sabato 24 maggio 2008

Arte, scrittura e dolore

INDICE DEI PARAGRAFI

  • Immaginazione e cervello
  • Virginia Woolf e Oscar Wilde
  • Il filosofo Emil M. Cioran
Immaginazione e cervello
L'emisfero destro del cervello possiamo anche chiamarlo, in base agli studi scientifici sullo "split brain" da tempo confermati, e volendo utilizzare una metafora che vi si addice, come l' emisfero poetico. Il 'poetico' non è solo un tipo di scrittura che si realizza nei versi, e che qualcuno potrebbe stigmatizzare come 'irrilevante' per l'esistenza. Al contrario, se l'esistenza si riduce alla dimensione 'razionale', senza considerare il poetico come ciò che è presente in tutti gli aspetti significativi della vita, essa diventa sterile. Un grande studioso della complessità come Edgar Morin, ha sottolineato l'importanza della dimensione poetica della vita, che lui considera uno dei due stati fondamentali del sociale (Morin, 1997, tr. it. 1999). James Hillman, filosofo e psicologo junghiano, ha coniato la bella espressione di "base poetica della mente" (Hillman, 11975, tr. it. 1983) per osservare che la nostra mente funziona in modo poetico quando vive in armonia con se stessa, e coltiva uno sguardo verso la vita che è pieno di amore.
D'altra parte, l'arte si occupa del 'nulla', eppure è così importante per noi esseri umani da rimanerne affascinati ogni volta che entriamo in un rapporto di fruizione dell'opera d'arte. L'arte è un parto dell'immaginazione, e l'artista utilizza un mezzo espressivo particolare per materializzare le forme che sono presenti nella sua immaginazione. Il pittore tradizionale utilizza colori, pennelli, e tele, lo scrittore carta e penna, lo scultore la creta o il bronzo o altri tipi di materia. In ogni caso, l'arte è un'attività gratuita, cioè che trae il suo piacere e il suo senso nello stesso suo farsi. Vivere solo in funzione della 'razionalità' alla fine rende l'esistenza vuota e priva di significato. Tutti i veri artisti fanno emozionare con le loro opere, chi nella rappresentazione del bello che del brutto. Se non piace un dipinto, si prova un'emozione negativa, anche di rifiuto; se invece piace si ha un'emozione di gioia o di dolore, trasfigurate esteticamente.
Il sogno, si sa, è fatto di immagini. Diamo una grande importanza alle immagini. L'immagine ha anche uno spessore religioso. Non per nulla, per molto tempo il Papa e la classe sacerdotale cattolica hanno commissionato dipinti, murali, sculture, agli artisti per le loro chiese. D'altra parte, l'arte ha una sua religiosità che può essere autonoma rispetto alle religioni storiche e codificate, e che ha il suo luogo proprio, il referente fondamentale, nell'anima dell'artista. A volte la religiosità dell'artista si incontra con le religioni storiche, altre volte no, ma in ogni caso egli non è più obbligato, come quando la Chiesa cattolica, in Occidente, era il principale committente dell'opera, oltre a servire gli aristocratici e più tardi i ricchi borghesi, a prestare la sua opera al servizio di un committente così come vuole lui. L'artista di oggi è più interiore, rappresenta, a modo suo, la realtà in cui vive.
Anche la scrittura - nei romanzi, nei racconti, nelle poesie - è costituita di immagini e ci fa immaginare. Proviamo un piacere immateriale, direi cerebrale, nell'immaginare. Qualcuno ha detto che si può dipingere con le parole. Credo che sia proprio così. Le parole possono essere utilizzate come i colori del pittore per rappresentare le immagini in linguaggio.
La scrittura per essere viva deve attivare le strutture del cervello rettile (pulsionale) e del cervello mediale dei mammiferi, il mesencefalo, per stimolare gli appetiti e l'interesse. Altrimenti, proviamo una certa noia. Ci piace quando l'arte, nelle sue varie forme, esprime eros e sensualità. D'altra parte, abbiamo una reazione emozionale anche quando l'arte esprime la violenza, si occupa del crimine, della guerra. Buona parte della letteratura è intrisa di violenza in ogni forma, come sappiamo tutti. Certo, la violenza non è educativa, ma può far riflettere nella sua rappresentazione estetica.
Se scriviamo con la neocorteccia e la mano, tuttavia la scrittura deve emozionare, ci deve comunicare delle immagini, e questo avviene se alla scrittura partecipa non solo la neocorteccia ma anche le parti del cervello che sono più vicine al sentire. Così, il cervello pulsionale, o rettile, è più a contatto con il corpo e ciò che questi sente nelle sensazioni dei cinque sensi fondamentali, oltre alle sensazioni viscerali dell'organismo (per esempio, quando sentiamo fame, o il bisogno di evacuare, lo stimolo sessuale o il sonno). D'altra parte il sentire lo sperimentiamo anche con le emozioni e i sentimenti del mesencefalo. Così, una scrittura che 'ci prende', che ci fa desiderare la continuazione della lettura è quella che attiva il nostro interesse, è la scrittura che non è a zero di rappresentazioni e metafore che coinvolgono la vita, anzi è una scrittura in cui c'è l'esistenza così come la viviamo anche noi. Si tratta di una scrittura empatica, quella che ci piace leggere, perché chi scrive è un bravo lettore di se stesso, ed è 'uno di noi' allo stesso tempo.
Il dolore esistenziale è presente negli artisti più grandi che hanno saputo dargli le forme più singolari, partecipando con l'immaginazione di lettore all'immaginazione del creatore di quell'opera che ci ha tanto colpito, naturalmente in senso estetico. In pittura, i dipinti di Edvard Munch ci colpiscono per la rappresentazione del dolore nelle sue varie forme psicologiche, mentre i dipinti di Marc Chagall sono momenti di festa per gli occhi, per la gioia e l'amore che celebrano quasi sempre nelle sue tele. D'altra parte, i grandi scrittori ci fanno immaginare con le parole ogni forma di sentimento ed emozione, ci fanno creare delle situazioni esistenziali, delle situazioni particolari, ci trasportano in altri mondi. Anche le poesie, quelle scritte con l'anima e il cuore, possono segnarci intimamente, nella nostra sensibilità, educando il nostro sguardo a percepire la realtà esterna e i fenomeni che l'abitano secondo chiavi interpretative che ci fanno vedere l'invisibile che pure è presente nel visibile. Anche in questo caso, c'è una partecipazione del cervello 'di mezzo', il mesencefalo, nella creazione delle immagini che ci permettono di trovare una poesia profonda e importante, per la nostra anima. Il dolore ci educa a vivere con dignità l'esistenza, ci permette di vedere al di là del facile edonismo a cui il consumismo ci ha 'educato'. Il dolore ha bisogno di espressione, e l'espressione comporta la creazione di un 'mondo autonomo'. Ecco perché l'arte è terapeutica. E ogni aspetto dell'esistenza che viene vissuto con dolore, può ricevere una forma nell'espressione su cui l'artista ci lavora, mentalmente e manualmente. L'immagine viene forgiata in maniera che avvicini sempre di più l'espressione concreta alla sensibilità intima, come si vuole raprresentarla e comunicarla in una particolare forma d'arte. E' in questo 'lavoro estetico' che l'artista può trovare il suo lenimento. La 'precisione' con cui il 'sentire interiore' si avvicina all'espressione, alla costruzione della forma, realizza la soddisfazione psicologica dell'artista. Tuttavia, essa è preceduta dalla 'tensione creativa' che sostiene l'attenzione del fare-arte, come pure del fare-pensiero del filosofo o dello scienziato. Arte, filosofia e scienza, in realtà, sono in intima relazione tra loro.
Virginia Woolf e Oscar Wilde

"L'indifferenza del mondo, che tanto faceva soffrire Keats e Flaubert e altri uomini di genio, nel caso della donna non era indifferenza bensì ostilità. Il mondo non diceva loro, come agli altri scrittori: Scrivete se volete: per me è esattamente lo stesso. Il mondo diceva ridendo: Scrivere? A che cosa vi serve scrivere?"
Virginia Woolf (1882-1941)








"Lo scopo della vita è l'autosviluppo. Sviluppare pienamente la nostra individualità, ecco la missione che ciascuno di noi deve compiere."

"L'artista è colui che crea cose belle."

"L'uomo che vive artisticamente la sua vita ha per cuore il cervello."
Oscar Wilde (1854-1900)

Bisogna riconoscere un grande merito a Virginia Woolf per le sue due conferenze del 1928 che formano il saggio Una stanza tutta per sé (Woolf, 1929, tr. it. 1993) e che pubblica l'anno successivo. La Woolf rivendica uno spazio fisico per la donna, una stanza per se stessa, dove proiettare il suo mondo, e dove poter costruire un mondo con il linguaggio. Hans-George Gadamer in Verità e metodo ha distinto due tipi di "mondo": il "mondo-ambiente", che è quello che gli esseri umani condividono e in cui interagiscono, e il "mondo-linguaggio", dove ognuno di noi può ricreare il mondo attraverso le parole (Gadamer, 1960, tr. it. terza ed., 1986). Soprattutto il "mondo-linguaggio" è per noi importante per dare senso alla nostra presenza nel mondo.
Nel corso dei secoli, la società maschilista ha costruito delle teorie di controllo nei confronti della donna affinché l'uomo potesse dominarla. Il ventiduenne Emil Cioran, come dirò anche nel paragrafo succesivo dedicato a lui, si fa interprete di una di queste 'teorie del controllo della donna', considerandola come un essere inferiore che aveva l'esclusivo compito di attenuare l'infelicità dell'uomo con l'amore che sapeva dare con il suo corpo. Per il resto, la donna non aveva, per il giovane Cioran sofferente di cefalea, un posto nell'ambito delle arti, della filosofia e della scienza. L'opinione di Cioran sulle donne, espressa nel suo primo libro pubblicato in Romania, Al culmine della disperazione (Cioran, 1934, tr. it. seconda ed. 2003), media una delle 'teorie stigmatizzanti del controllo dell'uomo sulla donna' che era in voga soprattutto nelle società patriarcali e autoritarie fallocentriche.
La Woolf con Una stanza tutta per sé si mostra una femminista dell'emancipazione creativa della donna, e anticipa poco più di un ventennio il monumentale saggio di Simone de Beauvoir Il secondo sesso del 1949. L'opera della Woolf e quella della de Beauvoir sono però assai diverse, ma hanno in comune l'emancipazione della donna. La Woolf consigliava alle donne di abitare in uno spazio indipendente. E' convinta che solo tenendo insieme il maschile e il femminile l'artista può creare qualcosa, nella condizione di una androginia interiore. La fantasia così diventa espressione artistica solo quando ha origine da una bisessualità della mente. Una stanza tutta per sé vuole essere per la Woolf una prospettiva verso una duplice metamorfosi (v. il commento finale di Marisa Bulgheroni in La stanza tutta per sé): da una parte quella della donna che inizialmente conquista la sua indipendenza (la stanza tutta per sé), ma che è proiettata verso un'emancipazione più consistente che ne faccia un soggetto storico di emancipazione; dall'altra c'è la metamorfosi della stessa Woolf in senso creativo. E' interessante notare che il sociologo Alain Touraine nel 2004, nel suo importante saggio La globalizzazione e la fine del sociale (Touraine, 2004, tr. it. 2008), ha considerato le donne e il movimento femminista come il nuovo soggetto storico da cui dipende la trasformazione di quello che è diventato un simulacro di società a causa della globalizzazione.
Virginia Woolf ha rivendicato la creatività extra-materna per le donne, contestando il monopolio maschile dell'arte. La Woolf, d'altra parte, viveva una malattia che la teneva, nei momenti in cui si sentiva affaticata, nel letto. Lei alla fine si è suicidata perché, a un certo punto, non credeva più nell'importanza della scrittura. Ha, probabilmente, vissuto una crisi espressiva e depressiva, un'aridità sopravvenuta all'improvviso, o che forse viveva già da un pò, che l'ha fatto sentire senza senso, anche come scrittrice. E' probabile che la Woolf abbia vissuto una crisi d'identità. Non credo che sia un caso che abbia scritto Orlando (1928), dove questo personaggio è pensato come un androgino. Essere bisessuali nella società vittoriana inglese, nel primo Novecento, non doveva essere facile.
Non era facile, del resto, nemmeno per gli omosessuali. Come sappiamo nel caso di Oscar Wilde, fine scrittore di talento, finito in carcere per essere omosessuale, e dopo la carcerazione anche per bancarotta. E' probabile che la reclusione gli abbreviò la vita a causa dell'effetto traumatico che ebbe su di lui in termini di stress psicoemozionale. In questo senso, Wilde, come la Woolf, furono stroncati da un dolore psichico, intimo, che segnò irrimediabilmente l'esistenza di ognuno di loro due.
Se La Woolf morì suicida, Wilde pervenne all'eterno riposo a causa di una meningite. Quello che in realtà la società vittoriana non gli perdonò fu la critica tagliente e beffarda a quella che era la sua 'buona società', come nella commedia Il ventaglio di Lady Windermare (1892). Gli ultimi cinque anni di vita che Wilde dovette affrontare furono quelli più tragici. Infatti, a causa dell'atteggiamento critico e ironico nei confronti della società perbenista londinese, l'artista fu ripagato dall'establishment con l'ostiltà e la cattiveria più distruttiva, a partire dal 1895.
Anche se Wilde si sposa per un suo tornaconto personale, poco più tardi conosce Lord Alfred Douglas, nel 1891, e con lui iniza, successivamente, una relazione omosessuale. Douglas veniva chiamato con il suo nomignolo "Bosie". Questa relazione gay divenne pericolosa per Wilde, e provocò uno scandalo nella società conformista londinese. Bosie era l'opposto di Oscar, e si fa fatica a capire come lui l'abbia avuto come amante. Bosie aveva una personalità narcisista, a scuola era sempre stato scarso, anche all'università. Wilde, al contrario, si era laureato con il massimo dei voti ed era un uomo di cultura. Inoltre Oscar era una persona altruista, gentile, amorevole, generosa. Bosie era un parassita egoista che, da quando era iniziata la relazione con Wilde, si comportava come uno sfruttatore cinico, edonista, che non aveva nessun riguardo rispetto alle ingenti spese a cui costringeva l'artista per soddisfare le sue voglie di piacere, facendo, per esempio, colazione nei bar più lussuosi di Londra. Fu il padre di Alfred, John Sholto Douglas, Nono Marchese di Queensberry, a denunciare Wilde per sodomia.
Dopo varie vicissitudini, nel 1895 Oscar Wilde venne chiamato a rispondere del reato di sodomia e fu condannato al carcere e ai lavori forzati per due anni, da trascorrere presso la prigione di Reading. Fu in prigione che, a partire dal 1897, scrisse la lunga lettera a Bosie che prese il nome di De Profundis, pubblicata postuma per sua volontà. La lettera aveva un intento pedagogico nei confronti del giovane e immaturo Lord Alfred Douglas. A parte il lavoro carcerario obbligatorio, il resto del tempo Wilde lo utilizzava per riflettere e scrivere. Passava tanto tempo in solitudine e nel dolore dell'ingiustizia subita, e la mente ritornava al tempo condiviso con Bosie. Wilde non poteva fare a meno di rimproverarlo per come si era comportato con lui.
Oscar in carcere aveva conosciuto la bellezza del dolore e di come permette una maturazione del carattere. In De Profundis Wilde scrisse, in tal senso: "Ora capisco come il dolore, essendo la massima emozione di cui sia capace l'uomo, sia insieme simbolo e pietra di paragone di tutta la grande arte." (Wilde, 1897, tr. it. 1988, p. 86). Si prefigurava che se Bosie avesse letto quella lettera l'avrebbe trovato non di suo gradimento, che l'avrebbe potuto ferire. Tuttavia, Wilde non trovava ciò negativo, anzi esortava Bosie a rileggere più volte la lettera illudendosi che ciò avrebbe potuto apportare al suo carattere un cambiamento positivo. Non si sa se Bosie abbia letto veramente questa lettera, anche perché lui negò di averla ricevuta. Essa fu pubblicata la prima volta nel 1905, e in maniera più completa nel 1960.
La relazione con Lord Douglas fu la vera relazione omosessuale che ebbe Wilde. Non è che Oscar amasse veramente la moglie Constance Lloyd, la sposò più che altro per salvare la sua immagine di fonte alla società e per convenienza. Da questo matrimonio nacquerò due figli, Cyril e Vyvyan. Dopo che Wilde iniziò la sua relazione omosessuale con Douglas, si separò dalla moglie. Nel suo intimo, Oscar si percepiva come un omosessuale, ma viveva questa sua identità sesuale con sofferenza anche perché dalla società dell'epoca l'omosessualità veniva fortemente stigmatizzata. Al dolore per non poter vivere apertamente il suo essere gay, nel corso del tempo si sommò anche il dolore della perdita. Infatti, egli dovette affrontare diversi lutti, come quello della madre e poi della ex moglie, il momentaneo abbandono del vanitoso Bosie.
Dopo la scarcerazione il 19 maggio 1897, Wilde rivide Bosie e insieme passarono un pò di tempo in Italia. I parenti di Oscar che di Bosie tuttavia minacciarono di non passare più denaro a ognuno di loro due se avessero continuato la loro relazione. Così alla fine si lasciarono in maniera definitiva a gennaio del 1898. Senza quel denaro, Wilde non avrebbe avuto altre risorse per vivere. Da quel momento in poi, l'artista, che mostrò di essere veramente una gran bella persona, non ebbe d'altra parte molto altro tempo da vivere. Morì a soli quarantasei anni, lo stesso anno in cui scomparve anche Nietzsche. L'anno precedente Sigmund Freud aveva dato alle stampe L'interpretazione dei sogni.
Ai tempi di Wilde, l'omosessualità veniva considerata una condizione aberrante, un reato da punire con il carcere. E' veramente strano che nella società inglese vittoriana ci fosse un atteggiamento così repressivo nei confronti della sessualità, anche perché prima di allora gli esseri umani, fin dagli albori della specie homo, praticavano la sodomia. Del resto, sono le rappresentazioni artistiche di ogni epoca a ritrarre scene di erotismo anche omosessuale. D'altra parte, se Oscar Wilde fosse vissuto ai nostri giorni, dopo la "rivoluzione sessuale" degli anni '60 del XX secolo, avrebbe trovato un clima sociale molto più tollerante nei confronti dell'omosessualità. Ai tempi della regina Vittoria, come sarebbero stati considerati i 'matrimoni gay' che si celebrano in alcuni Paesi occidentali del XXI secolo?...
La relazione tra Oscar Wilde e Alfred Douglas, come si è accennato sopra, è quella tra due uomini molto differenti dal punto di vista della loro personalità. L'opposizione tra una personalità orientata verso la persona amata e che per questa persona è disposta a 'sacrificarsi' per renderla 'felice' o, meglio, per soddisfare i suoi capricci egoistici, e quest'ultima che invece è più centrata su se stessa in senso narcisistico, incapace di profondi affetti come la prima, cinica, edonista, sfruttatrice, in realtà incapace di amare. Come ha osservato il pioniere della psicologia del Sé Heinz Kohut, c'è il narcisismo patologico, è vero, ma c'è anche una forma di narcisismo sano. Il narcisismo patologico può essere esemplificato dalla personalità di Lord Alfred Douglas, attualissima anche oggi, mentre il narcisismo sano lo vedrei nella figura di Oscar Wilde, un narcisismo che coincide con la sua vocazione artistica di alto livello e realizzativa del proprio Sé. D'altra parte, il narcisismo d'artista di Wilde non interferiva con la sua capacità d'amare un altro essere umano. Alfred Douglas invece era un mediocre vanitoso, e l'unica cosa che sapeva fare era sfruttare il prossimo, in questo caso Wilde. L'opposizione di queste due personalità sono attualissime anche agli albori del nostro secolo XXI. L'individualismo narcisistico che prevale nella nostra epoca va considerato anche alla luce del modo di vivere inaugurato dalla globalizzazione. Il narcisismo oggi fa parte della personalità di ognuno. Le sue derive provocano disagio nell'individuo.
Il filosofo Emil M. Cioran

Emil M. Cioran (1911-1995)

Emil Cioran era un filosofo apocalittico, vedeva il negativo dappertutto. Egli aveva sofferto da giovane di cefalea, e questo male gli impediva di dormire, per cui era, soprattutto in quel periodo della sua vita, maledettamente insonne. Scriveva di notte come Charlie Bukowski. Era di origine rumena, come Mircea Eliade, ma più tardi riuscì, grazie a una borsa di studio, ad andare a vivere a Parigi, e da allora ci rimase.
Cioran aveva un'inclinazione particolare nel fiutare il negativo. Interpretava il mondo 'squartandolo', 'decomponendolo'. Attenzione, egli decomponeva, non decostruiva come Jacques Deridda. Cioran era una sorta di becchino del pensiero. Di solito lui vedeva il mezzo bicchiere vuoto delle cose che accadono nel mondo, e rimuoveva l'altra parte del bicchiere, quella che era piena. I titoli dei suoi saggi - diversi scritti con aforismi, come, per esempio, in certi scritti aveva fatto Nietzsche - erano caratteristici del suo modo di pensare, sistematicamente, la vita al negativo. Per esempio, Al culmine della disperazione, Squartamento, Sommario di decomposizione. Titoli, come vediamo, abbastanza allegri!
Anche se l'associazione può sembrare ardita, la faccio lo stesso: la filosofia estrema del negativo di Cioran fa pensare al genere horror della letteratura popolare dei fumetti o del cinema, o della letteratura horror propriamente detta. Cioran credo che sia vicino a Edgar Allan Poe più di quanto si possa immaginare. Cioran, d'altra parte, può far pensare anche a personaggi come un Jack lo squartatore e simili. Questo filosofo del negativo di origine rumena, dal passato fascita, come Mircea Eliade e di cui era amico e critico (Laignel-Lavastine, 2002, tr. it. 2008), è però un autore importante, anche se considerato un pensatore minore. Tuttavia, Cioran è un autore interessante perché annette alla filosofia un filone che di solito appartiene ad altri generi letterari. Con Cioran, la filosofia si appropria dell'orrore che è insito nella vita.
Cioran fa pensare anche ai dipinti di Francis Bacon, a quelle tele dove il pittore rappresenta quarti di bue squartato, agli accoppiamenti bestiali tra omosesuali, alla dimensione satanica del potere, perversamente rappresentata dal ghigno di un Papa il cui soggetto originario Bacon l'aveva tratto dal pittore Velasquez.
Se considero Cioran un becchino del pensiero, ciò non significa che il suo pensiero non abbia valore. Anzi, lui, ancora di più di Ugo Foscolo, e in maniera radicale, ha una visione della vita dal punto di vista cimiteriale, del dolore, della malattia, della morte, del nulla. Nei suoi scritti ho letto che ha l'inclinazione a far visita ai cimiteri, e che questa particolare eccentricità lo fa meditare sulla morte e sulla vita, restituendogli le proporzioni che ha il vivere.Quando con la bicicletta percorro la pista ciclabile che da Piazza Beccaria mi fa arrivare a Piazza della libertà, passo dal Cimitero degli Inglesi. Si tratta, per così dire, di una sorta di 'isola dei morti' nel mezzo della città, e a volte mi è venuta facile l'associazione con Emil Cioran e la sua predilezione per i cimiteri.
Cioran è stato un filosofo del dolore, e i suoi pensieri hanno tratto linfa dai mali che lo stesso filosofo è stato costretto a incarnare, suo malgrado. Egli ha scelto la prospettiva nichilista, anche se quando gli è stato detto di scrivere come un 'nichilista del nulla' lui ha negato di esserlo. Tuttavia, è proprio su quel trono che si è seduto, guardando il mondo con occhi che setacciano lo sguardo dalle impurità del bene. Quello di Cioran è uno sguardo verso il mondo purificato dalle 'imperfezioni' del 'bene', uno sguardo che del mondo ha cercato di cogliere il negativo come assoluto.
La filosofia di Cioran ha, naturalmente, e come tutti, dei debiti nei confronti di altri pensatori che hanno detto la loro prima di lui. Ciononostante, Cioran è riuscito a scrivere un pensiero originale in un ottimo francese, una lingua che lui ha appreso nella maturità degli anni e con dolore, anche perché la lingua francese è rigorosa e lascia poco spazio alle approssimazioni come nel caso del rumeno, la sua lingua madre. In ogni caso, Cioran, mentre si trovava in Romania ebbe modo di apprendere un pò di tedesco e di leggere qualche autore in tale lingua, mentre il francese si parlava a Bucarest, negli anni Venti e Trenta del Novecento, soprattutto nell'ambiente intellettuale. Cioran sfidò il senso comune che dominava nel suo Paese natio. Soprattutto quando scrisse i primi suoi lavori in rumeno e li voleva pubblicare. Il primo suo lavoro è Al culmine della disperazione (Cioran, 1934, tr. it. seconda ed., 2003) dedicato a ogni forma di dolore che si possa sperimentare nell'esistenza. Si tratta di un saggio metafisico, in cui si può trovare un'ottima esplorazione psicologica delle forme di sofferenza, ma anche, purtroppo, una concezione discriminatoria nei confronti della donna considerata inferiore all'uomo.
La Romania era, soprattutto negli anni Trenta, un paese religioso attaccato al cattolicesimo. Quando Cioran stava per pubblicare Lacrime e santi (Cioran, 1937, tr. it. quarta ed. 2002), l'editore, su consiglio del tipografo, diede un'occhiata a questo scritto, e subito dopo ne fermò la stampa nella maniera più decisa. Si trattava di un editore di scritti religiosi, e ritenne che le cose che aveva scritto Cioran fossero anti-religiose nel modo più radicale. Amareggiato, Cioran lo stesso giorno si recò in un bar e raccontò quanto gli era successo con quell'editore. Un tipografo che si trovava in quel locale gli disse che glielo avrebbe stampato lui il suo scritto. E così fu. Lacrime e santi fu pubblicato nel 1937 in una edizione molto limitata. Tuttavia fu un grande insuccesso. Coloro che lo lessero ne rimasero sconcertati, a partire dai suoi genitori, per non parlare anche di Eliade. (Cioran, 1995, tr. it. seconda ed. 2005).
Cioran, dunque, scriveva in maniera originale, diciamo un pensiero eccentrico che sfidava il senso comune. Da questo punto di vista, egli era eccezionale. Del resto, come ogni vero filosofo quasi-coerente con il proprio pensiero, credo che egli abbia vissuto le metafore della sua dilaniata scrittura, almeno in una certa misura. Dico quasi-coerente perché non si è mai 'coerente' fino in fondo, nemmeno l'uomo più saggio lo è. Le contraddizioni abitano la mente di ogni essere umano, per cui anche Cioran aveva le sue inevitabili contraddizioni.
D'altra parte, un filosofo come Ludwig Wittgenstein era consumato dalle ossessioni rispetto alla possibilità di conquistare una coerenza morale, per poter dire a se stesso di essere finalmente degno di chiamarsi 'filosofo', e di poter scrivere da filosofo solo dopo aver conquistato tale coerenza morale. Wittgenstein aveva delle difficoltà caratteriali, come fanno fede alcuni episodi biografici della sua vita. Per esempio, era un uomo un pò autoritario e quando decise di fare il maestro, in una scuola provinciale, una volta diede uno schiaffo a un'allieva. Di tale episodio fu lui stesso a pentirsene e a provare una ferita nel suo amor proprio. Inoltre, Ludwig proveniva da una delle famiglie più ricche dell'Austria. Alla morte del padre, lui non volle ottenere l'enorme quota di patrimonio ereditato, e lo lasciò ai suoi consanguinei. Certo, quando aveva bisogno, la sorella o i fratelli erano pronti ad aiutarlo, ma volle vivere da 'povero'. Per lui era più importante lottare per diventare un uomo dignitoso, con un minimo di coerenza morale. La difficoltà trovata nel pubblicare il suo primo saggio filosofico, il Tractatus logico-philosophicus (edito nel 1921), fece soffrire molto Ludwig, scatenenando in lui una crisi nevrotica. (Wittgenstein, 1914-1916, tr. it. 1999; Monk, 1990, tr. it. 2000).

E' probabile che Emil Cioran abbia maturato questo desiderio di vivere come 'un filosofo' quale lui era, ma sentiva dentro di sé delle colpe rispetto al suo passato fascista in Romania, e a Parigi voleva redimersi dal suo passato. Da quello che lui ha detto nelle sue interviste (Cioran, 1995, tr. it. seconda ed. 2005), a Parigi viveva un'esistenza modesta, andava a mangiare alla mensa universitaria, fin quando non glielo proibirono verso i quarant'anni, anche l'ultimo appartamento in cui si stabilì era di poche pretese ed era piccolo. Cioran aveva tuttavia molti contatti negli ambienti culturali, e non disdegnava i salotti quando veniva invitato. Era un personaggio piuttosto conosciuto tra gli intellettuali, anche se lui ha detto che frequentava poche persone. Del resto, quando i suoi libri venivano pubblicati, comparivano nelle vetrine delle librerie come i libri di una star della filosofia, con tanto di una sua foto ingrandita che compariva per fini pubblicitari. Come ha scritto Laignel-Lavastine (Laignel-Lavastine, 2002, tr. it. 2008), la prudenza di Cioran a vivere una vita, per così dire, 'frugale' era motivata dal timore di non far scoprire il suo passato di cui in parte si vergognava, e non voleva probabilmente perdere la faccia di fronte all'opinione pubblica francese democratica. Così, preferiva rifiutare dei premi letterari che essere tacciato di falsità e ipocrisia per il suo passato da fascista, oltre a far crollare la 'dignità' del suo pensiero cimiteriale.
Cioran non può che svelare la sua personale soggettività nel dolore delle metafore a cui ricorre nella scrittura. Il parto della sua prospettiva sul mondo è costellato dall'unicità del suo sentiero. Allo stesso tempo, se il suo modo filosofico di guardare il mondo può apparire indigesto alla lettura di un lettore superficiale, è proprio su questa difficoltà psicologica che si 'misura', per così dire, il suo pensiero, così raro nella sua rivendicazione trascendentale del negativo assolutizzato. Cioran, come ho già accennato, sceglie parole particolari come "squartamento", "decomposizione". Le persone di 'buon senso', che hanno un 'senso comune', difficilmente si esprimono in questo modo. Inoltre, il linguaggio che Cioran sceglie per filosofare della vita, per dare parole al suo sguardo visionario nei confronti del negativo, non può che appartenere a un senso non comune. Potremmo chiederci come Cioran abbia vissuto la sua esistenza, potremmo essere incuriositi da come si diventi filosofo nichilista alla Cioran. Uno studio psicologico su di lui, scritto da alcuni psichiatri italiani, afferma che il filosofo rumeno-francese soffrisse di una "depressione creativa" (Vizioli, Orazi, 2002).
Quella di Cioran, in fondo, è un'immaginazione del nulla metafisico. Possiamo ipotizzare che il dolore provocato, per esempio, dalle cefalee abbia orientato una mente così raffinata come quella di questo filosofo verso un pensiero negativo. Anche uno psicoterapeuta come Luigi Cancrini è del parere che bisogna dare un'espressione al dolore, in quanto l'espressione, più o meno artistica, è terapeutica (Cancrini, 1996). Cancrini si riferiva soprattutto al dolore depressivo, e Cioran, a quanto affermano Vizioli e Orazi, soffriva di un dolore depressivo. Così, è lo stesso Cioran ad affermare che l'oggettivazione in scrittura filosofica del suo male era diventata la sua forma di auto-psicoterapia.
Senza nulla togliere all'importanza filosofica del pensiero di Cioran, possiamo ribaltare l'atteggiamento repulsivo verso il suo nichilismo, considerandolo espressione metaforica di una vis imaginativa alla ricerca di sollievo mentale, che espelle dalla mente il 'cattivo' attraverso una sublimazione del male, trascendendolo e trasformandolo in pensiero.
Se la filosofia di Cioran, apparentemente così cruda e ostica, così poco attraente se non per i cultori del genere horror del pensiero viene invece considerata come un'alta espressione filosofica di scrittura auto-terapeutica, allora non possiamo leggerla come una forma di nichilismo fine a se stesso, ma semmai il solo modo che il filosofo rumeno-francese ha trovato, nell'ambito delle sue risorse mentali educate alla cultura, per curarsi filosoficamente attraverso lo sforzo creativo del suo stesso pensiero.


"Quando il dolore è parte integrante del proprio essere, il suo superamento corrisponde inesorabilmente a una perdita, e non può non provocare rimpianto. Ciò che ho di meglio in me lo devo alla sofferenza: ma le devo anche ciò che ho perduto."

"La timidezza, fonte inesauribile di disgrazie nella vita pratica, è la causa diretta, anzi unica, di ogni ricchezza interiore."

"La morte è ciò che fino a ora la vita ha inventato di più solido."


Emil M. Cioran

La sensibilità ferita da traumi psichici, o da nodi neurologici, può aver influito e motivato, in una mente filosofica, a dare espressione al proprio male esistenziale attraverso la scrittura nel genere della trascendenza metafisica del pensiero. Il pensiero è diventato, a sua volta, una sorta di "farmacia di Platone" e il riconoscimento sociale dell'opera di Cioran, innanzitutto con la pubblicazione delle sue opere, da lui stesso riconosciuto come un passaggio importante dopo la scrittura, - se non a livello allargato di massa, almeno nell'ambito della cerchia dei suoi estimatori, e credo che non siano poi così pochi - abbia dato a lui un surplus di conforto, che si aggiungeva all'auto-psicoterapia del fare-scrittura, diventata balsamo per i mali personali. Cioran aveva sofferto anche di un'ideazione suicidaria, soprattutto in giovinezza quando ebbe a soffrire del mal di testa. Più tardi, vivendo a Parigi, quando camminava per il giardino del Luxemburg incontrava persone che gli confidevano di volerla fare finita con la vita. Di fronte a questa situazione, per chiunque difficile nella risposta da dare, Cioran sapeva cosa dire. Egli non sconfermava il proposito suicidario del suo interlocutore, ma gli diceva di aspettare ancora qualche giorno, e poi se voleva poteva suicidarsi. Con questa strategia di posticipazione dell'insano gesto, l'aspirante suicida alla fine non si suicidava più, e probabilmente confermava la stessa strategia utilizzata da Cioran quando aveva attraversato crisi simili e si era trovato a vivere il "culmine della disperazione" giovanile.
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