mercoledì 5 marzo 2008

L'esproprio del lato poetico della vita. Sulla poeticità o impoeticità dell'abitare se stessi e il mondo

INDICE DEI PARAGRAFI
  • La domanda: Che cos'è la Poesia?
  • Filosofia e Poesia
  • La natura poetica dell'uomo e la costrizione del mondo della vita a vivere un'esistenza impoetica
  • La dimensione negativa
  • Poesia e narcisizzazione
  • Edgar Morin: il poetico come espressione esistenziale di uno dei due stati del sociale
  • Il pensiero poetante del Negativo di Emil Cioran
  • Precarietà, sofferenza esistenziale e linguaggio poetante
  • Linguaggio poetante e religione
  • La vita spoeticizzata e la poetica dell'apocalisse del mondo
  • Che cos'è la Poesia? Una risposta ipotetica per i nostri tempi
  • Riferimenti bibliografici
Lasciar compiersi ogni impressione e ogni germe d'un sentimento dentro di sé, nel buio, nell'indicibile, nell'inconscio irragiungibile alla propria ragione, attendere con profonda umiltà e pazienza l'ora del parto d'una nuova chiarezza: questo solo si chiama vivere da artista: nel comprendere come nel creare.
Rainer Maria Rilke, 1929, Lettere a un giovane poeta, in Lettere a un giovane poeta. Lettere a una giovane signora. Su Dio, Milano, Adelphi, 1980, p. 25.
La mia vita non ha niente di straordinario. Ma il mio modo di pensarci la trasforma.
Paul Valéry, 1973, tr. it. Quaderni. Volume primo, Milano, Adelphi, seconda ed., 1990, p. 22.
Può darsi che le mie note teorie sull'arte praticata con coscienza, quella coscienza che esige delle resistenze (che io trovavo (per esempio) nelle convenzioni della poesia tradizionale), siano innescate nella mia sensibilità, da questa caratteristica che, quando produco di getto, io non mi sento abbastanza "creativo". Quella cosa si fa troppo da sé per farsi sentire da me. Quel che si concede senza sforzo e non costa niente mette in gioco e valorizza apertamente soltanto una parte delle nostre funzioni.
La produzione cosciente esige, d'altronde, che ripensiamo gli oggetti di pensiero.
Paul Valéry, 1973, tr. it. Quaderni. Volume primo, Milano, Adelphi, seconda ed., 1990, pp. 195-196.
La domanda: che cos'è la Poesia?
Che cos'è la Poesia? A una domanda del genere sento che la prima istanza della personalità sollecitata a rispondere potrebbe essere l'io razionale. In tal caso, il lavoro dell'io consisterebbe nel cercare una risposta concettuale astratta, una definizione che risolva, nel modo più breve, la tensione (creativa) sollecitata dal quesito cognitivo: che cos'è la Poesia? La tensione è essenziale al lavoro del pensiero, tuttavia se si intende rispondere nel modo più sbrigativo e banale alla domanda in questione non si possono che formulare risposte superficiali, decorative, di tipo definitorio, che probabilmente hanno poco a che fare con la vera essenza della Poesia. In tal caso, in simili risposte non ci può essere che uno scarso lavoro di immaginazione e di riflessione, non si dà nemmeno il tempo e il silenzio necessari per entrare nella propria interiorità e disporsi a un ascolto verso l'anima. D'altre parte, l'io razionale senza anima è sterile, vuoto, un pò pallone gonfiato quando diventa narcisista.
La Poesia non dimora in questa parte di noi povera di immagini. L'io invece è la sede recitativa dei ruoli pubblici della "persona" come maschera sociale. La Poesia non appartiene nemmeno al pensiero della tecnica (scienza, tecnologia, burocrazia), ma al pensiero dell'incantamento, quel pensiero che Martin Heidegger ha indicato con l'espressione "pensiero poetante", contrapponendolo al "pensiero calcolante". Come ha osservato Umberto Galimberti, facendo riferimento a Martin Heidegger, il termine poìesis è ubiquitario nei significati che contiene. Come produzione, poìesis è il termine che nell'antica Grecia si riferiva anche alla scienza e alla tecnica. Tuttavia, nell'antichità greca poìesis indicava la via dell'andare incontro alla natura, assecondandola, mentre la mentalità scientifica dell'uomo moderno mira a realizzare i progetti che si è dato a partire dal mettere a sua disposizione la natura (Galimberti, 1999, p. 379).
Ci troviamo di fronte a una scissione del significato di poìesis. Nel passato questo termine indicava una conciliazione con la natura, mentre nell'epoca del trionfo della tecnica questa conciliazione è diventata impossibile a causa del deturpamento della natura provocato dal fare tecnico dell'uomo. Se nell'antichità la Poesia celebrava l'armonia con la natura, oggi essa non può più farlo. Il compito della Poesia è mutato, e pur rimanendo fondamentale per l'essenza stessa dell'uomo in questa vita, perché, come ha scritto Holderlin, "Pieno di merito, ma poeticamente, abita l'uomo su questa terra", l'abitare dell'uomo non è più verso, come direbbe Heidegger, la funzione del "costruire" (Heidegger, 1954, tr. it. in 1991, p. 126), ma l'auto-annientamento, tra disastro ecologico e business della guerra. Secondo Emil Cioran, questa corsa all'auto-annientamento è presente nella storia dell'uomo e in quello che viene chiamato "progresso", il cui senso, se ce n'è uno, lo si può individuare nella sua rovina preconizzata già dal peccato originale (Cioran, 1995, tr. it. seconda ed., 2005).
Nel V secolo a. C. la Grecia fu un punto di riferimento culturale eccezionale per tutto il Mediterraneo. Era la Grecia di Socrate, di Platone, di Aristotele, dei sofisti, di varie scuole filosofiche, del fiorire dell'arte, della storia e della letteratura. Il termine philosophia sembra che nacque in quel luogo geografico e in quel periodo storico. Philo indica un atteggiamento di interesse, una motivazione molto sviluppata verso una particolare attività. Nel caso di philosophia, questo interesse è nei confronti di sophia, un termine che indica la ricerca della saggezza, del sapere, o, meglio, del saper fare, del saper vivere la vita in modo da far eccellere il bene. Nella democrazia della città di Atene del V o VI secolo a. C. ad ogni cittadino era consentito di raggiungere l'eccellenza, ossia l'areté, sia amando la bellezza o la sophia. Come osserva Pierre Hadot:
Colui che è sophos è colui che sa molte cose, che ha visto molte cose, che ha viaggiato molto, che ha una cultura enciclopedica, oppure è colui che sa comportarsi bene nella vita e si trova in una condizione di soddisfazione?
(Hadot, 1995, tr. it. 1998, p. 20)
Sembra che a questa domanda non si possa rispondere in modo da includere una possibilità escludendo l'altra, ma includendo entrambi le possibilità, per cui sophos è la persona che riesce a integrare in se stessa il sapere come cultura e il sapere come prassi di un'etica del bene.
Il termine sophia, nel VII secolo a. C., viene utilizzato da Solone, legislatore e poeta, in riferimento all'arte poetica. La poesia richiede un'applicazione continua nel tempo da parte di colui che crea versi. Tuttavia, essa non è solo "esercizio", ma richiede l'"ispirazione delle Muse". Gli accadimenti umani ricevono significato grazie alla "potenza della parola poetica". Ciò è evidente all'alba del VII secolo a. C., con Esiodo, nella sua Teogonia. La Poesia ha un valore trasformativo, nel senso che riesce a provocare un mutamento nel mondo dei sentimenti degli uomini. Così, le parole poetiche riescono ad alleviare le pene del cuore, il male viene obliato, si rimane incantati dal canto della Poesia che, in questo senso, ha un valore terapeutico. Il poeta e il suo pubblico dimenticano le sofferenze, in parte per il merito della bellezza delle parole ispirate dalle Muse, e per un'altra in quanto che la Poesia introduce alla "visione cosmica". Il poeta canta il mondo degli dei e dà immagini al passato, al presente e al futuro, come del resto ne è una testimonianza l'opera Teogonia di Esiodo. Nella Repubblica Platone scrisse che non ha paura della morte colui la cui anima si è elevata nell'attività della "contemplazione della totalità del tempo e dell'essere" e del pensiero (Hadot, 1995, tr. it. 1998, pp. 21-23).
Filosofia e Poesia
Proprio per l'ubiquità di sophia (saggezza, saper fare il bene, attività poetica), la Filosofia e la Poesia vivono un rapporto di reciproca implicazione l'una nell'altra, ma allo stesso tempo si escludono. La filosofa Maria Zambrano si è interessata della relazione che intercorre tra la Filosofia e la Poesia. Ella ha osservato che la Poesia è la via del sentire che porta al concetto, entrando in gioco la fiducia nella "non-irrazionalità" del sentire, e dove allo stesso tempo questi può contare sulla "docilità dell'intelligenza". L'emozionalità del sentire è allora la sostanza vivente che muove il capire. Il pensiero che promuove la Zambrano è perciò un pensiero della "misura" e del "sentimento" che ha ricevuto piena espressione in Machado. Questo autore coniuga Filosofia e Poesia come espressione di una "nuova logica" dove si implicano e si differenziano intuizione e concetto. Per Machado la Poesia canta l'esistenza, ma è la logica che dà ai versi una struttura. La Zambrano vede nella Poesia il "vivere secondo la carne", dove la parola è usata per esprimere e condividere la precarietà del tempo. Affinché questo stile di vita, cioè quello poetico, possa continuare ad esistere occorre che trovi nell'esercizio il suo cardine, facendosi, come osserva Pina De Luca, "pratica amorosa" che mette in forma, plasma la carne dandogli un "movimento orientato". Secondo la Zambrano, allora, il poeta vive una "erotica della cosa", una sorta di innamoramento entrando in intimità con la cosa stessa, nella consapevolezza sofferta che essa è altro, differenza, e destinata a sfuggire. (De Luca, "Introduzione", in Zambrano, 1966, tr. it. 1998, pp. 13, 23-24).
La natura poetica dell'uomo e la costrizione del mondo della vita a vivere un'esistenza impoetica
Tutti noi possiamo cercare di rinconciliarci con quella che James Hillman (Hillman, 1989, tr. it. 1996) chiama, felicemente, la "base poetica della mente". Solo sentendo e vivendo in modo poetico possiamo sfidare l'alienazione mentale che ci viene imposta dalle svariate ideologie culturali del collettivo, veicolate tramite la prepotenza dei media (stampa, tv, radio, Internet). Non abbiamo bisogno di ipertrofizzare la mente con immagini insignificanti e distruttive che ci raggiungono dal mondo esterno, semmai, a tal riguardo, possiamo rrealizzare un'operazione ecologica scrollandoci di dosso tutta questa immondizia.
Per vivere in armonia con noi stessi, come osservavano i filosofi della grecia del VI secolo a. C., ci occorre raggiungere la serenità e la pace facendo a meno dei bisogni superflui, limitandoci all'essenziale, riducendo le nostre ambizioni, la brama per la ricchezza, la gloria o altro ancora. L'ideologia rampante della globalizzazione invece impone una mentalità opposta alla saggezza greca, al saper fare il bene. La globalizzazione impone l'ideologia della competizione sfrenata, la ricchezza a tutti i costi tramite il capitale azionario, la scalata verso il potere all'interno dell'organizzazione di lavoro a cui si appartiene, una mentalità sempre più tecnica e burocratica. In tutto ciò non c'è niente di poetico, semmai c'è l'oblio della "base poetica della mente", da qui il disagio psichico che in varie forme è lamentato da una parte non indifferente della popolazione.
Sindromi ansiose, depressioni, disturbi di personalità, sono tra le forme più diffuse del malessere individuale. Uno dei paradossi della nostra epoca è che essa si vanta del rapido progresso della scienza e della tecnologia, mentre allo stesso tempo il cattivo uso di questo progresso scientifico, tecnologico, economico, ha provocato il rovescio della medaglia, per esempio, un eccesso di tendenze entropiche, come i vari inquinamenti dell'ambiente (atmosferico, uditivo, delle acque, dei cibi) che hanno devastato la natura e l'uomo stesso; una inesistente attenzione dei bisogni dell'anima che abbrutisce l'esistenza quotidiana; un'appiattimento del vivere collettivo, sopravvalutando la dimensione materiale nei suoi aspetti edonistici e più superficiali; la violenza nelle sue varie forme, come agiti che derivano da dolorose ferite interne di personalità molto fragili; la spersonalizzazione dell'essere umano nell'ambito dell'organizzazione di lavoro dove ognuno viene considerato solo per l'identità che gli viene attribuita dall'istituzione; e questo solo per accennare ad alcuni fenomeni di alienazione che pesano sulle spalle dell'uomo occidentale, agli inizi del XXI secolo.
E la Poesia? Essa continua ad esistere anche nella nostra epoca liquida, ma non può che denunciare la cattiva coscienza dell'uomo contemporaneo, oppure cantare le ferite inferte all'anima da un'esistenza brutale o assurda. La Poesia oggi non può che esprimere l'ombra dell'uomo occidentale, l'impossibile riconciliazione con una natura irrimediabilmente lacerata dalla nostra distruttività irresponsabile.
L'uomo avrebbe dovuto prendersi "cura" delle cose della terra che abita, mentre soprattutto la seconda metà del Novecento fino a questi nostri primi anni del XXI secolo rivelano che non solo l'uomo è stato lacunoso in questa "cura", ma che ha saccheggiato e ferito la terra che abita, che ha distrutto e ucciso i suoi fratelli anche per niente, per il gusto sadico di farlo, e che il suo abitare la terra si è rivelato indegno e impoetico. La prima guerra mondiale, nazismo e stalinismo, la guerra americana in Vietnam, la dittatura di Pinochet e i desaparecidos, le guerre dei popoli della ex Iugoslavia, l'eterno conflitto tra Palestina ed Israele, la guerra in Iraq, l'11 settembre 2001 la distruzione delle Twin Towers a New Jork e l'attacco al Pentagono, il terrorismo, le guerre nelle nazioni africane, solo per fare alcuni esempi dei più eclatanti, si sono macchiati di crimini di guerra, alcuni ancora attuali, che rendono il mondo inabitabile e a rischio, dominato dalla paura e dal terrore. Tutto ciò non ha niente di poetico, perché il poetico si rivela nel "costruire" e nell'abitare il mondo, non nell'abbatterlo e nel prepare le condizioni apocalittiche della fine.
La dimensione negativa
Se la Poesia è, come osserva John Keats, quell'altrove che oltrepassa l'io, quella realtà che non c'è, che è assente, ma che comporta un'attesa rispetto al momento in cui diverrà presente, allora poeta è colui che è capace di tollerare la dimensione negativa dove nulla è certo, dove regna il dubbio e l'ignoto. Il poeta vive in quel terzo mondo che è il mondo dell'immaginazione situato al di là del mondo della sensazione e del mondo del pensiero. E questa attesa di una realtà assente, che tuttavia per il poeta è la realtà delle sue rappresentazioni a venire, è l'Ombra. In questo senso, come osserva Nadia Fusini, per Keats "la poesia è cura della relazione con l'Ombra" (Fusini, in Keats, 1817-1820, tr. it. 1992, p. 29).
Nella psicologia del profondo di Carl Gustav Jung, la figura dell'Ombra rappresenta un'istanza fondamentale della personalità. L'Ombra è quella parte di noi che nasconde sia gli aspetti della personalità poco svilupatti, dunque anche preziose risorse interiori che fino al momento attuale non sono state ancora recuperate alla consapevolezza dell'Io, sia aspetti inquietanti e meno nobili della personalità, sia le patologizzazioni dell'Anima. L'Ombra si muove verso direzioni interiori: quella dell'inconscio collettivo e quella dell'inconscio personale. L'inconscio collettivo gravita attorno al mondo degli archetipi, le immagini primordiali che hanno un contenuto universale. Così abbiamo un' "Ombra personale" e un' "Ombra collettiva" (Jacobi, 1971, tr. it. 1873, p. 139). L'inconscio personale viene concepito da Jung come, all'incirca, l'inconscio freudiano. Nella seconda mappa della mente di Freud, l'Io deve mediare le richieste pulsionali dell'Es radicate nell'inconscio, le proibizioni morali e gli ideali del Super-io, la realtà della frustrazione e la messa a punto dei dispositivi culturali che permettono la soddisfazione delle pulsioni. Quando l'Io trova difficoltà nella mediazione di queste richieste, o compiti, allora la loro conflittualità lo fa cadere nel disagio della nevrosi. L'Ombra dell'inconscio collettivo riguarda invece la natura degli archetipi. Per esempio, l'archetipo della "Grande Madre" può nutrire e far crescere i suoi figli, ma può anche ucciderli in una morsa regressiva schiacciante. In quest'ultimo terreno ha origine la psicosi.
Per il poeta John Keats, il mondo archetipico è quello che permette all'immaginazione di stabilire un rapporto con il "Prototipo", inteso come principio. Come scrive Nadia Fusini, "L'immaginazione opera in virtù di un "affetto del cuore", "una passione". Per Keats la passività del patire è fondamentale alla creazione" (Fusini, in Keats, 1817-1820, tr. it. 1992, p. 31). Se, come per Keats, la Poesia non riesce a ridurre la distanza tra mondi tra loro differenti, tuttavia essa fa parte della giustizia delle cose. In tale impresa, il poeta non può andare che incontro al naufragio, rendendosi conto però di "una grande verità: la sua solitudine" (Fusini, in Keats, op. cit., p. 23). Il fallimento del poeta è allora anche il suo successo in letteratura, secondo Keats, e in questo senso si richiama alla "Capacità Negativa" che egli deve possedere: "cioè quando un uomo è capace di essere nell'incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l'impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione." (Keats, lettera del 21 dicembre 1817, in op. cit., p. 75). Il punto di vista di Keats, in questo caso, è molto vicino a quello di Rilke, come nella citazione iniziale che apre questo lavoro (Rilke, 1929, tr. it. 1980, p. 25).
Poesia e narcisizzazione
Nella nostra "modernità liquida", secondo la fortunata espressione coniata da Zygmunt Bauman, il destino della Poesia è la prosa ricca di metafore. Sembra che l'immaginazione in versi sia diventata minoritaria, se non 'diversamente abile', in quanto non sembra più attirare molti lettori, e che si ricorra alla poesia con la p minuscola, in versi, soprattutto per comicità, o per prendersi gioco della stessa. Solo una minoranza di poeti propriamente detti oggi sono riconosciuti tali, anche se una certa moltitudine continua a partecipare a concorsi letterari di glorificazione falsamente illusoria, 'poeti' che usano la poesia, con la p minuscola, come proiezione del proprio io gonfio e narcisizzato. Credo che la narcisizzazione sia un processo a cui tutti siamo stati destinati a causa del capitalismo neoliberista. L'ideologia neoliberista, che sta alla base di questa forma di capitalismo, esalta l'individuo a discapito della società, che di conseguenza ritiene inesistente. Quello che Christopher Lasch ha chiamato, nella seconda metà del Novecento, "cultura del narcisismo" è diventata il destino di massa dell'Occidente (Lasch, 1979, tr. it. 1992). L'esaltazione della libertà e della possibilità per ognuno di forgiare la propria esistenza secondo le proprie inclinazioni, che i sociologi hanno chiamato "individualizzazione" (per esempio Beck, 1994, 1996, 1997, tr. it. 2000) si è rivelata una clamorosa bolla di sapone di fronte ai meccanismi di precarizzazione esistenziale di massa provocati dalla globalizzazione, inaugurando quel detestabile tipo di lavoro chiamato lavoro flessibile.
Edgar Morin: il poetico come espressione esistenziale di uno dei due stati del sociale
La Poesia è diventata da genere letterario anche qualcosa di più esistenziale: la vita vissuta nel segno dionisiaco, nel piacere dell'irruzione dello straordinario con la festa, l'amicizia, l'amore. Secondo Edgar Morin, gli stati del sociale sono due: quello del prosaico e quello del poetico. Il primo caratterizza la vita quotidiana, ed è la dimensione apollinea della vita, quella dove si sperimenta la falsità dei rapporti, l'apparenza e la seriosità dei ruoli, mentre il secondo ci riporta alla dimensione delle origini, allo stato dionisiaco, alla felicità dell'esistere, alla possibilità di essere noi stessi con gli altri. (Morin, 1997, tr. it. 1999, pp 37-48). In sostanza, è l'idea che Morin si è fatta del vivere l'esistenza con poesia, e che dovrebbe augurare la riduzione dello stato prosaico, alienante, con cui viviamo la vita quotidiana. E', ovviamente, soltanto un ideale, lontano dalla realtà che tutti, almeno la maggioranza delle persone, vive prevalentemente. Tuttavia, la Poesia, almeno per Morin, diventa uno stile di vita, vita incantata.
Il pensiero poetante del Negativo di Emil Cioran
C'è un genere di scrittura, come quella di E. M. Cioran, che fa nascere metafore spiazzanti cariche di un genere poetico particolare, che potremmo indicare come una sorte di "pensiero poetante", secondo l'espressione di Martin Heidegger. Cioran pratica l'arte dell'aforisma e della contraddizione, si fa assertore di un pensiero del peggio, della catastrofe, del suicidio solo come pensiero-scrittura, mentre è avido di vita e si prodiga per aiutare gli altri a salvarsi dal suicidio reale, quello della morte del corpo. Il pensiero poetante di Cioran, provocatorio, non sempre aforistico, in realtà, che ha il fervore di un Jacopone da Todi in Al culmine della disperazione (Cioran, 1934, tr. it. 1998) quando parla del fuoco e di come lo percepisce, come vorrebbe utilizzarlo, in fondo porta agli estremi quell'impasto delle pulsioni di freudiana memoria, anche se, solo in apparenza, sembra volerlo rompere, scinderlo, per cadere nella patologia. In realtà, Cioran attraverso il lavoro della scrittura paradossale è riuscito a inventare un genere terapeutico che, per ammissione di lui stesso, ha avuto lo scopo di salvarlo dalla catastrofe personale.
Dice Cioran in un'intervista rilasciata a J.-F. Duval:
Scrivo per me stesso. Mi sono accorto che scrivere mi faceva bene.
E un pò più avanti , nella stessa pagina, egli aggiunge:
[...] in fondo, tutto ciò che ho scritto l'ho scritto per necessità immediata, volevo evadere da uno stato che mi era intollerabile. Quindi consideravo e considero tuttora l'atto di scrivere una sorta di terapia. Questo è il senso profondo di tutto ciò che ho scritto.
(Cioran, 1995, tr. it. seconda ed., 2005, p. 55).
Cioran ha scritto i suoi libri pensando solo a se stesso, non per fare bella figura o per un lettore particolare, si evince da quanto afferma. Egli si è auto-percepito come "un marginale", e da questa posizione come un uomo libero che scrive liberamente. Nel corso della sua avventura intellettuale si è cimentato con la filosofia, le biografie e in particolare quelle dei mistici e dei santi, di personaggi religiosi come il Buddha, di cui per un certo periodo si illudeva, però falsamente, di essere lui stesso "un buddhista", auto-smascherandosi, passando anche all'interesse per la poesia.
Cioran scrive in maniera esistenziale e metafisica, poetica, sembra pessimista o nichilista, ma non lo è secondo la sua stessa auto-percezione, si contraddice continuamente e in maniera consapevole, e ci tiene a dire che le cose che scrive nascono dai suoi vissuti, dalle esperienze concrete. E' la vita che si auto-contraddice, ed egli è aderente alla vita stessa, alle situazioni che ha vissuto e da cui poi trae i suoi pensieri.
I nostri tempi credo che hanno bisogno di un pensiero stimolante come quello di Cioran, che non dà nulla per scontato e che cerca di smascherare le false illusioni che abitano l'epoca in cui si vive. Sembra che Cioran si confronti più con Dio che con gli uomini, pur rimanendo non credente e ammettendo la necessità di confrontarsi con le religioni. Qui un'altra sua apparente contraddizione: si interessa intensamente delle religioni, dei mistici, dei santi, afferma di aver sperimentato lui stesso l'estasi mistica in alcune occasioni, ma che alla fine si è auto-percepito come non-mistico, non credente. Non crede nel Dio di tutti, degli altri, se mai ci può essere un Dio comune per tutti, ma osserva che se dovesse credere in un Dio gli darebbe un senso personale.
Cioran, inoltre, ha rifiutato di vivere nel mondo della storia, che a suo dire ha portato al collasso l'umanità. Egli ha voluto vivere da persona libera pagando, però, un prezzo alto per questa libertà nei confronti del sistema sociale, pur frequentando a volte i salotti che contano di Parigi, almeno quelli nell'ambito culturale e dove veniva presentato come l'amico di Ionesco e di Beckett.
Cioran ha voluto vivere da povero e da uno che non vuole lavorare, se non per la scrittura, mangiando alla mensa universitaria di Parigi fino all'età circa di quarant'anni. Poi gli hanno detto che non poteva più farlo, così si è dovuto arrangiare diversamente. A Parigi, nel Quartiere Latino, poi è riuscito ad abitare in un piccolo appartamento a un piano alto, tra l'altro con il bagno fuori.
Al culmine della disperazione, scritto a ventidue anni in Romania, è un libro che, a detta del suo autore, contiene tutti gli ingredienti che stanno alla base dei suoi libri successivi. Specialmente nella prima metà di quel libro, l'autore parla, in termini metafisici ed esistenziali, ma anche con una prosa poetica, della sua esperienza sofferta di insonne. Si tratta di un libro che tocca tutti i temi fondamentali del Negativo (la follia, la morte, la malattia, la miseria, la sofferenza, la melanconia, la tristezza, il suicidio, i conflitti di Cristo, la solitudine, il fuoco purificatore, la scissione, la vita cronicizzata, il grottesco, la disperazione, il vizio), e dove c'è una forte avversione verso i cosiddetti 'sani' e 'normali', di cui avverte la mediocrità e pochezza.
Se Al culmine della disperazione è un libro paradigmatico, quello che imprime lo stile inconfondibile della scrittura di Cioran, presente nei suoi volumi successivi, un libro in cui il Negativo viene sviscerato in maniera radicale e acuta, un libro che potremmo considerare con una poetica del Negativo, con un finale soprprendente dove, in maniera spietata e secondo la sua 'verità', scrive alcune considerazioni sul' "arte di essere psicologi". Che nel suo scavo interiore e nella costruzione del suo mondo, Cioran si è fatto psicologo non c'è da dubitare, come non possiamo negare che le sue osservazioni sull'essere 'psicologi' possa valere anche per gli altri.
Nel 1934 le idee che si potevano avere sulla donna probabilmente risentivano di quei pregiudizi stigmatizzanti che la ponevano in un ruolo subalterno all'uomo. Cioran considerava la donna, in quella fase storica, come priva di creatività, incapace di 'scrivere' (sic!). La donna, in Al culmine della disperazione, è così solo colei che può consolare un uomo che vive in uno stato di desolante disperazione, come allora poteva essere la stessa vita del Cioran insonne. L'ultima pagina di quel libro va tuttavia a ciò che può riscattare la vita di un uomo. Cioran, spiazzando il lettore, scrive, infine, che "la sola fonte di speranza" la possiamo trovare nell'amore.
Precarietà, sofferenza esistenziale e linguaggio poetante
Zygmunt Bauman osserva che nella modernità liquida c'è stata una "riclassificazione" di ciò che viene considerato precario. La precarietà motiva a ricercare esperienze di distrazione e piacere. Nell'attuale epoca che viviamo allora l'insicurezza non viene pià considerata una minaccia nei confronti della società. Al contrario, ciò che è incerto, instabile, transitorio, insicuro, favorisce la stabilità del sistema sociale. In questo modo, se prima c'era una "politica di regolamentazione normativa", ora essa è stata sostituita con una "politica di precarizzazione". Rendendo il presente insicuro e il futuro incerto, frantumando la vita in situazioni separate e isolate che non hanno collegamenti temporali - osserva Bauman -, si costruisce un ordine sociale stabile, facendo leva sulla "flessibilità della condizione umana", senza bisogno di ricorrere a dispositivi di controllo panottico istituzionale. Il modo migliore per costruire un ordine sociale a un costo minore diventa, così, la possibilità di rendere l'esistenza precaria, gli individui insicuri e la loro prospettiva temporale incerta. Questa, secondo Bauman, è la scoperta che ha realizzato la modernità liquida in cui viviamo (Bauman, 2002, tr. it. 2003, pp. 204-205).
La Poesia è una qualità dell'esistenza umana, e se vogliamo ne facciamo anche linguaggio. Forse i versi non sono più di moda, o forse hanno ancora senso, il fatto è che sono diventati precari come il modo di vivere disincantato della modernità liquida che rende precaria ogni dimensione esistenziale. Andy Warhol con i suoi dipinti aveva immortalato il senso dello stile consumistico americano. Per esempio, con la serializzazione del volto di Marylin Monroe o la gigantografia di una scatola di latta Campbell il cui quantitativo industriale era destinato, in modo capillare, nella distribuzione sul territorio a negozi e supermercati.
Il consumismo ha iper-accentuato la tendenza e la mentalità dell'usa e getta, per cui ogni prodotto che è presente nel mercato ha una vita breve, un valore monetario e un valore d'uso. Anche il cosiddetto "lavoro flessibile" ha il senso della precarietà dei prodotti del supermercato: ha una durata limitata nel tempo ed è in funzione egoistica dei bisogni del datore di lavoro, precariezzando le condizioni dell'esistere del lavoratore dipendente. La precarietà generica della vita, la difficoltà per un lavoratore di mettere su famiglia e figli, di vivere in un appartamento in proprio perché sono cari gli affitti, o i mutui a tasso variabile che sono diventati svantaggiosi e soffocanti per il continuo rialzo degli interessi aggiunti, non 'parlano' altro che della 'fragilità dell'esistere'. E se le cose stanno così, non c'è da meravigliarsi dell'indebolimento del lato poetico della vita.
Se un linguaggio deve farsi 'poetante', non può che esprimere la sofferenza del vivere in questi primi anni del XXI secolo. Certo, non c'è solo la sofferenza da esprimere poeticamente, e quando c'è da 'cantare' l'amore, la gioia, l'amicizia, la felicità, ben venga, come, per esempio, facevano, ognuno a suo modo, Jacques Prevert e Pablo Neruda. Il linguaggio poetico ha, come sappiamo, la caratteristica particolare di voler essere un linguaggio etico dell'autenticità, altrimenti non ha senso.
Non ho trovato convincente l'affermazione che qualcuno ha detto, a suo tempo, che dopo Auschwitz non è più possibile la Poesia. Altrimenti dovremmo dire che dopo tutte le guerre e le atrocità che sono seguite, dalla fine del nazismo a oggi, a maggiore ragione, ha perso del tutto il suo posto nell'ambito dei generi letterari. Non credo che le cose stiano così. Anzi, bisognerebbe riaffermare la Poesia ogni volta che la violenza e il terrore tentano di distruggere la vita e quanto di buono, come ogni forma d'arte, in essa merita di essere riaffermato con convinzione e vigore.
Scrive lo psicoanalista milanese Giuseppe Pellizzari, nel suo bel libro L'apprendista terapeuta:
Ma se pensiamo che la poesia sia l'unica espressione possibile dopo Auschwitz, sia cioè la ripresa del pensiero e della vita al di là della morte e del collasso umano, al di là del trauma e delle lacerazioni più atroci, il balbettio-canto che, senza cancellare l'orrore, dopo la pausa silenziosa della pietà, reintroduce il ritmo della trasformazione, la parola, il pensiero, non potrà non apparire come gesto fondamentale di rinascita e di riscatto.
In questo senso la poesia non è affatto utile, è essenziale.
(Pellizzari, 2002, p. 140).
Linguaggio poetante e religione
Anche Dio si era detto che era morto. Lo disse Nietzsche con l'immagine del pazzo che gira nel mercato affollato con una lanterna in mano accesa, affermando che Dio è morto, anche se lui lo cerca lo stesso gridando tra la gente. Si tratta di un'immagine paradossale che vuole sottolineare ancora di più la rimozione di Dio dallo scenario umano. Nonostante ciò, Dio continua a 'sopravvivere' nelle religioni storiche istituzionalizzate in ogni angolo del nostro pianeta. celebre è la battuta di Woody Allen "Dio è morto, e nemmeno io sto tanto bene!" Eppure, ancora oggi le religioni hanno i loro seguaci, e il bisogno di trascendenza spirituale rimane un bisogno che il cosiddetto 'progresso' non riesce ad eliminare, se solo potesse.
Max Weber (Weber, 1919, tr. it. 1976, p. 20) aveva preconizzato il "disincanto del mondo" nei primi anni del XX secolo. Credo che sia stato un buon profeta, ma la sua profezia aveva, e per fortuna, un buon margine di errore, perché l' "etica della convinzione", con particolare riferimento alle religioni, ha continuato ad esistere accanto all' "etica della responsabilità" dell'impresa economica capitalistica. D'altra parte, Weber non vedeva in alternativa questi due tipi di etica, se mai ne vedeva una loro convivenza in cui chi seguiva il calcolo razionale non poteva che far prevalere la responsabilità sulla convinzione. Quando l'essere umano si sente minacciato spesso chiede aiuto, in cuor suo, a Dio. E credo che questo può accadere anche agli individui del calcolo razionale.
La spiritualità religiosa si sposa in armonia con il linguaggio poetico. Anche nella Bibbia troviamo un linguaggio poetico, ed esistono raccolte di poesie che sono dedicate allevocazione di Dio. E che sono le preghiere, se non linguaggio poetico spirituale? San Francesco, per esempio, scrisse il Cantico delle Creature dove celebrava la bellezza della natura, e quindi Dio che aveva creato ogni cosa. Se la dimensione straordinaria della Poesia fosse eliminata, l'uomo non esisterebbe come lo conosciamo, al suo posto avremmo il dinosauro o l'automa.
La vita spoeticizzata e la poetica dell'apocalisse del mondo
Martin Heidegger, Emanuele Severino, Umberto Galimberti, solo per citare tre nomi importanti della filosofia, si sono dedicati a riflettere sulla cosiddetta "età della tecnica". Sappiamo come la tecnica non faccia che alienare l'individuo che vive secondo i suoi dettami, trasformandolo in un numero. Quando una persona assume i panni del lavoratore dipendente, smette di essere una persona. Entrando nell'istituzione per cui lavora, questa persona diventa un numero di matricola. La tecnica equivale a un impoverimento della dimensione poetica dell'esistenza. Non è un caso che coloro che lavorano per terzi nelle loro chiaccherare quotidiane menzionano, fantasticando, i luoghi di villeggiatura dove vorrebbero recarsi per le ferie. Di solito si tratta di luoghi esotici, posti di mare dove passare le vacanze, per vivere come 'persone', per 'rifarsi' dell'alienazione di tutti i giorni che sperimentano nei loro luoghi di lavoro per il resto dell'anno lavorativo. Queste persone non fanno che contrapporre i due stati del sociale, quello prosaico e quello poetico, di cui abbiamo parlato sopra a proposito di Edgar Morin, e guardano al poetico come una sorta di 'fuga dalla realtà', dalla loro triste realtà quotidiana.
Il filosofo Herbert Marcuse (Marcuse, 1955, tr. it. sesta ed., 1968) preconizzava l'avvento di una società disalienata, una società in cui l'eros e l'estetico avrebbe caratterizzato le relazioni tra gli esseri umani, liberandoli dalle catene della schiavitù del lavoro oppressivo e dello sfruttamento capitalistico. Il capitalismo invece ha continuato ad esistere perpetuando la sua logica di dominio, basata sulla realizzazione del massimo profitto, riducendo i costi di gestione e, dove possibile, abolendo anche i mezzi materiali di produzione, come è successo con il capitalismo finanziario. Inoltre, la politica conservatrice neoliberista, dagli anni '70 del Novecento in poi, ha favorito l'industria degli armamenti, soprattutto negli Stati Uniti, dunque il capitalismo guerrafondaio. Non è un caso che le guerre sono state alimentate con l'ideologia neoliberista, invece di essere estirpate sul nascere. Naomi Klein, in tal senso, ha coniato l'azzeccata espressione di "capitalismo dei disastri" per indicare tale fenomeno che si è affermato nel nostro pianeta a trecentosessanta gradi (Klein, 2007, tr. it. 2007).
Il XXI secolo è stato inaugurato con la guerra in Iraq e l'azione terroristica dell'11 settembre 2001 alle Twin Towers a New Jork, in maniera emblematica. In questo senso, il mondo in cui viviamo, in senso planetario, non è cambiato in meglio. Man mano che si va avanti nella traettoria del tempo, si accrescono i trofei della scienza e della tecnologia, ma in realtà si sta andando sempre più indietro accentuandosi la ferocia neoliberista. Si accentuano le possibilità di catastrofi planetarie, sia per l'ambiente naturale, sempre più disastrato da quel modo di vivere che chiamiamo civiltà, ma che in realtà ha portato con sé un'enorme distruttività all'ambiente, sia per la macchina del profitto capitalistico che non guarda in faccia nessuno e che fa gli interessi della propria élite, più in maniera illegale che legale, seminando sofferenza, disumanità, morte. Già diceva Cioran, in un'intervista a Duval, risultando profeta degli anni a venire:
E tutto quello che fa l'uomo finisce così. Tutto finisce con l'essere bloccato. Questa è l'umanità, questo l'aspetto tragico della storia. Ogni iniziativa dell'uomo ottiene il contrario di quello che si era prefisso. Tutta la storia ha un senso ironico. E arriverà il momento in cui l'uomo si troverà ad aver realizzato proprio l'opposto di ciò che voleva. In modo più che evidente.
(Cioran, 1995, tr. it. seconda ed., 2005, p. 68).
L'uomo che comunque è un animale geniale, ha il destino di chi si lancia in qualche impresa fantastica ma ne paga le conseguenze. E' troppo eccezionale perché le cose vadano a finire bene. Ha imboccato una via che può condurlo soltanto alla rovina... Non si tratta di pessimismo. Io non ho mai detto che l'uomo è una nullità. Constato semplicemente che l'uomo ha preso una brutta strada, e che non poteva non prenderla.
(Ibidem, pp. 68-69).
E' paradossale il destino umano. Nonostante tutti gli esercizi di immaginazione culturale di saggisti, scrittori, cineasti, scienziati, ecc., per scongiurare il Negativo nel corso della storia fino alla bomba atomica e alle armi biologiche, sembra che non ci sia niente che si possa fare per scongiurare il peggio nel destino degli esseri umani. Il futuro invece di essere il migliore che ci possiamo augurare risulta esserre il peggiore, in tutti i sensi. Proprio per questo, dopo che eravamo partiti bene con gli ideali dell'Illuminismo settecentesco, oggi, agli albori del XXI secolo, le prospettive per l'homo sapiens sono poco entusiasmanti.
Un grande intellettuale come Edgar Morin (Morin, 2007) vuole trovare la speranza nel cuore della disperazione odierna con delle argomentazioni significative, ma che di fronte alle potenze mondiali orientate verso il "capitalismo dei disastri" è come un fragile fiore calpestato dal piede della barbarie disumana. Il mondo diventa sempre meno poetico, e anche l'amore, l'amicizia, la festa, il dionisiaco, in altri termini, non è più come una volta. Certo il mondo va avanti, e non siamo qui per rimpiangere l'obsolescenza del secondo che è già passato, in una modernità liquida che va troppo veloce e che ritiene antiquato l'istante infinitesimale del tempo. Come ha osservato Bauman, nel mondo liquido si vive nell'istante, le esperienze sono istantanee, e già si guarda all'esperienza successiva l'istante dopo che quella precedente è passata, come se il tempo stesso fosse diventato una lattina di Coca Cola. E' la mentalità del consumatore: per lui non è tanto importante l'atto finale dell'acquisto, ma la possibilità eccitante di iniziare l'esperienza del guardarsi attorno in un supermercato. E' questo che gli dà soddisfazione. (Bauman, 2002, tr. it. 2003, pp. 164-165).
La vita si spoeticizza di fronte a una generale disperazione planetaria, e la dialettica tra i due stati del sociale si appiattisce verso un'esistenza quasi del tutto prosaica se il destino che ci attende è quello apocalittico. Non è strano che proprio nel 2007 esce un romanzo di Alan Weisman (Weisman, 2007, tr. it. 2008), negli Stati Uniti, tradotto e pubblicato anche in Italia, dal titolo emblematico Il mondo senza di noi. Il titolo si riferisce a come sarà la terra dopo che noi saremo scomparsi, basandosi su una ricostruzione scientifica di questa possibilità estrema. La catastrofe è già in atto, come direbbe Cioran. Il punto è sapere fin dove ci porterà questa catastrofe, e se mai ne verremo fuori, o se ormai si tratta di quotidianizzare l'incubo e normalizzare lo stato di panico. Se quella che chiamiamo "normalità" sta portando l'umanità sull'orlo della fine della vita, c'è da chiedersi che cosa sia la "follia". E se la "follia" - possiamo allora domandarci - fosse una condizione più sana della normalità di coloro che gestiscono la polis? L'antipsichiatra Ronald Laing aveva questo sospetto. Che avesse ragione?...
Che cos'è la Poesia? Una risposta ipotetica per i nostri tempi
Ritorniamo, infine, alla domanda attorno alla quale qui si discute: Che cos'è la Poesia? Nell'antica grecia, come ho già accennato, essa era incantamento che alleggeriva l'anima dalle sue sofferenze. Oggi la Poesia non può sottrarsi dal lavoro del simbolico dove la trasformazione interiore, attraverso la parola, ha come sostanza iniziale il vissuto esistenziale del poeta stesso. Diventa necessario, come osserva Paul Valéry nelle due citazioni d'apertura, insieme a quella di Rilke, da una parte avere cura della qualità del modo di pensare, perché, come nello stesso caso di Valéry, la vita viene trasformata dal modo come la pensiamo; dall'altra, è fondamentale tenere conto che ciò che l'artista scrive "di getto" ha meno valore creativo rispetto alla scrittura su cui egli ritorna a lavorare, fino ad ottenere un risultato più immaginativo e pensato poeticamente. Se non si vuole scadere in versi che riflettono solo il narciso vuoto del falso poeta, il vero poeta non può che essere amico e nutrire un autentico interesse per sophia.
Come ha osservato Jean Clair:
[...] chi ai giorni nostri formuli ancora il progetto di diventare un artista potrà soltanto dedicarsi a ciò che può definirsi una 'elaborazione del lutto'.
(Clair, 1996, tr. it. 1999, p. 31).
Il poeta diventa così un cantore della caducità del tempo, della natura e dei lutti che lui stesso vive in prima persona. Sophia chiede al poeta di transitare nell'Ombra senza identificarsi distruttivamente con essa, semmai per colloquiare e trarre da questa frequentazione una conoscenza degli aspetti inferiori e oscuri della sua personalità. Il fascino discreto di questa conoscenza è un "conosci te stesso" che apre alla filosofia e alla psicologia, prima di diventare esercizio ispirato del pensiero poetante dell'homo imaginalis. E' qui che si apre al viandante dei mondi invisibili, della memoria e dell'immaginazione, il sentiero dell'esistenzialismo immaginale. Tuttavia, questo ideale romantico dell'immaginazione, allo stesso tempo poetico e filosofico, va ricontestualizzato nel nuovo scenario 'duro' della globalizzazione, prendendo atto di trovarci in un contesto planetario per eccellenza impoetico, in cui l'alienazione non è stata azzerata, ma semmai 'aggiornata' in forme consone ai nuovi dispositivi di controllo globale.
Il filosofo Pier Aldo Rovatti di recente (Rovatti, 2007) riflette sul pendolarismo tra l'addomesticamento dell'altro e l'abitare la distanza. E' del parere che l'altro reale 'deve' essere addomesticato, e che ognuno di noi cerca di farlo ogni giorno, l'altro però si sottrae e non potrebbe essere che così perché altrimenti verrrebbe meno la sua alterità di altro, come ognuno di noi è altro per l'altro. Questa motivazione a voler addomesticare l'altro emerge dalla paura che l'altro sia un barbaro e che in quanto tale minaccia la nostra incolumità. Così, la questione dell'addomesticamento dell'altro è relativa alla questione della sicurezza che assilla l'epoca attuale, specialmente in Occidente. La sicurezza è stata ideologizzata per giustificare la guerra e legittimare il business che gira attorno all'industria degli armamenti e delle infrastrutture militari e d'assalto.
In Occidente viviamo una vita difensiva, sempre sul chi va là, impostata sulla paura dell'altro, che dell'altro non ci si può fidare. Abitare il mondo diventa difficile e preannunzia ferite sul campo, una sofferenza che si vuole evitare. La libertà diventa un camminare in tondo in un perimetro sorvegliato e blindato, un simulacro di libertà. Forse si è 'liberi' solo tra le pareti domestiche?... Liberi di che? Di mettersi comodi al di fuori degli sguardi altrui, dei 'barbari' che stanno là fuori? Così viviamo il mondo come impoetico, inabitabile, ma chiudersi nella propria torre d'avorio può diventare un'altra forma di alienazione, un'altra forma di impoeticità, l'impoeticità del soggetto? D'altra parte, la logica del reale della nostra epoca è quella dela vita esteriorizzata, in cui la dialettica tra dentro e fuori viene, come osserva Rovatti, abolita nell'appiattimento sulla visibilità esteriore. Viene stigmatizzata l'interiorità. L'interiorità non credo che però sia abolità, ma che venga vissuta con questo stesso stigma interiorizzato, stigma che inibisce la volontà di pensare per i più, che inibisce e paralizza il pensiero critico. Questo 'blocco' del 'dentro' allora favorisce il conformismo e l'adattamento e impedisce quella che Rovatti chiama, appunto, "abitare la distanza" e "l'esercizio del silenzio" cioè, in altre parole, la solitudine, anche se intesa in senso favorevole come condizione per pensare e immaginare.
La globalizzazione provoca isolamento, incertezza, insicurezza, ossia la "politica della precarizzazione", come dice Bauman. Peter Sloterdijk, di cui parla Rovatti nel suo breve ma interessante saggio sull'addomesticare l'altro, è del parere, invece, che l'individuo, in questo scenario globale, venga slegato dai possibili legami con il sociale, un sociale destituito di senso, certo, con una manovra di "sgravio" o "esonero" che toglie all'agire delle persone senso e scopo, per cui si vive come in una "serra", ossia nella "società del capitale" chiarisce Rovatti, che è anche la società dei consumi, dotata di dispositivi di controllo, di sorveglianza, vivendo così "in una comunità autocoercitiva" in cui vengono a mancare le aree in cui vivere (Rovatti, 2007, pp. 16-17) . Di conseguenza, le azioni degli individui diventano in tale contesto insignificanti, fanno degli stessi individui, come direbbe l'antropologo Marc Augé, dei "non luoghi". Nelle parole di Rovatti: "L'individuo è diventato un se stesso senza luogo"( ibidem, p. 18).
La minaccia, sulla base di questo controllo, è che ogni forma di devianza diventi visibile dall'esterno, con le telecamere urbane, e che questa visibilità diventi un deterrente nei confronti dei reati. Il fatto è che però i reati ci sono lo stesso, e non è detto che siano diminuiti. In questo triste scenario urbano, dov'è il poetico, dov'è l'abitare poeticamente questa terra? Non rimane, come dice Clair, che l'elaborazione del lutto per la perdita di un modo di vivere più umano, nell'operare dell'artista odierno. Se è così il poetico non può che rappresentare la disfatta umanistica, la rovina degli ideali illuministici, se rivolge lo sguardo con nostalgia verso il passato, ma verso il presente non può che annotare la sua impoeticità barbara, mentre il futuro rimane sempre un esercizio dell'immaginazione, un esercizio di anticipazione immaginativa dei possibili scenari complessivi, con un buon margine sia di errore che di profetico realismo. Max Weber in quest'arte della profezia è stato un grande precorritore del Novecento, anticipando nelle sue previsioni il "disincanto del mondo", tra il fenomeno della pervasività della burocrazia e il razionalismo del calcolo capitalistico, di cui però non aveva predetto le sue innumerevoli e distruttive crepe irrazionali. Se il poetico è l'essenza dell'esistere umano, anche in questo scenario apocalittico disegnato dalla globalizzazione, non potrà, nel suo linguaggio, che dirci delle crepe della heideggeriana casa dell'essere, sperando di avere ancora un riparo sulla testa e un orto di vita, e non un deserto atomico.
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