasto pulsionale, per cui il godimento che si cerca diventa dannoso e il modo come ce lo si procura diventa aggressivo o violento. In questo senso, è meglio che le 'diete' vengano 'interpretate' dal paziente non come forme repressive nei confronti del cibo, ma come suggerimenti convincenti che favoriscono le motivazioni a preferire certi cibi, magari proponendo sostituti innocui ed equivalenti rispetto a quelli da evitare, ma che a livello inconscio siano 'interpretati' come vantaggiosi e che fanno godere lo stesso, e non come sacrificio e mortificazione della libido orale.
Se vogliamo considerare in forma storica la questione del divieto orale di sostanze dannose, negli Stati Uniti il proibizionismo dei liquori nella prima metà del Novecento ebbe di certo il risultato contrario a quello che ci si aspettava, per cui il consumo e la dipendenza nei confronti delle bevande superalcoliche non smise e né si ridusse. Semmai invece di bere in maniera manifesta, lo si fece di nascosto. Il proibizionismo così favorì la trasgressione dei comportamenti, anche in senso più generale, di cui l'abuso orale di bevande era di certo in primo piano. Freud ha osservato che la prima forma di libido è quella orale. Gli atteggiamenti proibitivi nei confronti delle varie forme di soddisfazione libidica, del piacere, sono probabilmente votate al fallimento se ai cibi o alle bevande che si consiglia, dal punto di vista salutistico, la riduzione o la rimozione dalle diete non si sostituiscono cibi e bevande, naturalmente innocue alla salute, ma che siano 'interpretate' come altrettanto 'gustose' e che fanno 'godere', danno 'piacere', in modo altrettanto significativo e che non ci si perde nello scambio con ciò che si evita. E', a mio avviso, una questione di 'interpretazione' che deve essere recepita non solo dalla coscienza, ma soprattutto dall'inconscio e in maniera convincente, senza trucchi o furberie da parte dell'operatore sanitario, perché poi l'esperienza del paziente rivela la 'verità' dei consigli sanitari. Di questo, per esempio, i dietologi o i dietisti devono tenere conto quando prescrivono le loro diete. Credo che la filosofica e antica "via di mezzo" equivalga all'impasto pulsionale freudiano, dunque all'amore per se stessi, al volersi bene e al prendersi cura di se stessi.
E' importante per il "malato cronico" che ci siano degli interlocutori significativi per lui, oltre a possibili familiari, che lo ascoltino e lo considerino come persona, e non in senso riduttivo e sminuitivo, commettendo così l'errore della pars pro toto, di essere considerato solo come un malato, un relitto della vita, dunque una presenza-nel-mondo svalorizzata.
Possiamo chiederci: cosa significa vivere la malattia cronica? Silvia Bonino, docente di Psicologia dello sviluppo all'Università di Torino, a un certo punto della sua esistenza i controlli medici che ha effettuato, in base ai suoi sintomi, hanno fatto emergere una diagnosi di sclerosi multipla. Da buona psicologa qual'è, ha cercato allora di comprendere la sua nuova condizione di "malata" e di cosa significa viverla anche rispetto alle istituzioni sanitarie con cui ha avuto a che fare, e di cui ha riportato le sue impressioni nel suo bel libro Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia, pubblicato nel 2006. Una riflessione importante che Silvia Bonino formula nel suo saggio concerne la critica della definizione di salute in termini di benessere totale della persona, come anni or sono lo ha formulato l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Le argomentazioni della Bonino sono importanti anche per comprendere che la definizione di "salute" va riconsiderata alla luce di fattori più realistici e meno astratti e idealizzanti rispetto a quella che invece aveva messo a punto l'OMS.
Per un concetto realistico di "salute" è fondamentale tenere in considerazione il divenire del tempo, il fatto incontestabile che il corpo umano, come del resto ogni forma di vita, va incontro all'usura e all'invecchiamento, e alla fine alla morte. Questo significa che il corpo per sua natura è fragile, anche se si tratta di un corpo 'in salute' e, come si diceva un tempo, di "sana e robusta costituzione". Delle fragilità del corpo, che possono essere diverse individualmente, occorre prendersene cura per evitare che degenerino in patologia per il sopravveneire di varie condizioni sfavorevoli.
Quando si contrae una "malattia", soprattutto se "cronica", la "salute" è una variabile della condizione umana presente anche nella persona che vive sulla sua pelle la malattia. Chi è "malato", in sostanza, non è simultaneamente abbandonato dalla "salute" in termini assoluti, come se le due condizioni - di salute e di malattia - si escludessero a vicenda. Una parte di salute, in realtà, può essere presente anche nella persona che vive una malattia cronica. In questo senso, la definizione che l'OMS dava di "salute", nel XX secolo, come di una condizione di totale benessere della persona era fuorviante e irreale. Se così fosse, di persone con un totale benessere se ne potrebbero contare quante sono le dite delle mani e per un breve periodo transitorio, in quanto la condizione di "salute" cambia con il tempo, e prima o poi anche questi potenziali fortunati dovrebbero fare i conti con qualche problema patologico, pur minimo che sia. Dunque, la definizione di "salute" che l'OMS ha formulato - almeno prima di quella della Conferenza di Helsinki del 2005 - appare ormai obsoleta e idealistica, buona forse per gli angeli e gli dei. Essa, in ogni caso, andava rivisitata e cambiata, adattata meglio, in forma più aderente, a quella che è la realtà umana, tenendo conto delle risorse e dei limiti del corpo umano, compresa la sua psiche.
Alla Conferenza di Helsinki dell'OMS è emerso un nuovo punto di vista concettuale sulla "salute", affermando che non c'è salute se non c'è "salute mentale". Si tratta di una tesi certamente importante, ma che va ponderata criticamente e non accettata acriticamente. Una prima constatazione è che questa nuova definizione di "salute" come "salute mentale" fa emergere delle ambivalenze proprio rispetto alla possibilità di poter dire, senza equivoci, cosa si possa intendere per "salute mentale", tranne che non si voglia fare un discorso riduttivo e di parte. E' importante anche chiarire chi è che stabilisce cosa sia "salute mentale" e cosa non lo è, come è significativo anche chiarire da quale punto di vista dottrinario o di scuola tale definizione viene formulata, e da quale classe sociale. Il concetto di "salute mentale" è inoltre epocale e soggetto a mutamenti rispetto a diverse variabili fondamentali, come potrebbero essere quelle di un possibile modello bio-psico-socio-cultural-ecologico, e non solo bio-psico-sociale. L'autorevole psicoanalista inglese Adam Phillips ha espresso in maniera intelligente le riserve verso la nozione di "sanità mentale", pur affermando che si tratta di una nozione di cui non se ne può fare a meno e che va utilizzata in maniera critica, e non certo con faciloneria (Phillips, 2005, tr. it. 2005).
Lo psichiatra Vittorino Andreoli, nella recente riedizione in un unico volume di un paio di saggi scritti in anni passati, rivendica con orgoglio la paternità di una scoperta che riguarda lo studio del cervello. Egli afferma che fu il primo a scoprire che il cervello è plastico e che è capace di creare dal nulla nuove strutture cerebrali attraverso le esperienze, là dove prima quelle strutture non esistevano. Questa scoperta rivoluzionaria, asserisce lo psichiatra, è di fondamentale importanza ed una speranza nella cura delle "malattie mentali", sia perché da quel momento in poi, cioè dal 1980, si poteva pensare che con la cura della psicofarmacologia, da un lato, e la psicoterapia, dall'altro, si potevano trattare i disturbi mentali con buone probabilità di successo. Nel corso del tempo però Andreoli ha dovuto contenere il suo entusiasmo, a tal riguardo. Un certo scetticismo rispetto alla possibilità di curare le "malattie mentali" con gli psicofarmaci viene comunque a crearsi. Del resto, nella seconda metà del secolo scorso, lo psichiatra Thomas Saszs si chiese se le "malattie mentali" esistessero davvero o fossero soltanto un mito. Credo che bisogna stare attenti nell'atteggiamento che gli operatori della "salute mentale" assumono nei confronti delle persone che si presentano ai loro servizi rispetto a dei "disturbi mentali", affinché non siano proprio loro, operatori, a trasformare queste persone in pazienti cronici con una carriera psichiatrica. Gli studi sulla labeling theory, cioè sull'etichettamento, a suo tempo, hanno messo in guardia rispetto al danno provocato dall'attribuzioni di etichette diagnostiche psichiatriche. Credo che il compito più importante degli operatori della "salute mentale" non sia quello di crogiolarsi negli esercizi di diagnosi, ma di porre la stessa al servizio di un progetto terapeutico, al fine di favore la costruzione di quelle strutture cerebrali e mentali ex novo, a partire dal "cervello plastico", che permettono passi avanti verso forme di "guarigione".
Del resto, lo psichiatra Richard Mollica, occupandosi di traumi gravi, come nel caso di vittime di stupri etnici o di torture, ha osservato che è possibile favorire l'"auto-guarigione" incoraggiando le risorse personali del paziente, nella direzione soprattutto delle seguenti qualità mentali o esperienze pratiche: l'umorismo, la ginnastica, il lavoro, la creatività, la spiritualità, l'altruismo. Lo sviluppo di questi fattori, secondo l'esperienza di Mollica, migliorano la sopravvivenza della persona traumatizzata, diventando più resiliente.
Giorgio Abraham e Claudia Peregrini nel loro saggio Ammalarsi fa bene (Abraham, Peregrini, 1989) considerano la malattia nel suo aspetto positivo, nel senso che occorre accettarla, soprattutto se è cronica, e considerarla come una possibilità di maturazione del carattere, e non come un evento catastrofico.
Se il medico delle malattie organiche, specialista in una particolare "malattia cronica", è il primo e più importante interlocutore per il paziente in termini di cura, un'altra figura importante può essere lo psicologo che ha la funzione fondamentale di dare ascolto e favorire la ricerca di senso rispetto alle angosce del paziente cronico. Una funzione psicologico-terapeutica importante, sia del medico che dello psicologo, è quella di facilitare nel paziente la narrazione della sua malattia. Non sempre questa possibilità è facile da realizzare. Se il medico considera gli aspetti organici della malattia, lo psicologo si occupa delle angosce fondamentali e dei risvolti psico-esistenziali che una particolare malattia suscita nel paziente. E' bene che medico e psicologo collaborino insieme, ognuno nel proprio ambito, certo, ma favorendo anche un dialogo, uno scambio di competenze, affinché l'intervento integrato nei confronti del paziente sia più efficace possibile per il suo benessere e il contenimento delle possibili disfunzioni o scompensazioni organiche e psichiche.
Sia il medico internista, o se vogliamo il neurologo o lo psichiatra o altri specialisti medici, che sia lo psicologo, in sostanza, ognuno secondo la propria formazione, cercano di migliorare la qualità di vita del paziente cronico, gli uni dal punto di vista organico, l'altro dal punto di vista psicologico, cercando tutti di costruire attraverso il dialogo e il confronto una sintonia tra le professioni coinvolte, evitando inutili e stressanti competizioni professionali, mettendo a punto una cura integrata e plurale nei confronti del paziente, al fine di ottimizzare le sue risorse e ridurre al minimo le problematicità del suo cronicismo. Tutto ciò comporta una nuova sensibilità di cura, sia da parte dei medici che da parte degli psicologi.
Seconda parte: il punto di vista della psicologia archetipica di James Hillman nei confronti dei disturbi cronici
In Disturbi cronici e cultura (Hillman, 1982, tr it. in 1985), James Hillman sviluppa un'analisi originale sull'argomento della cronicità dei disturbi. All'inizio considera le varie possibilità con cui nella civiltà occidentale i disturbi cronici sono stati affrontati, tuttavia, secondo la sua analisi, in modo insoddisfacente e/o fallimentare. Prima di proporre la pars costruens della sua argomentazione, Hillman dà a fondo le sue critiche ai vari modi come i disturbi cronici sono stati percepiti, studiati, e i "rimedi" a cui si è ricorso nell'affrontarli. Naturalmente, prima accennerò alla pars destruens dell'analisi hillmaniana, per poi passare alla sua proposta costruttiva. E' bene tenere presente che questo lavoro di Hillman ha, per così dire, due parti. Nella prima parte è possibile individuare le due analisi che ho chiamato destruens e costruens, mentre nella seconda parte l'argomentazione è più specificamente portata sul rapporto tra disturbi cronici e cultura. Passiamo ora a considerare la 'prima parte' di questo lavoro hillmaniano.
PRIMA PARTE
Pars destruens
I disturbi cronici comprendono un'area vasta, in quanto in essi rientra tutto ciò che è l'incurabile. Così abbiamo un repertorio considerevvole di incurabili, tra cui le figure tipiche del pazzo, del ritardato, del tossicodipendente, di tutti i mali relativi all'invecchiamento del corpo. Tuttavia, l'incurabile non va visto solo fuori di noi, per cui Hillman invita il lettore del suo scritto a ritrovare nella sua interiorità l'incurabile. A questo punto iniziale del suo discorso, c'è da chiedersi tre cose, egli afferma: a) l'incurabile come va percepito; b) come va trattato; c) quale rapporto ci può essere tra il cronico e la cultura.
Hillman allora individua quattro posizioni da cui il disturbo cronico può essere percepito e trattato. Le prime tre posizioni, che egli considera "eroiche", sono quelle che butta giù, e che considerò in questa parte dellla sua argomentazione: 1) la redenzione eroica; 2) la repressione eroica; 3) l'assistenza sociale o "fantasia di mediocrità umanistica". Consideriamole sintetitamente.
Nel caso della redenzione eroica ci si rifiuta di accettare il cronico in quanto cronico. E' il caso della psichiatria che rifiuta ogni forma di determinismo, sia genetico che culturale, e che intende 'correggere' ogni zoppicamento della natura. Hillman ci tiene a precisare che questa posizione eroica è l'atteggiamento più importante che è contro la cultura. Questa forma di eroismo redentivo è tipicamente americano- osserva Hillman - e consiste nel "sopprimere ciò che disturba". Si fugge da ciò che è cronico, lo si nega.
La posizione della repressione eroica invece consiste nel riconoscere l'incurabile in quanto tale. Siccome il cronico non si può trattare, senza risultati apprezzabili, tanto vale lasciarlo al suo destino. Si tratta, in sostanza, secondo questa logica, di tempo sprecato. Che fare, allora? Lo si riduce a un vegetale con gli psicofarmaci (e qui ritornano gli psichiatri), lo si ghettizza emarginandolo, lo si rende uno schiavo, lo si mette in un lager, lo si fa morire di eutanasia. I casi allora sono due: o il cronico lo si fa lavorare da chi viene a dipendere, oppure si decide per la sua eliminazione.
Nel caso della terza posizione, cioè quella dell'assistenza sociale o fantasia di mediocrità umanistica, nei confronti del cronico si assume una posizione di ipocrita tolleranza democratica. Allora si tende a giustificare il fatto che nella società dell'io muscoloso, sempre in gara e che vuole sempre vincere c'è un prezzo da pagare. Così ci possono essere parti di noi 'difettose' che rimangono indietro rispetto alle altre. In tal caso, la mentalità progressista consiste nell'inventare dei possibili programmi di recupero nei confronti di ciò che abbiamo di disfunzionale, ricoverandole in luoghi che sono una via dimezzo - dice Hillman - tra "ospizio e casa". Ci tiene a precisare che la posizione dell'assistenza sociale non la troviamo solo nella società, ma anche dentro di noi nell'atteggiamento che utilizziamo delle nostre parti croniche. Allora possiamo avere cura di queste parti croniche nella speranza che migliorino, oppure decidere di emarginarle. Il punto di vista, in questo caso, è quello del conformista: adattamento o emarginazione. Nella logica dell'assistenza sociale, dunque, si riforma e si conforma, ma questo modo di pensare va incontro al fallimento. Anche qui c'è "un tentativo eroico di cambiamento". Se non si può "salvare", almeno si tenta "di aiutare o di migliorare". Certo, c'è della "buona volontà ed espedienti programmatici" nella logica dell'assistenza sociale, ma non portano a molto.
Secondo Hillman, dunque, queste posizioni eroiche - quella redentiva, quella repressiva e quella assistenziale - non sono consapevoli che l'incurabile cronico "serve altri Dei". Rispetto alle norme che seguono un pò tutti, i cronici hanno altri parametri da seguire. Hillman cita, in maniera paradigmatica, il caso del "cieco", dello "storpio" e del "pazzo". Sono i "normali" a imparare da queste figure. Il cieco che può essere un poeta, lo storpio un artigiano, il folle un profeta (mi vengono in mente, rispettivamente, Omero, il dio greco Efesto, il folle di Nietzsche con in mano la lanterna accesa di giorno, che attraversa il mercato facendo sapere a tutti che "Dio è morto").
Hillman poi precisa, citando Gaston Bachelard, che "l'immaginazione agisce attraverso la deformazione", ossia nel senso opposto alla logica dell'assistenza sociale, che invece mira a correggere, conformare, riformare. Il cronico, allora, sostiene Hillman, nell'ambito dell'"umanesimo progressista" non può avere una sua collocazione. Inoltre, il cronico dà prova della tesi anti-darwinista della "sopravvivenza del meno adatto". In questo senso, il disturbo cronico può essere considerato come una presenza stabile che è nella persona e nella società, un "eterno ritorno". (Viene da commentare: il linguaggio che usa Hillman appartiene alla filosofia e alle concettualizzazioni degli storici delle religioni. Per esempio, "eterno ritorno" è un'espressione che troviamo nella filosofia di Nietzsche, come in un'opera di Mircea Eliade, tra gli altri).
Pars costruens
Veniamo così alla quarta posizione nei confronti dell'incurabile, la pars costruens della riflessione di Hillman, che è quella della carità e della compassione (anche qui troviamo termini che ritroviamo nell'ambito delle religioni). Il cronico, in questa prospettiva, viene considerato secondo "una base archetipica", Ciò significa che esso ha una sua peculiarità e una "natura" speciale.Delle parti croniche di sé, inguaribili, allora conviene prendersene cura accettandole così come sono. Si tratta, in sostanza, di riconoscere la presenza di un Dio dell'incurabile, una divinità che presiede quella condizione, mentre non ha senso la "pretesa di curare e di convertire". L'incurabile è di conseguenza sacro. Il paradosso è che se si vuole mandare via il diavolo, si caccia via anche l'angelo. I due sono complementari e co-presenti in una stessa situazione umana. (Ancora una volta troviamo, nel linguaggio e nella concettualizzazione di Hillman, la prospettiva religiosa).
Il cronico va dunque accettato così com'è. Certo, è questo credo che sia una considerazione importante sottolineata da Hillman, soprattutto se prendiamo atto di vivere nella mentalità della "modernità liquida", volendo utilizzare una fortunata espressione di Bauman per indicare il modo di vivere dell'Occidente del XXI secolo, dove i 'valori' sono quelli del bravo consumatore, del globe trotter, del vivere la vita intensamente e velocemente, e dove nei confronti della lentezza, della slow life, e dunque, se vogliamo, anche nei confronti delle parti di noi che rimangono indietro e che non sono 'veloci', non sono 'competitive', si nutre, da parte del conformismo liquido un certo disprezzo, indifferenza e presa di distanza. Rispetto alla posizione di Hillman, però, è necessario anche trovare un compromesso necessario e al servizio delle persone che hanno una malattia cronica, nel senso che per loro sono essenziali le cure mediche, di essere, dove ci vuole, di essere 'assistite'. Il cronico non si può cambiare, certo, e la sua malattia tuttavia potrebbe essere vista anche in una prospettiva favorevole, come testimoniano tutti i casi di persone creative che hanno dovuto convivere con una malattia cronica e che con le loro opere hano arricchito l'umanità. Ciò è stato sottolineato da Giorgio Abraham e Claudia Peregrini nel loro bel saggio, e ci tengono a sottolineare l'importanza della buona cronicizzazione di un disturbo cronico affinché la persona possa vivere il più possibile e nelle migliori condizioni favorite in primo luogo dalla conoscenza e assistenza medica. Anche Silvia Bonino è sulla stessa posizione quando parla della malattia cronica. Delle tre forme di atteggiamento "eroico" denunciate da Hillman verso il disturbo cronico, allora le prime due - quella redentiva e quella repressiva - sono le più detestabili, mentre la terza forma - quella assistenziale - è la più accettabile, pur nella sua mediocritas.
Hillman è del parere che se un miglioramento possa esserci nei confronti del cronico è solo attraverso la compassione e la carità, che non vuol dire "tolleranza". Il disturbo può rimanere quello che è, certo, ma "una trasformazione" ci può essere, ed è quella nei confronti "delle mie norme di ordine", ossia dell'accettazione della persona che vive una malattia cronica da parte dell'altro, per esempio, e in primo luogo, da parte del medico con cui entra in un rapporto di cura. Hillman è però radicale quando afferma che l'unica 'cura' possibile nei confronti della persona che ha un disturbo cronico è la morte, perché ciò che è è 'cronico' rimane tale. Tuttavia, bisogna pure stemperare questo radicalismo hillmaniano, affermando che il cronico, come del resto dice lo psicologo junghiano, si deve prendere cura di sé, ma questo significa allora anche fare i conti con la posizione da lui criticata dell'assistenza.
Per certi versi, la posizione di Hillman nei confronti dei "rimedi" approntati nei confronti dei disturbi cronici appare eccessivamente critica e inconsistente, se non fine a se stessa, quando rispetto all'eroismo assistenziale dice che questi vorrebbe correggere e riformare, ma che non accettando il disturbo cronico va incontro al fallimento del suo operare. Non possiamo che essere d'accordo con Hillman quando sostiene che il disturbo cronico va accettato così com'è, innanzitutto da parte della persona che lo vive, e già questo compito non è facile, perché la persona sofferente si chiede 'perché doveva capitare proprio a me!', in secondo luogo la persona con un disturbo cronico deve essere accettata dal personale sanitario e para-sanitario (medici, infermieri, assistenti sociali, educatori, ecc.) in senso favorevole, per consentire un buon adattamento alla sua condizione, trattandola con rispetto e dignità.
Se la posizione archetipico-religiosa di Hillman ha il suo fascino, è tuttavia carente nel considerare la psicologia pragmatica di una persona che deve gestire la sua malattia cronica. Hillman, tuttavia, ci fornisce una chiave di lettura del disturbo cronico che può esserci molto utile nel modo come noi lo guardiamo, e restituirgli una dignità che invece la civiltà e il medio modo di pensare degli esseri umani non gli dà, e a torto. La "carità" e la "compassione" sono due qualità religiose a cui Hillman fa riferimento nel guardare al disturbo cronico, come ho sopra accennato. Questo ci insegna una cosa importante: che la psicologia del profondo contiene in sé la saggezza del pensiero religioso, e non ne può fare a meno.
Riprendiamo, adesso, la riflessione che ho chiamato della pars costruens di Hillman sul disturbo cronico che non ha ancora esaurito. Egli afferma che questo tipo di disturbi vanno benedetti nella loro accettazione, e questa benedizione non può che portare a un "interesse" nei loro confronti. In questo caso, ci si trattiene con il disturbo cronico, si diventa "cronici noi stessi". Hillman qui è geniale, a mio giudizio, nel considerare, con un'operazione ermeneutica, la "cronicità che chiamiamo fedeltà". Attraverso questo trattenersi nei pressi del disturbo cronico allora lo si incoraggia a farlo esprimere con le parole, a farlo immaginare e permettergli di entrare in azione. Così egli afferma: "In altre parole, l'amore ha le sue radici proprio nell'irrimediabilità, nella cronicità." (Hillman, 1982, tr. it. in 1985, p. 53).
SECONDA PARTE
Nella seconda parte del suo Disturbi cronici e cultura, Hillman focalizza l'attenzione al tema che dà propriamente il titolo a questo lavoro. Hillman ha un suo modo particolare, squisitamente junghiano, di distinguere la "civiltà" dalla "cultura". La prima, egli dice, è rivolta al futuro, al progresso, alla costruzione di monumenti, alla tecnologia, al potere, alla ricchezza, alla vittoria. la cultura, invece, si rivolge al passato, al decadimento. "La civiltà è un primato storico, la cultura è un'impresa mitica." (Hillman, 1982, tr. it. 1985, p. 55).
C'è un rapporto, dice Hillman, tra cultura e sensibilità. Compito della cultura è anche quello di ridare alla sensibilità la sua vitalità, farla uscire dal torpore. Se la cultura 'lavora' per rendere presente il passato, allora la sua intenzione è far ritornare "gli invisibili" e sulla loro base costruire ciò che c'è di umano in noi. Per questo occorre che la sensibilità venga svegliata dal suo sonno, in modo che si ponga al servizio della cultura, degli "invisibili" del passato che ritornano a vivere nella vita del presente.
Hillman ci tiene a dire che non c'è società che non abbia la sua psicopatologia, per cui ogni società ha il suo "reparto incurabili". La cultura, come una calamita, è attratta dagli incurabili, dai cronici, da coloro che rimangono tali nel corso del tempo. E' un'azione culturale, osserva Hillman, guardare al Dio che è in una particolare forma di cronicità. Riferendosi alla ormai classica affermazione di Jung che gli Dei nel nostro mondo moderno non appaiono se non più che attraverso le malattie, Hillman sostiene che un disturbo cronico ha il suo Dio, camuffato od occultato, nelle sembianze dell'inumano e del deforme. La sensibilità allora può essere educata a "vedere in trasparenza" queste divinità eterne, atemporali, presenti in ciò che si manifesta nel divenire temporale. Su queste basi, la cultura trova il suo fondamento nell'infelicità provocata dalla civiltà.
Gli Dei non sono entità senza difetto. Anzi, ognuno di loro ha pecche, imperfezioni, handicap. Ognuno di loro ha la sua Ombra mitica al di là del tempo, e che trova corrispondenza nei disturbi cronici degli esseri umani. In questo senso, l'espansione della cultura è in rapporto al trattamento del disturbo cronico. Avere cura dell'incurabile allora significa orientare l'attenzione verso l'essenziale che è presente in noi, sia a livello psichico che corporeo. Significa anche guardare a ciò che per noi è importante a partire dai limiti imposti dal disturbo cronico, come all'amore, alle relazioni amorose fallite, al vivere, al morire, in base ai significati che diamo a questi fenomeni che ci toccano in prima persona. Così, dall'osservatorio dei limiti dell'incurabile diventiamo più sensibili, ascoltiamo/osserviamo/assorbiamo da questa posizione cronica la vita.
Da qui quelle frasi dello psicologo archetipico che sembrano ad effetto, ma che sintetizzano quanto egli voglia dire sui disturbi cronici a partire dalla sua psicologia, come, ad esempio, la seguente: "L'educazione della sensibilità comincia nel reparto incurabili, la cultura nel disturbo cronico." Non c'è dubbio che Hillman si pone dalla parte della cultura e dell'umanità fragile che è negli esseri umani, e contro l'io forte, gli errori e i disastri della civiltà. Così conclude il suo bel lavoro con la convinzione che se una civiltà ha la sua data di scadenza, certamente a posteriori, la cultura che essa stessa partorisce invece sopravvive, anche nel declino di quella stessa civiltà.
Questo contribuito alla comprensione dei disturbi cronici di Hillman è sicuramente una pietra miliare che dovrebbe essere tenuta presente, specialmente da parte degli operatori sanitari che si occupano di disturbi cronici, oltre che dalle stesse persone che soffrono di questi problemi di salute e che hanno la possibilità di leggere e comprendere il linguaggio archetipico-religioso di questo psicologo junghiano e filosofo dei nostri tempi.
Terza parte: la psicologia pragmatica di Silvia Bonino sulle malattie croniche
Come già accennavo nel Preambolo, un tempo con malattie come il diabete o il cancro si moriva facilmente. Grazie alle innovazioni e alle scoperte della medicina si è riusciti a trasformare le malattie senza speranza in malattie croniche, cioè che permettono alla persona di continuare a vivere, certo, non guarendo una volta per tutte, ma gestendo la condizione di malattia lungo la traettoria temporale. Nel caso delle malattie cronicizzate, non si può parlare di una restituzione del paziente allo stato precedente di integrità corporea rispetto alla malattia. Si può però continuare a vivere e anche in buone condizioni vitali, naturalmente se ci si prende cura della malattia e si contengono gli scompensi, nella misura in cui essa viene cronicizzata in senso favorevole. Questa strategia di sopravvivenza, ma anche di buona vita, è possibile per mezzo di un adeguato aggiustamento, di volta in volta, rispetto allo stato della malattia, con la terapia medica e soprattutto con l'attenzione mirata del medico al bene del paziente. Allora questi viene sottoposto a controlli clinici, deve seguire una terapia a casa, sottoporsi a una dieta, a degli esercizi fisici, ginnastica, fisioterapia, ecc., secondo prescrizioni ad hoc e per il resto può condurre una vita 'come tutti gli altri', se non ci sono complicanze particolari che comportano una revisione delle attività svolte come il lavoro, le relazioni, la vita privata.
La psicologa universitaria e psicoterapeuta Silvia Bonino, lei stessa colpita da una malattia cronica, giustamente osserva che il malato cronico deve valutare le risorse che può ancora utilizzare ed essere consapevole dei limiti che nel corso del tempo sono provocati dalla stessa malattia. A ogni cambiamento d'orizzonte provocato dall'aggravarsi della malattia, questa valutazione di risorse e limiti va riformulata, in modo da favorire l'impegno del malato cronico, la sua partecipazione al mondo della vita, e così dare un senso alla sua esistenza. Si tratta, in sostanza, di favorire lo "sviluppo personale" nonostante i limiti dovuti alla malattia cronica.
Silvia Bonino ha pubblicato il bel saggio Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia (Bonino, 2006), e una sintesi delle sue tesi fondamentali contenute in questo libro, tra l'altro già premiato, si trovano in un suo più breve lavoro, "Sviluppo e malattia", che è stato pubblicato l'anno successivo nella rivista Adultità diretta da Duccio Demetrio (Bonino, in 2007, pp.45-52). In questa mia sintesi del pensiero psicologico della Bonino sulla malattia cronica, tra la testimonianza personale della sua condizione di paziente e di saggista e studiosa di questo tipo di sofferenza, mi riferirò soprattutto al suo lavoro "Sviluppo e malattia".
La Bonino osserva che la psicologia dello sviluppo, di cui, tra l'altro, lei è docente universitaria, ha da tempo chiarito che lo sviluppo personale non è limitato solo all'infanzia, ma continua in tutti gli stadi della vita. Certo, nel caso in cui una persona è segnata dalla malattia cronica lo sviluppo personale è reso difficile, ma non impossibile. La Bonino giustamente osserva che "la condizione di malattia è assai meno lontana di quanto possa sembrare da quella delle persone sane, perché il limite è caratteristica intrinseca dell'essere umano." (Bonino, in 2007, p. 46).
Nella società di oggi, osserva la psicologa pragmatista, si tende a non accettare limiti, imperfezioni, vuncoli della persona. In questo senso, il malato, proprio perché rimanda a un'immagine "di imperfezione e finitezza che caratterizza gli esseri umani", non viene considerato favorevolmente dalla mentalità attuale di questa società. La critica della Bonino, in questo senso, è indirizzata anche alla definizione di "salute" che tempo fa è stata formulata dall'OMS, una definizione che appare "statica, astratta e utopica". Si tratta di una definizione di perfezione e benessere dell'essere umano che, a dir poco, è irragiungibile. Così recita tale definizione dell'OMS, riportata dalla stessa Bonino: "La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la pura assenza di malattia o infermità." (Ibidem). Questa definizione è ormai improponibile, e non ha fatto che alimentare negativamente "il mito della perfezione".
La Bonino osserva, allora, che un nuovo modo di concepire la salute è quella di considerarla secondo una linea continua che ad un polo ha una condizione di benessere ottimale, mentre al polo opposto quella di una sofferenza estrema, e lungo i punti intermedi di questa linea continua possiamo collocare condizioni di salute-sofferenza medie (ibidem, pp. 46-47).
Nel caso del malato cronico si tratta di acquisire un equilibrio che va sempre rinnovato e che deve risultare stabile, plastico e anche flessibile. Certo, ci possono essere momenti di alterazione emozionale, ma questi momenti devono essere affrontati senza provocare scompensi. La Bonino così sottolinea quanto sia importante "il ruolo attivo dell'indiviuo" che, nel caso della malattia cronica, non deve essere lasciato solo a se stesso. Egli deve vivere la sua condizione di sviluppo, insieme ad altre persone, coltivando affetti, e nel rapporto con gli ambienti sanitari in cui è seguito e in rapporto con la società stessa. Non possiamo disconoscere che la persona vive la condizione dovuta alla sua malattia cronica, ma essa deve imparare a convivere con la sua condizione nel modo migliore.
In un'ottica favorevole, se non migliorista e allo stesso tempo realista, la Bonino osserva che la malattia può essere percepita essa stessa come condizione che permette di svilupparsi. E su questo concordano anche Giorgio Abraham e Claudia Peregrini nel loro saggio (Abraham, Peregrini, 1989). In fatti la malattia può permettere di guardare il mondo da un'angolazione più profonda e inedita. Su queste basi costruttive, la Bonino insiste su quattro punti: 1) la malattia la si deve accettare (anche Hillman, come abbiamo visto nella seconda parte di questo mio lavoro, dice la stessa cosa); 2) nonostante la malattia, si deve dare un senso alla propria esistenza (v. Abraham e Peregrini); 3) l'identità va ricostruita; 4) è importante riappropriarsi, a ogni fase della propria malattia, di "un sentimento di autoefficacia".
Aprirò qui una breve parentesi, apparentemente deviando dal tema trattato e che concerne il contributo di Silvia Bonino alla psicologia della malattia cronica, per accennare alla figura del grande psicopatologo e filosofo esistenzialista Karl Jaspers, il quale era giustamente convinto che la malattia fa parte della vita e che bisogna accettarla e viverla. Fin da bambino Jaspers aveva sofferto di problemi di salute, come la "ectasia bronchiale" e l' "insufficienza cardiaca secondaria", e per tutto il resto della sua vita, essendo di salute fragile, dovette vivere in condizioni di particolari restrizioni, non potendo affrontare le stesse esperienze dei sani. Jaspers è stato un esempio di quello che Hillman, come abbiamo visto parlando del suo Disturbi cronici e cultura, nella seconda parte del presente lavoro, ha chiamto la sopravvivenza del non adatto, sfidando le tesi di Darwin. Infatti la medicina e l'adozioni di regole adeguate di vita permettono di vivere, in epoca moderna, anche a lungo in maniera produttiva, come del resto è stato per Karl Jaspers, che morì all'età di ottantasei anni. Il filosofo ha scritto nella sua Autobiografia filosofica che per vivere con la malattia mise a punto "metodi" da lui stesso "inventati" (Jaspers, 1963, tr. it. 1969, p. 15), essendo medico, e per evitare il peggio. Jaspers, in maniera onesta, tuttavia rivela che nei confronti della propria salute ha commesso tanti errori. Quanto a proposito di questi "metodi, in parte inventati da me", scrive Jaspers subito dopo: "Ma non era possibile applicarli rettamente se facevo la normale vita dei sani" (Ibidem). Qui viene in mente ancora Hillman quando osserva che gli "incurabili" hanno bisogno di vivere secondo modi diversi dai sani, in quanto la loro vita si ispira ad altri Dei. Credo che Hillman abbia perfettamente ragione ad affermare ciò e che il suo punto di vista si applica alla lettera alla testimonianza autobiografica di Jaspers. Tra l'altro, facile era il malinteso per i 'sani' che andavano a trovare il filosofo nella sua casa e a cui non concedeva più di due ore di ospitalità, per non affaticarsi. Queste persone probabilmente giudicavano Jaspers come poco socievole, per non concedersi di più, ma in realtà era una precauzione per evitare lo stress eccessivo. Così scrive il filosofo:
Un'altra conseguenza della malattia fu quella di comparire in pubblico solo osservando attentamente certi presupposti e sempre soltanto per breve tempo. Solo in casi eccezionali e importanti potei intraprendere viaggi per conferenze o per partecipare a pubbliche discussioni, e sempre a costo di disturbi nello stato di salute, che per me era normale.
Infine, per qualunque rapporto dovevo contare sugli amichevoli sentimenti di coloro che mi permettevano di non osservare le norme sociali, che venivano a casa mia, che si accontentavano della breve sosta di una o due ore. Spesso rimanevo incompreso. Si considerava superbia e isolamento quella che era un'amara necessità.
(Jaspers, 1963, tr. it. 1969, p. 17).
Jaspers ebbe la fortuna di incontrare nella sua vita Gertrud Mayer quando ancora aveva ventiquattro anni, e di poterla sposare. Gertrud era infermiera psichiatrica, e fu una presenza fondamentale accanto a lui, anche nell'aiutarlo a prendersi cura della sua salute. Così Jaspers visse la sua malattia cronica di cuore con cura e prudenza, continuando a insegnare filosofia a Basilea dal 1948 in poi, dopo essere diventato professore ordinario della stessa disciplina ad Heidelberg, mentre prima ancora frequentava la clinica psichiatrica come "assistente volontario", e poi alla facoltà di filosofia insegnò psicologia come "libero docente" nel 1913. I nazisti gli impedirono di insegnare dal 1937 fino al 1944, mentre con l'occupazione americana in Germania poté riottenere la cattedra nel 1945. (Ibidem, pp. 12-13). Così Jaspers, nonostante la sua malattia cronica, poté continuare a vivere come filosofo e scrittore di saggi filosofici. La sua figura ci insegna che si può condurre una vita degna di essere vissuta anche da malato cronico. Riconoscere il limite così non impoverisce la vita, semmai ci permette di vivere con più consapevolezza la nostra realtà, e di accettare la malattia.
Vivere nell'epoca del narcisismo individualista, che contrassegna in modo particolare lo stile di vita degli individui nella attuale fase della modernità, non fa che esaltare l'onnipotenza, la megalomania, l'ideologia del potere e la sua esibizione nei media di alcuni in contrapposizione dell'impotenza e della vita precaria di molti, specialmente dei giovani, ma non solo loro. In questo contesto di significati e di vita è difficile vivere la propria autentica condizione, sopratttutto se si è anche una persona con una malattia cronica. Nell'epoca del narcisismo che esalta la forza, l'onnipotenza, l'io forte-macho-bullo, con le conseguenze negative sui ragazzi che sappiamo dalle pagine di cronaca, non è facile per una persona segnata dalla malattia cronica, che ha interiorizzato questo Spirito del Tempo, vivere l'accettazione della sua condizione senza conflittualità interiore.
La Bonino giustamente osserva che ci vuole del tempo per l'auto-accettazione. Inoltre, con il peggiorare della malattia l'auto-accettazione va rielaborata, perché il peggioramento rimette in discussione i propri significati esistenziali.
Per quanto riguarda il dare senso alla propria vita, la Bonino lo dice chiaramente: quando si vive una malattia cronica sembra che niente abbia più senso. Si fanno progetti, si vuole vivere il proprio ruolo lavorativo per quello che è, come gli altri ruoli della vita, ma la malattia è come un evento imprevisto che rimette in discussione tutto quanto. Ciò nonostante, bisogna avere pazienza e a ogni stadio nuovo del problema di salute riformulare il senso della propria vita. Questa consapevolezza, come, per esempio, scrive Vittorino Andreoli nel suo bel libro L'uomo di vetro. La forza della fragilità (Andreoli, 2008), ci fa capire che i significati che diamo all'esistenza sono fragili, caduchi, tuttavia non dobbiamo dimenticare che la fragilità è un valore importante della vita. Così questi significati occorre modificarli man mano che cambiano le condizioni della malattia, quando essa peggiora. Ciò può accadere nei momenti cruciali quando siamo costretti a prendere nuove decisioni fondamentali in coincidenza con il nuovo stato di salute. La Bonino però non molla la proposta di tenere duro, di far prevalere l'atteggiamento positivo anche in questi momenti di crisi quando la malattia peggiora le condizioni di salute. Così occorre far prevalere, nonostante i limiti che vengono a percepirsi, i motivi per cui la vita va vissuto nonostante tutto.
La malattia occorre accettarla a ogni stadio di avanzamento, e allo stesso tempo si possono perseguire "mete di investimento e di impegno" che possono essere diverse per ogni persona. Queste mete vanno "rispettate" e permettono di conseguire un importante "senso di coerenza" che riduce l'"incertezza per il futuro e dà una collocazione significativa alle azioni del malato." (Bonino, in 2007, p. 49).
La Bonino sottolinea l'importanza di ristrutturare la propria identità, in senso positivo, come i compiti che danno senso all'esistenza, a ogni tappa della malattia cronica, e ancora di più incoraggiare la persona con la malattia cronica a valorizzare il sentimento di efficacia personale, insieme agli aspetti delle altre "competenze vitali" che ha segnalato l'OMS: l'empatia, la comunicazione efficace, il pensiero creativo e quello critico, l'apprendimento della gestione dello stress e delle emozioni.
Alla persona deve essere chiaro cosa è in grado di realizzare in base alle sue capacità, e cosa non è più possibile a causa dei limiti sopravvenuti in vari ambiti del proprio Sé. I limiti possono investire l'aspetto corporeo, quello psichico, le relazioni con gli altri. Dunque, è bene che la persona con una malattia cronica si faccia questo quadro di sé e affronti realisticamente la vita. In secondo luogo, si cercano di promuovere quelle strategie, spesso non considerate, purtroppo, per raggiungere gli scopi che la persona si è data. Affinché ciò sia possibile, accanto all'auto-efficacia, occorre che gli obiettivi da raggiungere siano "molto precisi", chiarendo quali siano i passi e i modi per realizzarli. Così la strategia dei piccoli passi, degli obiettivi graduali da raggiungere prima di arrivare all'obiettivo ultimo, è una strategia necessaria e utile. Inoltre, gli "insuccessi" vanno interpretati in senso favorevole, per modificare la strategia stessa in atto, valutando di volta in volta il rapporto tra l'auto-efficacia e il senso da dare alla propria esistenza. Il senso della vita, in questa psicologia pragmatica, è quello che viene ad emergere attraverso le "azioni dotate di significato" e che risultono effettivamente efficaci. (Ibidem, pp. 51-52).
Riferimenti bibliografici
ABRAHAM G., PEREGRINI C.
- 1989, Ammalarsi fa bene. La malattia a difesa della salute,
Milano, Feltrinelli.
ANDREOLI V.
- 2007, L'uomo folle. La terza via della psichiatria, Milano,
Rizzoli.
- 2008, L'uomo di vetro. La forza della fragilità, Milano,
Rizzoli.
BAUMAN Z.
- 2000, tr. it. Modernità liquida, Bari, Laterza, 2002.
BONINO S.
- 2006, Mille fili mi legano qui. Vivere la malattia, Bari,
Laterza.
- 2007, "Sviluppo e malattia", in DEMETRIO D. e BORGONOVI
C., (a cura di), Scrittura e terapia, Milano, Guerini, pp. 45-52.
FREUD S.
- 1905, "Tre saggi sulla teoria sessuale", in Opere 1900-1905,
vol. quarto, Torino, Boringheri, 1970, pp. 440-546.
- 1920, "Al di là del principio di piacere", in tr. it. Opere 1917-1923,
vol. nono, Torino, Boringhieri, 1977, pp. 187-249.
GOOD B. J.
- 1994, tr. it. Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico
sul rapporto medico-paziente, Milano, Comunità, 1999.
HILLMAN J.
- 1982, "Disturbi cronici e cultura", in tr. it. Trame perdute,
Milano, Cortina, 1985, pp. 47-58.
JASPERS K.
- 1963, tr. it. Autobiografia filosofica, Napoli, Morano, 1969.
MOLLICA R. F.
- 2006, tr. it. Le ferite invisibili. Storie di speranza e guarigione
in un mondo violento, Milano, Il Saggiatore, 2007.
PHILLIPS A.
- 2005, tr. it. Normalmente, Milano, Ponte alle Grazie, 2005.
RECALCATI M.
- 2007, Elogio dell'inconscio. Dodici argomenti in difesa
della psicoanalisi, Milano, Bruno Mondadori.

Nessun commento: