mercoledì 10 settembre 2008

Le maschere dell'invidia, la distruttività degli invidiosi





In questo affresco, l'invidia ha l'immagine di di una donna bruttissima e anziana, le orecchie sono molto grandi, ha delle corna, dalla bocca le esce una serpe. Nella mano sinistra stringe un borsellino, i piedi sono arsi dal fuoco dell'invidia che abita la sua anima cattiva.












Giotto, L'invidia, 1302-1305, Affresco, Cappella degli Scrovegni, Padova



INDICE DEI PARAGRAFI

  • Alcuni episodi d'invidia nella Bibbia
  • Gli invidiosi nel Purgatorio di Dante Alighieri
  • L'animo cattivo degli invidiosi
  • La telefonata muta
  • Gli invidiosi agiscono per fare del male alla persona invidiata, ma in realtà rivelano la loro meschinità e mediocrità: riflessione su individuo e gruppo invidiosi
  • L'invidia che distrugge una vita (primo caso): Lord Alfred Douglas che provocò, attraverso suo padre, l'arresto di Oscar Wilde e la pena di due anni di reclusione dello scrittore
  • L'invidia che distrugge una vita (secondo caso): un'impiegata anziana scrive una lettera al datore di lavoro contro un collega più giovane, accusandolo ingiustamente di errori
  • L'invidia che distrugge una vita (terzo caso): la parabola esistenziale dello psicoanalista Masud Khan
  • L'invidia della creatività
  • Riferimenti bibliografici

Alcuni episodi d'invidia nella Bibbia
L'invidia è nata con l'uomo stesso nei tempi dei tempi, tant'è vero che la Bibbia contiene diverse narrazioni in cui essa si rivela. Se il serpente è simbolo del male, come nell'episodio in cui seduce Eva a mangiare il frutto dell'albero proibito e, a sua volta, fa mangire lo stesso frutto al marito Adamo, questo accade anche per invidia nei confronti di Dio. Lui proibisce di mangiare dall'albero della conoscenza del bene e del male, per non diventare come lui. Dio possiede, dunque, un bene riservato solo a se stesso e di cui è geloso. E' proprio la proibizione che suscita il desiderio e la trasgressione, e così, attraverso la finzione simbolica del serpente, Eva trasgredisce e fa trasgredire il suo compagno Adamo, con le conseguenze punitive legate a quel comportamento da parte di Dio (Genesi 3, 1-24). D'altra parte, ancora un episodio d'invidia lo triviamo a causa del comportamento discriminatorio e insensibile di Dio nei confronti di Caino quando questi offre dei frutti, della terra che lavorava, e Dio li rifiuta, mentre accetta l'offerta di Abele, diventato pastore, di "primogeniti del suo gregge". E' questo atto di ingiustizia da parte di Dio che provoca in Caino odio verso il fratello, al punto che lo uccide (Genesi 4, 1-8).
D'altra parte, Gesù fu voluto crocifisso dalla casta dei sacerdoti del tempio per invidia. Questo era chiaro a Pilato. La moglie di Pilato non voleva che Gesù fosse crocifisso, lo considerava un innocente, un giusto, ma Pilato dovette fare i conti con la folla davanti a lui. Il governatore romano chiese alla folla, aizzata dai sacerdoti, chi dovesse crocifiggere, Barabba il ladrone o Gesù il re dei Giudei. La folla gridava Gesù. Pilato, tuttavia, tenendo conto di quanto gli aveva detto la moglie, riprese a dire di Gesù "che male ha fatto?", ma la folla non rispondeva e gridavano soltanto "Sia crocifisso". E Pilato allora disse che lui era "innocente del sangue di questo giusto, pensateci voi." (Matteo 27, 11-24)
Gli invidiosi nel Purgatorio di Dante Alighieri
Nel Purgatorio (canti XIII e XIV), nella seconda cantica della Divina Commedia, Dante Alighieri pone a scontare una pena coloro che nella vita hanno avuto una particolare inclinazione nel coltivare i sette peccati capitali. Tra questi, l'invidia è uno dei peggiori. La punizione riservata agli invidiosi che risiedono nel Purgatorio consiste nell'obbligo di indossare il cilicio e nella cucitura degli occhi con il fil di ferro. Gli invidiosi si appoggiano con le spalle sulla parte del monte e si sostengono tra loro. Intanto ascoltano coloro che nella vita sono stati umili, mentre dei santi recitano le loro litanie. Dante si sofferma nel secondo girone degli invidiosi in compagnia di Virgilio nel pomeriggio di un giorno di marzo o aprile del 1300. Virgilio commenta la punizione degli invidiosi osservando che l'invidia allontana da Dio e conduce verso beni insignificanti.
La nobildonna senese Sapia confessa di essere stata invidiosa nella sua esistenza. Degli altri non ha fatto che volere il loro male, gioiendone. Avrebbe potuto dedicarsi al bene di se stessa, ma questo non lo fece. L'invidia fu talmente intensa che pregò Dio affinché la sua patria venisse distrutta.
In ogni caso, l'invidia è vista da Dante come un sentimento che porta alla degenerazione morale di un'epoca, essa provoca la corruzione degli individui e di una società. Anche il sociologo Francesco Alberoni è dello stesso avviso nel suo studio sugli invidiosi, così scrive: "Il dilagare dell'invidia è perciò un sintomo della disgregazione sociale, una manifestazione della perdita di radici, della solitudine dell'individuo." (Alberoni, 1991, p. 48).
Dante visse a cavallo tra due secoli. Nacque nel 1265 e morì il 1321. Ebbe una vita travagliata, viaggiò per la penisola italiana, fu esiliato, conobbe diverse persone che poi diventarono i personaggi della sua Divina Commedia. Dante mise a punto una sorta di catalogo dei peccati e dei peccatori, una specie di manuale psichiatrico-religioso dei suoi tempi rappresentato dalle tre cantiche della Divina Commedia (Inferno, Purgatorio, Paradiso). In base a come i vivi che aveva conosciuto erano vissuti, il grande poeta moralista li sistemava da morti in una delle tre destinazioni fondamentali delle anime. Per redimersi dal peccato che li aveva caratterizzati, dovevano scontare una pena nell'al di là. Così per l'invidioso. Dopo l'espiazione, le anime potevano accedere dal Purgatorio al Paradiso.
L'animo cattivo degli invidiosi
Nella fiaba di Cenerentola, secondo la versione di Charles Perrault contenuta ne I Racconti di Mamma Oca, l'invidia è il sentimento fondamentale che muove la dinamica della narrazione. Cenerentola si trova a convivere con la cattiva matrigna, di cui il padre si è sposato in seconde nozze, e le sorrelastre avute da questo secondo matrimonio di lui. Cenerentola è bellissima, a differenze delle sorellastre. Queste ultime invidiano la sua bellezza e la sua bontà d'animo. Lei, purtroppo, è la loro vittima predestinata. Il nome "Cenerentola", affibbiato alla giovane donna dal bel piedino, deriva da 'cenere', ossia dal fatto che lei si dedica alla pulizia del camino pieno di cenere.
Cenerentola è la sorella che fa i lavori di casa, mentre le sorelle brutte e di animo cattivo si dedicano invece alla bella vita, con il consenso della madre. Al ballo del giovane e bel principe ci vanno le sorelle brutte, mentre Cenerentola è costretta a rimanere a casa. Come sappiamo, per magia della fata madrina, il destino della bella ragazza poi si capovolge con il prosieguo della fiaba, riscattando il suo misero destino e rivelando la grettezza d'animo sia delle sorellastre che della madrigna. La fiaba così ribalta l'ingiustizia subita da Cenerentola, e alla fine è lei a sposare il giovane e bel principe. Delle invidiose sorelle e la madre invece scopriremo quanto erano state meschine e cattive.
Riccardo III di Shakespeare (Shakespeare, 1597, tr. it. seconda ed., 1997) è un uomo deforme e perfido, anche invidioso. Egli brama il potere, e per il potere diventa assassino. Tra i politici l'invidia nei confronti del potere dell'altro è molto forte. Tutti bramano complotti per impossessarsi del potere, per averlo per sé, anche diventando astuti mandanti di crimini nei confronti dei rivali. La storia è piena di esempi in questo senso. L'invidia, in ogni caso, viene mascherata perché è uno dei più abietti sentimenti negativi e un meccanismo di difesa meschino e vigliacco, che palesarlo farebbe perdere la faccia all'invidioso.
L'invidia ha così tante maschere, ma si rivela nelle azioni distruttive degli invidiosi a danno della persona invidiata. Una di queste maschere dell'invidia viene citata da Francesco Alberoni (Alberoni, 1991) quando parla del falso amico invidioso che cerca di diventare un 'vero amico' della persona invidiata, un confidente, ottenendo la sua fiducia e il suo sostegno nei momenti difficili della vita. Questo falso amico astuto incoraggia la persona invidiata, peraltro ingenua e sincera, anche se fino a un certo punto ingenua. La persona invidiata parla di se stessa a questo falso amico, credendolo 'veramente' un amico. L'astuto simulatore invece trama alle spalle della persona invidiata. Davanti a quest'ultima, il falso amico promette di aiutarla fin dove è in suo potere, ma è solo la recitazione di una parte. Infatti, il falso amico è solo un invidioso, o una invidiosa, che furbescamente chiede alla persona invidiata "hai fiducia in me?", per sentirsi dire "certo, ho fiducia in te", in modo da tenerla in pugno, in suo potere e manipolarla come vuole. Così la persona invidiata confida i suoi dolori, le sue amarezze, le ingiustizie patite, per trovare un aiuto in quell'individuo che si spaccia per 'amico', come un collega di lavoro che sembra affidabile, o un parente premuroso. Alle spalle della persona invidiata, invece, questo 'falso amico' opera per completare la demolizione della sua personalità, per portare a compimento un processo che ha come obiettivo il suo fallimento completo.
Il capitalismo, il sistema economico che domina nel pianeta intero, genera divisioni, spaccature, guerre di potere, individualismo radicale, concorrenza sfrenata. Su questo terreno, è facile che l'invidia sia un sentimento centrale della dinamica relazionale. Si invidia o si ammira. Nell'invidia si nutre ostilità verso l'altro, si vorrebbe distruggere ciò che ha di buono, gioire delle sue sconfitte. La persona invidiata è sgradita all'invidioso.
Nell'amicizia ci si indentifica reciprocamente, nel caso dell'invidia l'identificazione è rigettata: l'invidioso non riesce a identificarsi favorevolmente con l'invidiato, in ciò che ha di buono, per cui tenta di demolire quel buono che ha dimostrato di avere in sé. Nel caso dell'ammirazione, al contrario, si prova amore e identificazione verso l'altro, che diventa un modello da emulare. Se questa identificazione si attiva, allora si vengono a creare dei buoni rapporti interpersonali, per cui i meriti dell'altro vengono accettati e lo si può ammirare benevolmente. Quando invece questa identificazione non si attiva, per un motivo o un altro, non si creano dei buoni rapporti interpersonali e l'altro, anche se ha dei meriti o qualcosa di buono, diventa oggetto di invidia per colui che si mette a invidiarlo, perché l'invidiato solo perché esiste provoca nell'invidioso uno stato di inferiorità che non può riequilibrare, che non è in suo potere farlo, almeno al suo stato attuale. Per pareggiare la situazione con l'invidiato, allora non gli rimane che volergli male ed eventualmente farglielo veramente.
Oltre l'identificazione c'è, per capire il fenomeno dell'invidia, anche il meccanismo dell'"indicazione", come lo chiama Alberoni. Nell'indicazione ci viene, appunto, indicato ciò che ha valore. In questo senso, riveste 'valore', importanza, ciò che diventa oggetto del nostro desiderare. Nella sua negativa, del resto, il 'valore' ci indica ciò che invece è privo di significato e che non va desiderato. Nell'"identificazione", d'altra parte, si vuole essere come l'altro, possedere ciò che egli possiede, desiderare ciò che egli desidera. Identificazione e indicazione agiscono insieme. Così, se in una persona vedo delle cose che vedo in me, allora riscontro delle somiglianze, e tendo a voler essere come lei e a desiderare come lei. Al contrario, nel caso dell'invidia, non scatta l'identificazione con l'altro. Inoltre l'invidioso guarda al valore che c'è nell'altro attraverso l'oggetto che lui possiede. Potrebbe trattarsi di un'auto costosa o della sua casa. L'invidioso per essere come lui vorrebbe avere quella casa o quell'auto che così comincia a desiderare. Tuttavia, non potendola avere, ecco che gli rimane una sensazione di vuoto che lo rmpicciolisce e che è l'invidia. Allora, è vero che l'invidioso guarda all'auto dell'invidiato, ma in realtà quell'auto è solo il mezzo per arrivare al suo valore da cui però si sente diminuito rispetto all'invidiato. Ciò che viene scosso nell'invidioso, in questo senso, è la sua "stabilità del sé". Se prima di sentire invidia per l'altro l'individuo viveva in una situazione di equilibrio e immobilità nel proprio ambiente, la rivelazione che l'altro, che sembrava simile a sé, poi invece si mostra superiore, è una consapevolezza insopportabile che provoca sofferenza e che, in mancanza di identificazione e amore verso l'altro, può far scattare l'invidia. In questo senso, si può confrontare quanto ha scritto Alberoni (ibidem, pp. 36-40, 49-55).
La telefonata muta
L'invidioso può tentare di fare del male alla persona invidiata in tanti modi, anche se non è detto che i suoi tentativi riescono a buon fine e si ritorcono contro l'invidioso stesso. Uno di questi modi può essere la telefonata muta. L'invidioso si procura il numero telefonico di casa o il numero di cellulare della persona invidiata, poi la sera gli telefona. L'invidiato risponde alla chiamata e dice "pronto" e il chiamante, senza dire una parola, riattacca. Il chiamante muto può rimanere all'apparecchio senza riattaccare e godersi lo stato di ansia che ha attivato nel rispondente della telefonata. Più tempo passa senza rispondere - e sentendo che l'altro non fa che dire "pronto", "pronto, con chi parlo" -, e più ciò fa gioire il chiamante silenzioso. Lo scopo di questa telefonata silenziosa è così quello di provocare nel ricevente uno stato di micro-angoscia per effetto dell'assenza della voce del chiamante, come se questi trovasse divertente far soffrire il primo. Tuttavia, non è detto che chi riceve telefonate mute soffra per questo! Può semplicemente trovarlo un comportamento sgradevole di un burlone o di un tizio che fa perdere alcuni secondi di tempo.
Chi provoca telefonate mute protratte nel tempo può però essere un buon soggetto per gli psichiatri e possibilmente sottoporsi a un trattamento per risolvere il suo problema perverso. Tra l'altro le telefonate silenziose che durano nel tempo rientrano tra i comportamenti ostili che costituiscono un reato. Chi riceve telefonate silenziose può chiedere l'intervento della magistratura per porre sotto controllo della polizia il proprio telefono al fine di individuare il soggetto che agisce un simile comportamento delinquenziale.
In questo senso, la telefonata muta è un comportamento persecutorio del chiamante basato sull'ostilità mascherata, l'odio verso l'altro, che è di tipo perverso. L'"invidioso maligno" (Alberoni) può essere talmente accecato dal suo desiderio, di distruggere la persona invidiata, che può realizzare un agito del genere. Il perverso trae piacere nell'infliggere sofferenza al suo "oggetto d'amore" (sadismo). L'invidioso gioisce quando l'altro, invidiato, soffre a causa di una sua azione, o in genere per una disgrazia subita. In questo senso, il perverso e l'invidioso hanno un tratto psicologico comune nel gioire nel procurare dolore all'altro significativo. L'invidioso maligno, del resto, se agisce la sua invidia fino in fondo non può che comportarsi come un perverso morale. Come osserva Gilles Deleuze (Deleuze, 1967, tr. it. 1996, p. 133), c'è nella perversione una desessualizzazione dell'eros, che in questo modo viene mortificato allo scopo di risessualizzare la pulsione mortifera, e che si avverte anche nel mostrarsi straordinariamente freddo del perverso. Scrive Deleuze: "E' in questo senso che la freddezza, il ghiaccio sono l'elemento essenziale della struttura perversa." (ibidem, p. 130).
Anche nel caso dell'invidia, non è quando invidiamo sporadicamente qualcuno o qualcosa, magari scherzandoci sopra, che ciò fa di noi dei veri e propri "invidiosi". Gli invidiosi veri e propri sono coloro che hanno fatto dell'invidiare una inclinazione costante della loro personalità, caratterizzata dall'odio verso l'altro e dall'incapacità di amare.
Gli invidiosi agiscono per fare del male alla persona invidiata, ma in realtà rivelano la loro meschinità e mediocrità: riflessione su individuo e gruppo invidiosi
Siamo circondati da invidia. Basta sfogliare le riviste scandalistiche per accorgersi di quanta invidia ci sia nei giornalisti che scrivono delle infamie sulle persone che hanno ottenuto di più dalla vita. Possiamo dire con franchezza, che a volte siamo noi stessi ad essere invidiosi degli altri o che vorremmo essere o vivere come i più fortunati del pianeta. Tuttavia, un conto è quella che potremmo chiamare un'invidia episodica e benevola, che non fa male a nessuno e che si risolve con una gran risata aperta tra le persone che chiaccherano e dove la 'battuta d'invidia' è rivolta all'interlocutore, quando si dice, per esempio, "ah come t'invidio!", un altro conto è l'invidia malevola, di solito mascherata, finalizzata al male della persona invidiata che si conosce personalmente, come è nella psicologia distruttiva dell'invidioso o dell'invidiosa.
Nel suo bel saggio fenomenologico sugli invidiosi, il sociologo Francesco Alberoni è quasi tentato di tratteggiare le caratteristiche psicologiche della "personalità invidiosa", ma non si addentra in questa impresa. E' però degno di nota il fatto che lui abbia accennato a questa possibilità, in quanto può far riflettere su quanto l'invidia possa caratterizzare la filosofia di vita di un soggetto.
D'altronde, l'invidia, costituita da aggressività distruttiva verso la persona invidiata, può far scadere la dinamica di gruppo - in una riunione o una assemblea - in un "assunto di base" (Bion), cioè in un comportamento del gruppo, o di alcuni suoi membri, che è distruttivo rispetto all'esistenza del gruppo stesso, e della sua capacità di pensare finalizzata agli obiettivi cognitivi che il gruppo intende raggiungere. Così quando un gruppo diventa invidioso, diventa incapace di pensare, e organizza il suo funzionamento attorno ad affermazioni d'invidia rivolte a un individuo eletto a suo capro espiatorio, ossia alla persona invidiata.
Sia nel singolo invidioso che nel gruppo invidioso si attivano meccanismi di difesa quali la scissione, la proiezione, la demonizzazione mascherata dell'altro, quando viene agito l'attacco invidioso distruttivo che ha come finalità di svalutare le opere della persona invidiata. Invece di generare pensieri e favorire la discussione di quelle opere, il gruppo accecato dall'invidia non riesce a tollerare la frustrazione della propria mediocrità, non è in grado di prendere consapevolezza dei propri limiti e rispettarli. Al gruppo invidioso è insopportabile la possibilità che un loro componente sia diverso dalla maggioranza del gruppo, che possa rivelarsi migliore di loro, allore viene aggredito per distruggere il buono che è in lui e riportarlo al livello basso del gruppo: "In realtà non vale niente, le cose che ha pubblicato non hanno nessuna rilevanza scientifica!". Solo che la differenza sta nel fatto che i componenti del gruppo, almeno di questo particolare gruppo invidioso, non hanno mai scritto niente, mentre la persona invidiata, al di là del valore di quanto ha pubblicato, almeno ha mostrato sforzo, autodisciplina, passione, concentrazione, impegno, capacità di ricerca, nelle cose che ha scritto.
Nel gruppo invidioso, i suoi membri hanno appreso dal loro capo la filosofia dell'invidia e della maldicenza. Si tratta del gruppo più vigliacco, meschino, mediocre e distruttivo che ci possa essere e che tollera solo il conformismo di gruppo, che vede nell'autonomia creativa delle singole menti un pericolo per la sua coesione interna, tra l'altro cementata da rispecchiamenti reciproci d'identità che convergono verso le qualità più basse e negative degli individui. Un tipo di gruppo del genere è una minaccia per le energie sane di ogni persona considerata per se stessa.
Un gruppo invidioso o guarisce dall'invidia o continua ad esistere utilizzando l'energia aggressiva nel modo più abietto possibile, con danno non solo alla persona invidiata, che viene attaccata nei modi più subdoli, in maniera mascherata e anche davanti a lei, ma diventa un danno anche per il gruppo stesso e i suoi componenti, che così perpetua la sua perversione invidiosa.
L'invidia che distrugge una vita (primo caso): il caso di Lord Alfred Douglas che provocò, attraverso suo padre, l'arresto di Oscar Wilde e la pena di due anni di reclusione dello scrittore
Un caso noto d'invidia distruttiva nell'ambito della letteratura è quello dell'amante di Oscar Wilde, Lord Alfred Douglas detto Bosie. Se Wilde andò a finire in carcere, fu a causa di Bosie e del padre di questi, Lord Queensberry. Il bellissimo De Profundis (Wilde, 1897, tr. it. 1988) è la lettera che Wilde scrive dal carcere di Reading a Bosie. Questa lettera non fu letta da Bosie quando avrebbe voluto Wilde, ma molto tempo dopo, anche perché non poteva essere inviata dal carcere. Da quella lettera si viene a sapere quanto Bosie era stata una presenza negativa nella vita di Oscar. De Profundis è uno sfogo profondo della rabbia che Wilde aveva accumulato nei confronti del suo distruttivo amante. Lord Douglas aveva vissuto alle spalle di Wilde, come un parassita, aveva sfruttato lo scrittore economicamente, grazie a Oscar aveva condotto una vita dissipata con spese eccessive sul suo conto. Quando Oscar una volta si ammalò, per causa di Bosie, che da Oscar invece fu subito soccorso, questi non ricevette che un freddo e cinico disprezzo da parte del giovane amante. Per Bosie Oscar poteva anche morire, che a lui non gliene sarebbe importato niente. Bosie era presente nella vita di Oscar solo per condurre, grazie alla generosità dello scrittore, una vita edonistica e dissipatrice. Una sorta di perversione morale, come erotizzazione dell'odio (Stoller, 1975, tr. it. 1978), in fondo caratterizzzava il comportamento cinicamente sconcertante di Lord Douglas nei confronti di Wilde.
In fondo, Lord Douglas invidiava il talento di Wilde, la brillante creatività letteraria e il suo successo. Scrive Wilde in De Profundis:
Tu mi fosti nemico: un nemico accanito come mai uomo ne ebbe. T'avevo dato la mia intera esistenza: e tu la buttasti via, per appagare le più infime, le più spregevoli tra tutte le passioni umane, l'Odio, la Vanità e la Cupidigia. In meno di tre anni m'avevi completamente rovinato sotto ogni punto di vista. Per il mio bene non potevo che amarti.
(Wilde, 1897, tr. it. 1988, pp. 50-51).
Bosie era un narcisista patologico che voleva portare Wilde alla rovina, che invidiava le cose belle che erano in lui. D'altra parte, Wilde era accecato dall'amore per Lord Douglas, da perdonarlo ogni volta che questi si comportava nella maniera più meschina ed egoista. Wilde fu condannato per omosesualità e poi per bancarotta, e, di conseguenza, gli furono confiscati tutti i suoi beni, mandandolo alla rovina economica. In carcere, Wilde trasformò il dolore in letteratura, narrando le sofferenze patite a causa del suo amante. "Là dove cresce il dolore è terra benedetta" - scrisse Wilde (ibidem, p. 63).
L'invidia che distrugge una vita (secondo caso): un'impiegata anziana scrive una lettera al datore di lavoro contro un collega più giovane, accusandolo ingiustamente di errori
L'invidia impedisce il rapporto conviviale.
Wilfred R. Bion
C'è da stupirsi che la dottoressa Bulla, con decenni di lavoro alle spalle, prossima alla pensione, per invidia scrive una lettera al datore di lavoro, denunciando un presunto errore nell'intervento del collega Gilberto nell'ambito di un gruppo. Sarebbe stato corretto, dal punto di vista deontologico e umano, che di questo presunto 'errore' la collega Bulla ne avesse parlato direttamente con il collega Gilberto, invece di mandare una meschina lettera al datore denunciando una falsità su di lui, nei confronti del quale invidiava la sua preparazione, che lei probabilmente non aveva, e anche il fatto che Gilberto aveva pubblicato un libro. Un giorno, con sincerità e cordialità, il collega giovane fece vedere alla collega anziana la recensione del suo libro in una rivista in cui veniva menzionato, e lui colse in lei dell'imbarazzo e senso di auto-rimpicciolimento che non era nelle intenzioni del collega più giovane provocare. Lui, semplicemente, voleva rendere partecipe della sua gioia anche la collega più anziana. Quest'ultima invece era invidiosa sia di un titolo di studio che di quella pubblicazione del giovane collega. Da Gilberto lei si sentiva minacciata nel suo amor proprio, che in realtà doveva essere molto carente. Così, colse al balzo la prima occasione, probabilmente in accordo con superiori e altri colleghi di lavoro, dello stesso ambiente, in cui Gilberto non era amato per la sua particolarità di scrittore e per le sue caratteristiche di personalità, per fargliela pagare, mettendo a repentaglio lo stesso posto di lavoro di lui, rischiando il licenziamento. D'altra parte, il datore di lavoro invece di indagare sull'impiegata che aveva mandato quella lettera, sulla legittimità di quella denuncia di un collega, non mosse un dito per tutelare i diritti di lavoratore di Gilberto, e diede luogo a un procedimento per licenziare 'per giusta causa', ingiustamente, il bravo e meritevole impiegato che stava subendo questo torto. Dalla commissione a cui fu sottoposto il caso, il lavoratore invidiato ne uscì 'non colpevole', e fu riconosciuto che non c'era nessun motivo valido per licenziarlo. Tuttavia, lui aveva vissuto qualche mese in una situazione traumatica, senza trovare solidarietà se non in una collega sindacalista e nell'avvocato che lo difesero, insieme, nel modo più conveniente. In quell'ambiente di lavoro, nessuno si era schierato dalla parte del nostro lavoratore invidiato. E' così che, per invidia, e per altri giochi di potere e di meschinerie, si può distruggere la vita di una persona. Di questa vicenda, emerse anche come un intero ambiente di lavoro possa essere malato di potere e dove l'identificazione con l'aggressore sia molto forte, anche da parte dei cosiddetti 'spettatori', apparentemente passivi, ma schierati con l'aggressore. Si trattava anche di un ambiente fortemente politicizzato, dove chi non si schierava veniva penalizzato. Chi vuole solo lavorare, in un tale ambiente, si trova in una posizione marginale, anche se ha i suoi meriti.
Il caso della dottoressa Bulla rientra tra due tipi di invidia acutamente individuati da Francesco Alberoni (Alberoni, 1991, p. 18): l'invidia maligna e l'invidia avara. Nel primo caso, la Bulla ha mostrato di avere un intenso odio nei confronti di Gilberto, e con la lettera al datore di lavoro ha cercato di rovinare il suo collega. In questo tipo di invidia, Bulla ha ricavato un grande piacere dalla possibilità di far del male a Gilberto. Forse non pensava che la sua lettera avrebbe portato il datore di lavoro a una minaccia di licenziamento, che alla fine però si è risolto in un nulla di fatto, essendo insignificante e inconsistente il motivo della denuncia ai danni di Gilberto. Dietro alla manovra vessatoria nei confronti di questi, in realtà c'era una situazione di mobbing. Inoltre, essendo la Bulla più anziana, in termini di servizio, oltre che di età, rispetto a Gilberto, ha cercato di svalutarlo e distruggergli la carriera in quanto ha temuto, stupidamente, la concorrenza con lui. L'invidia, in questo caso, era quella della vecchia che intende esercitare avaramente il suo piccolo potere nei confronti del giovane, e mostra di avere paura verso di lui, della sua preparazione e del fatto che aveva un titolo di studio di specializzazione proprio dove la Bulla aveva ricevuto un incarico istituzionale, senza però avere lo stesso titolo qualificante di Gilberto. In ogni caso, a Gilberto non era passato per la testa questo problema che invece occupava, angosciosamente, la mediocre Bulla. Quando lei venne a sapere, dallo stesso e ingenuo Gilberto, che aveva conseguito tale specialità, lei ha preso le distanze da lui e non lo ha più salutato e ha rigidamente evitato ogni forma di relazione, mostrandosi fredda come un cadavere. Incredibile, ma vero: questa era la meschineria di "invidia avara" della dottoressa Bulla.
Lui si era chiesto, soffrendoci interiormente, il motivo per cui Bulla lo trattava 'come se non esistesse' incontrandola nello stesso ambiente di lavoro. Se prima Bulla aveva chiaccherato e considerato simpaticamente l'interazione con Gilberto, da un certo momento in poi lo ignorava, tattica tipica di isolamento relazionale del mobbing in atto, a cui partecipavano, da spettatori e con apparente indifferenza, tutti gli altri impiegati che lavoravano lì, ai danni del più relativamente giovane collega.
Abbiamo già accennato, sopra, con Deleuze, come la freddezza di ghiaccio caratterizzi l'atteggiamento perverso. Interessante è notare e sottolineare, ancora una volta, la freddezza di ghiaccio e l'insensibilità del comportamento perverso della dottoressa Bulla, i suoi occhi inespressivi e irrigiditi, le sue labbra indifferenti e mutaciche cucite con il fil d'acciaio quando incontrava, nella sede di lavoro, il dottor Gilberto. Diventare inespressivi rivela, in realtà, la morte nell'anima, come nella falsa e cattiva illusione di avere potere sull'altro facendolo soffrire. Anche se Gilberto rimase temporaneamente ferito nella sua umanità rispetto a Bulla, egli riuscì a conservare la sua sensibilità e il rispetto per l'umano che è negli altri e in se stesso, e ad avere pietà verso gli individui che "non sanno quel che fanno" quando si disumanizzano accecati dall'odio.
L'invidia che distrugge una vita (terzo caso): la parabola esistenziale dello psicoanalista Masud Khan
Masud Khan (1924-1989) è stato uno psicoanalista creativo nell'ambito della Società britannica di psicoanalisi. I suoi scritti testimoniano la sua capacità artistica di andare oltre la tradizione dell'ortodossia psicoanalitica, del suo bisogno di libertà creativa che lo orientò verso gli Indipendenti della psicoanalisi di scuola inglese. Khan conosceva molto bene la letteratura psicoanalitica a partire dagli scritti di Sigmund Freud. Era una persona intelligente, erudita, e amava molto i libri. Si laureò in Inglese nel 1945, in un'università indiana, con una tesi su James Joyce.
In India. Il padre anziano aveva sposato in quarte nozze Kurshid Anwer Begum di diciassette anni, ex ballerina di origine persiana e cortigiana, che aveva avuto un figlio da un altro uomo e che in seguito al matrimonio con Khan dovette lasciare alle cure di altri. Kurshid era una ragazza timida ed emotiva, che entrava facilmente in ansia. A quei tempi, e in base ai costumi sessualmente repressivi delle appartenenze religiose, non fu visto di buon occhio il matrimonio di Fazaldad Khan, un uomo con una reputazione da difendere, con la bella giovane Kurshid, dal passato sessualmente discutibile. Fazaldad era stato militare presso l'esercito inglese, si era distinto per la sua fedeltà e capacità dimostrata nel comando, congedato con un alto grado e cospicue ricompense ottenute dalla direzione militare britannica. Fazaldad Khan era così un uomo ricco.
La madre di Masud aveva un carattere che tendeva alla depressione e si mostrava intrusiva con quelle sue urla e lamentele. Il padre era autoritario, ma affettuoso con Masud. La famiglia allargata di Fazaldad, come anche la comunità, tuttavia, si vergognavano di Kurshid, e allora lui prese la decisione di cambiare ambiente, così si trasferirono dalla cittadina in cui era nato, Montgomery, a Lyallpur. In quest'ultimo posto, Fazaldad e famiglia poterono finalmente vivere, senza l'oppressione di parenti e conoscenti, una vita serena.
Dal matrimonio tra Fazaldad e Kurshid nacquero quattro figli: Tahir, Masud, poi un bimbo nato morto, Mohammed Nasir, e l'ultimogenita Mahmooda. Masud cresceva come un bambino fragile e che si ammalava facilmente. Così accusava difficoltà respiratorie, si curava per una tubercolosi, si vergognava per l'orecchio destro che si ritrovava deformato. A causa della sua fragilità si sentì un diverso che veniva facilmente deriso dagli altri. Nel Punjab, invece, si dava grande risalto alla salute e alla forza fisica, anche perché i figli erano orgogliosi di scegliere la carriera militare.
Masud diventò così un bambino solitario, e il ritiro in se stesso lo rese mutacico. Per tre anni rimase in questo modo. Secondo un'opinione autorevole, quella dello psicoanalista Adam Limentani, il mutismo di Masud era una reazione alla depressione in cui cadde la madre in seguito al parto del neonato morto, il terzogenito Mohammed Nasir. Nel periodo adolescenziale, Masud visse in solitudine. A causa delle difficoltà dell'infanzia, anche nella nuova fase del ciclo di vita le cose si complicarono. Masud solo per poco tempo aveva frequentato la scuola pubblica, per il resto aveva avuto insegnanti privati che lo andavano a trovare a casa. E questo perché era un bambino fragile e malato. Dopo aver superato la prova di ammissione, si iscrisse al College. In adolescenza, la cosa cui Masud preferiva dedicarsi era la lettura di libri, da cui si sentiva mentalmente arricchito. Anche la scrittura diventò per lui importante, non avendo delle relazioni significative da vivere. Una volta conobbe una ragazza, ma il padre non volle che continuasse la relazione con lei. Masud ne rimase mortificato. Così viveva in solitudine, non aveva nessuna relazione sentimentale da coltivare. Fin da allora si trovava a vivere tra la reazione fobica nei confronti del mondo esterno e la reazione controfobica che lo portava a frequentare gli altri in maniera occasionale e temporanea, in quelli che più tardi chiamò happening e che erano incontri caratterizzati da grandiosità, distruttività, e male verso se stesso.
Successivamente, Kurshid lasciò il marito e i figli, si trasferì altrove, promettendo che sarebbe tornata, ma non tornò. Kurshid si rifece una nuova famiglia, ritrovando il figlio abbandonato. L'ira di Fazaldad fu estrema, al punto che se l'avesse ritrovata l'avrebbe forse uccisa. E' probabile che la madre fallì l'allattamento non solo con il primogenito Tahir, ma anche con il secondogenito Masud. A badare a questi due figli, in realtà, si successero numerose balie. Tahir e Masud ricordarono per tanto tempo i rumori che provenivano dalla stanza dei genitori quando facevano l'amore. Masud se da una parte aveva nutrito verso la madre un grande amore, dall'altra non si erano mai intesi. Dopo l'abbandono della madre, Masud aveva una percezione del padre che andava oltre quella del semplice genitore. Il padre divenne modello, maestro, la tradizione personificata. In altri termini, Masud si sentiva contenuto dal padre, simbolo della tradizione, e ne aveva fatto una figura idealizzata. Il lato autoritario del padre lo terrorizzava, ma il figlio ne percepiva anche il lato rassicurante.
Nel 1942 morì la sorella minore Mahmooda, mentre nel 1943 fu la volta del padre. In seguito alla morte dei familiari, Masud cadde in un grave stato depressivo. Il padre lasciò quasi il suo intero cospicuo patrimonio a Masud, nonostante fosse il figlio maschio più piccolo. Tahir, il figlio maggiore, rimase risentito dalle ultime volontà testamentarie del padre.
Dal 1943 al 1946, Masud andò in analisi con Israel Latif, l'unico nel Punjab che, dopo la laurea in Filosofia in India, si era formato negli Stati Uniti nelle discipline psicologiche, compresa la psicoanalisi. Da questo trattamento, Masud ottenne un modesto risultato e su sollecitazione dello stesso Latif venne orientato a rivolgersi all'Istituto di Psiconalisi di Londra. Londra per Masud rappresentava non solo la possibilità di venire fuori dalla sua depressione, ma anche l'ambizione di far parte della società dominante che da sempre aveva idealizzato. Così nell'ottobre del 1946, Masud si trasferì in modo definitivo nella capitale britannica.
Nell'opera saggistica su Masud Khan, da cui ho tratto le note biografiche di cui sopra, Francesco Gazzillo e Maura Silvestri (Gazzillo, Silvestri, 2008) mettono in evidenza, tra i tanti e vari altri aspetti della personalità complessa e controversa di Khan, la sua tendenza a invidiare. In questa sede, cercherò di focalizzare, sinteticamente, l'attenzione soprattutto su questo aspetto della personalità di Khan, rimandando, per un approfondimento dettagliato, al bel lavoro di Gazzillo e Silvestri i lettori che sono incuriositi da questa interessante e problematica figura di psicoanalista. In ogni caso, questo paragrafo si basa soprattutto sulle informazioni biografiche che ho tratto dal loro lavoro, e la responsabilità di qualche mio commento è da attribuire esclusivamente a me stesso, nel bene e nel male.
A Londra. In tutto Masud Khan intraprese quattro analisi, considerando anche la prima con Latif che portò avanti in India. Le altre tre, quelle londinesi, furono, rispettivamente, con Ella Freeman Sharpe, John Rickman, Donald W. Winnicott. Le prime due terminarono con la morte dei rispettivi analisti, la terza, quella con Winnicott, probabilmente durò quattro anni, anche se le voci improbabili parlano di molti più anni. Questa difficoltà a dire quanto durò l'analisi con Winnicott è dovuta al fatto che tra Khan e il suo quarto analista s'intrecciarono, nel corso del tempo, vari livelli di relazione extra-analitiche. I biografi e le testimonianze raccolte concordano sul fatto che le analisi di Masud Khan, e soprattutto quella più lunga con Winnicott, furono fallimentari.
Masud Khan divenne un personaggio importante della Società britannica di psicoanalisi. Tuttavia, essendo pakistano venne trattato con razzismo già all'interno della suddetta istituzione psicoanalitica. La sua ambizione era quella di far parte, a pieno titolo, della società londinese che ai suoi tempi contava. Invidiava coloro che ne facevano parte, e aveva delle esplosioni di rabbia per essere trattato come 'inferiore' e un outsider. Riuscì, ciononostante, a diventare membro della Società di Psicoanalisi a pieno titolo in maniera graduale. Nell'arco di dieci anni percorse i vari gradini della carriera di psicoanalista: inizialmente divenne membro associato, poi membro ordinario e infine didatta. Inizialmente frequentò la biblioteca della Società di Psicoanalisi e poi ne divenne bibliotecario e curò gli aspetti editoriali della rivista della Società.
Le tre analisi, che come paziente Masud Khan intraprese presso l'Istituto di Psicoanalisi di Londra, si rivelarono, come ho sopra accennato, inconcludenti. Le prime due rimasero incompiute per la morte dei rispettivi analisti. La terza analisi, quella con con Donald W. Winnicott, venne manipolata da Khan in maniera narcisistica, ponendola al servizio dei suoi bisogni psicologici. Del resto, l'analisi con il teorico degli oggetti e dello spazio transizionali si rivelò l'esperienza soprattutto più umana che Khan ebbe a sperimentare. Fu lo stesso Winnicott a consigliare Khan a farsi operare all'orecchio deformato, riportandolo a un aspetto armonico.
Khan era grato a Winnicott per il fatto di conoscerlo bene e di non averlo forzato nel suo modo di essere, di aver rispettato in lui il suo "bisogno di non comunicare" (Khan) con le parole. Khan, d'altra parte, riteneva il linguaggio delle parole come estranianti. Con Winnicott egli poté sperimentare una sorta di holding in tre sedute diverse, quando si avvicinava al corpo di Winnicott e poneva la sua testa "sotto la sua giacca". In quel momento, Khan poteva sentire il cuore di Winnicott, i suoi battiti, come pure il suono del suo orologio. In quei momenti, Khan si sentiva rassicurato e sentiva di vivere in maniera autentica il suo Sé. Winnicott, del resto, lasciò vivere quei momenti nella loro tranquilla esistenzialità, evitando di interpretarli. Khan nel silenzio, in presenza di un'altra persona, aveva così trovato se stesso.
Fin da quando era bambino, Masud aveva sperimentato le parole come senza valore e che lo estraniavano da se stesso, come erano state le urla e le lamentele della madre Kurshid. Khan, nondimeno, parlava tanto e con le parole era riuscito ad ottenere più volte 'illuminazioni' di alto livello. Tuttavia, le parole le sentiva "altro da me".
In analisi, d'altra parte, Masud Khan spesso non portò se stesso, ma la facciata di se stesso. Non rivelò l'autenticità della sua vera vita emozionale per timore di dover dipendere dall'altro, invece portò solo le sue difese di grandiosità, esibizionismo ('guarda come sono intelligente e colto'), di riscatto sociale invidiando gli altri (la creatività degli analisti dell'Istituto, l'appartenenza alla buona società londinese in generale, l'affetto delle persone a cui teneva e che voleva anche per sé e che invece era appannaggio di qualcun'altro o altra). Con Clara, la seconda moglie di Winnicott, c'era una gelosia reciproca tra lei e Khan nei confronti di Donald. Khan non perdonava Clara di aver sposato Winnicott, mentre lei non vedeva di buon occhio il fatto che il marito passasse così tanto tempo con questo giovanotto. Di conseguenza, quando c'era da fare la pausa per il pranzo, Clara avvertiva Donald, ma Masud Khan non fu mai invitato a condividerlo con loro, per cui lei cercava di tenerlo a distanza. Khan voleva essere altamente considerato, se ciò non accadeva lui viveva una crisi depressiva o un'esplosione di rabbia.
Quando Khan venne a far parte della Società britannica di psicoanalisi, era consapevole dei limiti iniziali della sua creatività e dell'esperienza professionale. Ciònonostante, Khan nutriva delle "fantasie invidiose di riscatto" per aver assunto 'solo' il ruolo di collaboratore di Winnicott. Certo, si trattava di un ruolo che dava prestigio al giovane Khan, da un lato, ma che viveva come un ruolo subalterno, dall'altro lato. No, Masud era ambizioso e voleva di più. Infatti, in questo senso Khan fu tenace e riuscì a realizzare le sue ambizioni.
Anche se i trattamenti analitici a cui si sottopose Khan furono falsati dai suoi bisogni narcisistici, dalle sue ambizioni di potere, di porre l'analisi al proprio servizio, tuttavia egli scoprì che il suo disagio non si poteva inquadrare nell'ambito della psicologia nevrotica, ma apparteneva a un quadro clinico della personalità schizoide. In questo senso, per lui fu più illuminante lo studio di Fairbairn sui fattori schizoidi della personalità piuttosto che Freud, anche se i concetti di quest'ultimo gli furono utili per inquadrare, eziologicamente, nella diade madre-bambino la psicologia dei traumi subiti nello "scudo protettivo" (Freud) materno e che con le sue falle sarebbe stato introiettato e avrebbe impedito al bambino stesso di sviluppare, appunto, uno scudo protettivo attendibile, sano, in grado di proteggerlo. Khan non si riferiva tanto a singoli traumi a cui andava incontro il bambino e che vedeva anche funzionali alla sua crescita, ma all'accumularsi di tanti traumi nel corso del tempo e che ad uno sguardo retrospettivo venivano a formare quello che lui chiamò "trauma cumulativo", e che era alla base della futura personalità schizoide dell'adulto.
L'ascesa di Khan.Quando Khan iniziò ad esercitare l'attività di analista, in un appartamento lussuoso in una zona ricercata di Londra, con tanto di servitù, la sua clientela era formata soprattutto di pazienti con personalità schizoide che gli mandavano anche i suoi colleghi, come, per esempio, Winnicott. Del resto, il genio di Khan si rivelò nei saggi che scrisse sulle psicodinamiche di questo tipo di personalità. Questi lavori erano in parte dovuti a un introspettivo lavoro mentale sulla propria storia psicologica e in parte alle riflessioni creative sulle situazioni cliniche dei suoi pazienti.
Khan, dunque, si scoprì di avere una personalità schizoide, ma anche perversa. Scoprì pure che quest'ultima era una sottospecie della prima. L'invidia era una caratteristica sia dello schizoide che del perverso. Il bene a cui Khan aspirava, e che sempre gli si sottraeva anche a causa dei suoi atteggiamenti e comportamenti distruttivi, era quello di appartenere ai gruppi sociali che per lui erano élitari e ricercati, quelli che erano ai vertici della scena sociale sia nell'ambito della comunità analitica che fuori dalla psicoanalisi. Per esempio, era molto attirato dai grandi artisti e ne voleva essere amico.
A causa della suscettibilità alla vergogna, Masud Khan considerava molto distruttivo questo sentimento per se stesso (ciò, probabilmente, risale alla sua infanzia, al fatto di percepire, in maniera sofferta, come veniva trattata sua madre, disprezzata e rifiutata da parte dei familiari del padre, e della comunità a cui quest'ultimo apparteneva nella città natale di Montgomery), suscettibile, dunque, alla possibilità di essere trattato con lo stigma di 'inferiore'. Di conseguenza, egli reagiva offendendo, diventando oltraggioso e provocatorio se si sentiva ferito dagli altri. Questo aspetto della sua personalità, che riguaradava la gestione della sua aggressività e del suo odio, non sembra che fu affrontato nelle sue analisi, né tanto meno da Winnicott, anche se fu lui stesso a scrivere sull'importanza dell'espressione dell'odio in analisi.
D'altra parte, Winnicott anche se da una parte ammirava Khan, e probabilmente lo sentiva come il figlio che non aveva avuto e che avrebbe voluto crescere, dall'altra aveva timore di lui, del suo pupillo, e forse di quello che considerava come l''erede' della sua opera psicoanalitica. Winnicott però sembra che avesse timore del lato aggressivo di Khan, e forse fu anche per questo che non venne affrontata in analisi la dimensione aggressiva della personalità di Khan. Inoltre, è bene tenere presente, che Winnicott era diventato sempre più malaticcio tra la sua tendenza a deprimersi e e il rischio di infarto, di cui già aveva avuto modo di sperimentarne tre. L'ipotesi più probabile, tra le altre, è che Masud Khan fu paziente di Winnicott per quattro anni, dal 1951 al 1955. La fine della sua analisi coincise con il fatto che Khan mandò a Winnicott la sua prima moglie Jane Short, per il suo grave disagio depressivo, chiedendogli di prenderla in analisi. D'altra parte, Khan sviluppò una relazione su piani differenti con Winnicott, essendo stato non solo paziente, ma anche molte altre cose sul piano intellettuale: allievo, curatore delle sue opere, alter ego di una collaborazione che si sviluppava anche sul piano professionale, come nella recenzione comune di opere altrui, correttore di bozze e una persona essenziale per lo sviluppo stesso della personalità di Winnicott, se non come collega psicoanalista.
La difficoltà di Khan di integrarsi nella società londinese e di essere ben accolto e accettato nella comunità psicoanalitica britannica, accentuarono la sua invidia nei confronti di coloro che appartenevano al mondo sociale a cui lui aspirava, e che era la ristretta società dominante idealizzata fin da quando viveva in India (poi diventato Pakistan). Questa invidia aveva alti e bassi, e forse si attenuò, temporaneamente, quando iniziò a sentirsi accettato e riconosciuto. Erano gli anni Cinquanta quando Khan si affermò come psicoanalista sia nell'ambito della psicoanalisi inglese che a livello internazionale, realizzando gradualmente le sue ambizioni. Inoltre si era sposato a ventisette anni, nel 1951, con Jane Shore, ballerina molto conosciuta di un balletto teatrale, figlia di un violinista. Nel 1955 tuttavia divorziò da lei. La crisi matrimoniale fu segnata anche dai problemi depressivi di Jane, dalle liti tra i due e una vita sessuale diventata insoddisfacente se non assente. Intanto Khan conobbe un'altra ballerina con cui iniziò una relazione. Si trattava di Svetlana Beriosova, prima ballerina di un'importante balletto teatrale. Solo nel 1959 però la sposò. Adesso Khan aveva trentaquattro anni e grazie alla seconda moglie poteva accedere al mondo che lui aveva sempre sognato. Così, sue amicizie diventarono quelle del fotografo Henry Cartier-Bresson, il celebre ballerino russo Rudolf Nureiev, il regista francese Francois Truffault. E' il periodo in cui Masud Khan è all'apice della sua carriera e delle sue soddisfazioni personali.
La parabola in discesa. Solo più tardi, tra il 1965 e il 1970, la vita di Masud Khan iniziò ad andare a rotoli. E' però tra il 1966 e il 1967 che la situazione peggiorò drammaticamente, soprattutto con la Beriosova. Come era successo alla prima moglie, Jane Shore, che il lavoro di ballerina iniziò ad andare sempre meno bene, anche a causa del suo disagio depressivo, così accadde una situazione simile con Svetlana nell'ambito del suo lavoro, sempre meno richiesta da Nureiev. La Beriosova allora si diede all'alcol, peggiorando il suo stato di salute. Winnicott non era in grado di aiutarla, anche perché le sue condizioni salutari, sempre più precarie, non lo consentivano. La Beriosova non venne accettata in analisi nemmeno da Balint, in quanto Svetlana non accettava di recarsi da lui per cinque sedute settimanali. Così la Beriosova ricorse alla via della medicalizzazione e dell'ospedalizzazione. Khan allora si allontanò da Svetlana e iniziò a tradirla. La loro relazione matrimoniale andò in ogni caso sempre peggio. Khan diventò anche violento fisicamente. Inoltre, iniziarono, in questo periodo, le prime trasgressioni del setting analitico da parte di Khan.
Nella prima metà degli anni '70, Khan era ormai separato dalla seconda moglie. Decise anche di andarsene via dall'appartamento in cui era stato per tanti anni, situato in una delle zone più esclusive di Londra. Il trasloco, in fondo, rimandava al vissuto di perdita relativo al periodo in cui Masud Khan era in piena ascesa sociale e professionale. Il trasloco era l'allontanamento dai ricordi di vita vissuta ora con una, ora con l'altra moglie, mentre entrambi i matrimoni si erano conclusi con un tragico fallimento. Inoltre Khan, con questo trasloco in un appartamento più modesto, concludeva un periodo in cui era prevalsa l'illusione di abitare in quella zona della città che per lui significava il potere e il prestigio. Era un giorno di settembre del 1975 quando se ne andò da quell'appartamento. Winnicott, che per lui aveva significato molto, era morto nel 1971. Con lui non c'era più nemmeno la Beriosova. Anche Khan si dette all'alcol. Oscillava tra momenti di chiusura nei confronti del mondo esterno e aperture 'full immersion' verso il fuori di sé e la scrittura psicoanalitica.
A causa della sua particolare personalità, probabilmente borderline (come ipotizzano Gazzillo e Silvestri), Khan era molto suscettibile e si sentiva facilmente offeso, e quando ciò accadeva reagiva aggressivamente e con l'oltraggiosità e la provocazione. Del resto, scrisse un lavoro anche sull'oltraggiosità (Khan, 1985, in tr. it. 1988). Di fronte a manovre di esclusione nei suoi confronti, diventava distruttivo, e poi autodistruttivo. Attaccava gli altri. Khan voleva essere incluso nei contesti di gruppo che per lui contavano ed erano importanti, voleva essere accettato come 'uno di loro', mentre il pregiudizio con cui era stato trattato intensificava la sua invidia rispetto agli affetti relazionali da cui veniva escluso. Winnicott aveva compreso il bisogno di sostegno, di riconoscimento, di inclusione, che provava Masud Khan e cercava di fare il possibile per valorizzarlo.
Ormai il periodo d'oro di Masud Khan era alle sue spalle. Iniziò a inimicarsi i suoi colleghi analisti di Londra, diventando sempre più oltraggioso. Alla fine venne espulso dalla Società britannica di psicoanalisi. Intanto in Francia era diventato conosciuto negli ambienti della psicoanalisi, scriveva anche in una rivista di settore francese. Del tragico destino di Masud Khan concorrono vari aspetti della sua personalità. In questo senso, possiamo ricordare, per concludere, alcune delle sue componenti fondamentali: 1) le riserve sul suo modo di essere psicoanalista, quando iniziò a mettere in atto gli agiti nella stessa seduta analitica; 2) gli aspetti distruttivi e autodistruttivi del suo carattere; 3) le difficoltà a dipendere da un'altra persona, anche se sentiva di avere bisogno dell'altro e ne coltivava il rapporto a una certa distanza emozionale, compresa la relazione analitica dove fu lui stesso paziente; 4) soffrì molto per la ferita della vergogna fin da bambino, e ogni volta che si riapriva anche nella vita adulta; 5) aveva la tendenza a invidiare gli altri, come pure la creatività dei suoi colleghi; 6) gli aspetti schizoidi, perversi, narcisistici, psicopatici della sua personalità, il suo bisogno di essere ammirato, di portare l'attenzione su di sé, e se ciò non succedeva diventava insolente e provocatorio; 7) non sopportava che qualcuno gli imponesse dei limiti, o che lo criticasse; 8) disprezzava le persone che avevano dei chili in più; 9) lui voleva apparire di avere sempre qualcosa in più degli altri; 10) si mostrava come uno spaccone e un diffamatore;11) aveva una certa intolleranza alla solitudine; 12) si lavava esclusivamente con acqua di colonia (era fobico nei confronti dell'acqua); 13) in infanzia era stato mutacico, mentre in giovinezza aveva sofferto di anoressia e depressione. (Questo è il quadro psicopatologico a cui giungono Gazzillo e Silvestri). Ebbene, questi aspetti di sé erano caratteristici della sua personalità complessa e problematica.
Nonostante questo, Khan riuscì anche ad essere creativo e a porre la sua creatività al servizio della conoscenza della sua soggettività e di quella dei suoi pazienti. Fu un grande teorico della psicoanalisi e un clinico innovativo, anche se con il sospetto di essere 'inanalizzabile' e di essere molto geloso della sua vita emozionale e della sua vulnerabilità, di cui ne aveva fatto un segreto da custodire nella sua vita intima privata. Non è un caso che una raccolta di successo dei suoi scritti venne pubblicata con il titolo, nella traduzione italiana, Lo spazio privato del Sé ( Khan, 1974, tr. it. 1979).
L'invidia nella sua personalità se da una parte si mostrò distruttiva, dall'altra, possiamo supporre, che fu anche una componente motivazionale a realizzare le sue ambizioni. Purtroppo, alla fine prevalse la componente distruttiva dell'invidia. Mi viene da pensare che Masud Khan, in seguito ai traumi vissuti nell'infanzia e nell'adolescenza, era diventato una persona fragile e vulnerabile, predisposta all'archetipo del guaritore ferito, certo, come tutti gli operatori della psiche (psicoanalisti, psicoterapeuti, psicologi, psichiatri e altro ancora). Tuttavia, gli aspetti radicalmente problematici della sua personalità, che durante la relazione con Winnicott era riuscito a gestire nel modo per lui 'migliore', dopo la morte di "DWW", come amava chiamarlo quando scriveva riferendosi a lui, si scompensarono nel modo più clamoroso, fino al punto che visse l'archetipo del guaritore ferito in maniera distorta, con i risultati, a lungo andare, disastrosi che sappiamo.
L'invidia della creatività
[...] un sano sviluppo mentale sembra dipendere dalla verità [...]. Se la verità manca o è incompleta, la personalità si deteriora.
Wilfred R. Bion
Del sentimento d'invidia ne avevano già trattato importanti saggisti, tra cui qui intendo ricordare, tra gli altri, soltanto la psicoanalista Melanie Klein e il sociologo Francesco Alberoni. Entrambi hanno dato un giudizio generale negativo dell'invidia. La Klein (Klein, 1957, tr. it. 1969) osserva che l'invidia è un sentimento distruttivo, insieme alla gelosia, all'ingordigia, alla competizione, e all'ostilità distruttiva verso l'altro. L'invidia sta alla base della distruzione dell'amore dell'altro. Nell'invidia ci sono componenti sadico-orali e sadico-anali di tendenze ostili. Secondo la Klein, l'invidia ha una base costituzionale e può essere riscontrata fin dalla più tenera età (ibidem, p. 9). La Klein definisce nel seguente modo l'invidia:
L'invidia è un sentimento di rabbia perché un'altra persona possiede qualcosa che desideriamo e ne gode - l'impulso invidioso mira a portarla via o a danneggiarla. Inoltre l'invidia implica un rapporto con una sola persona ed è riconducibile al primo rapporto esclusivo con la madre.
(Klein, 1957, tr. it. 1969, p. 17).
Nell'invidia entra in gioco, come meccanismo di difesa, la proiezione. Cosa fa l'invidia?
[...] l'invidia invece cerca non solo di derubare [...] la madre, ma anche di mettere ciò che è cattivo e soprattutto i cattivi escrementi e le parti cattive del Sé nella madre, e in primo luogo nel seno allo scopo di danneggiarla e di distruggerla. Nel senso più profondo ciò significa distruggere la sua creatività.
(ibidem, p. 18).
Più avanti, la Klein osserva che "l'invidia della creatività" è presente soprattutto in quegli individui che hanno problemi nell'essere creativi, che non riescono a far deco
llare il proprio processo creativo (ibidem, p. 57). La Klein cita Crabb nel suo English Synonyms rispetto a quanto afferma circa l'invidioso: questi è reso inquieto dal fatto che un'altra persona ha quelle qualità, o quell'oggetto, che invece il primo vorrebbe avere per se stesso. L'invidioso cade nella sofferenza se la persona che invidia invece gioisce, mentre gioisce se la vede soffrire. Non c'è modo, perciò, per soddisfare un invidioso. L'invidia, osserva Crabb, è un sentire spregevole basato sulle passioni più meschine. (ibidem, p. 19).
Ancora la Klein, osserva che l'invidia, sentimento distruttivo e vile, è in opposizione con l'amore e le forze riparative. In questo senso, cita il pensiero di Sant'Agostino che considera la vita come forza creativa e pone ai suoi antipodi proprio l'invidia, intesa come una forza distruttiva. Già nella Bibbia, del resto, si afferma che chi ama non invidia, come è scritto nella Prima Lettera ai Corinti (ibidem, p. 57).
E' importante tenere presente che l'invidia agisce tramite la proiezione del cattivo e del distruttivo nella persona invidiata, perché ci fa comprendere come agisce la persona invidiosa: agisce per distruggere la persona invidiata attraverso le forme più abiette di azione, svalutandola, parlandone male con gli altri, e cercando di annientarla in ciò che è in suo potere. La persona invidiosa, per esempio, non rivolge la parola alla persona invidiata nel contesto in cui lavorano e si vedono, giorno per giorno. Sembra veramente strano, ma non rivolgere la parola a un collega che si vede nello stesso ambiente di lavoro, in cui si ha la stanza di lavoro una di fornte all'altra, ha qualcosa di veramente perverso. Isolare un collega di lavoro, per motivi di invidia, è un modo veramente stupido e ottuso di mobbizzarlo. Purtroppo accadono cose di questo tipo, e l'invidioso che si comporta in questo modo è veramente un individuo ignobile e immaturo in senso psicologico e sociale.
L'invidia si attiva nell'invidioso nei confronti dell'invidiato. A parere mio, l' invidioso può essere un soggetto singolo oppure gruppale. L'invidia, come giustamente osserva la Klein, non è triangolare, come nel caso della gelosia. Il geloso ha in mente la persona che 'ama' (in senso possessivo) e che vorrebbe tutta per sé, e l'altro nei confronti del quale si trova in un rapporto di competizione e che suscita la gelosia rispetto all'oggetto amato conteso tra i due. Non cercherò di approfondire la psicologia della gelosia, in questa sede. Ho voluto solo accennare alla differenza che ci può essere tra la dinamica attivata dalla gelosia (che è triangolare) e quella dell'invidia (che è duale). D'altra parte, mi sembra corretto osservare che la Klein accenni a questa distinzione nel suo saggio sull'invidia.
L'invidioso tende a svalutare, distruggere, banalizzare il 'buono' che è nella persona invidiata. Chi invidia è un individuo o un gruppo disturbato nella capacità di generare pensieri. L'invidioso singolo o gruppale ha difficoltà nella capacità di essere creativo, per cui si rivela sterile, meschino, funziona solo in forma proiettiva, proiettando il cattivo sulla persona invidiata, invece di far funzionare il processo introiettivo in senso creativo, partorendo pensieri. Di solito sono gli individui mediocri che sono invidiosi. In potenza, ogni essere umano può essere creativo, come già sappiamo dagli studi sulla creatività che sono stati realizzati nella seconda metà del XX secolo. Gli invidiosi invece di mettere a frutto le possibili risorse personali di cui possono essere dotati, non fanno nulla per realizzarsi. Hanno un'immagine di sé, per così dire, 'ristretta' e hanno atrofizzato la loro immaginazione creatrice. E siccome credono che gli altri siano 'meschini' quanto loro, appena notano che le cose non stanno così, secondo il loro 'ristretto' mondo, ecco subito che etichettano chi è diverso da loro, in meglio, certo, come se fosse 'peggio' di loro. Perché lo fanno? Per invidia.
La persona che desidera realizzarsi come persona creativa s'impegna con molto lavoro, autodisciplina e passione in quello che fa, e solo in una piccola parte viene aiutato dall'ispirazione. Si tratta di un pensiero che è largamente risaputo nell'ambito degli studi sulla creatività. Chi crea qualcosa, dovrebbe essere riconosciuto in senso favorevole dagli altri, invece di essere invidiato e ricevere, proiettivamente, la loro distruttività derivata dalla propria mediocrità. Chi invidia è incapace d'amare e, di conseguenza, incapace di generare veri pensieri. Lo psicoanalista Bion ne sa qualcosa. Nell'invidioso scatta un pregiudizio nei confronti della persona che ha valore. Per l'invidioso è insopportabile che ci sia un collega di lavoro che possa realizzarsi creativamente attraverso l'impegno e la passione in quello che fa. Per l'invidioso è scandaloso, perché lui è meglio, ma questo 'meglio' non si è mai visto in qualche realizzazione creativa. Anche se la persona invidiata ha realizzato delle 'modeste' creazioni, almeno però le ha realizzate, si è messa in discussione e ci ha lavorato sopra, mentre l'invidioso non ha mai realizzato nulla, e ha scelto la via più facile e distruttiva: criticare negativamente e darsi da fare per procurare sofferenza a chi invece crede che il fare-creativo sia una esperienza gratificante in se stessa e si impegna in un progetto appassionato in tal senso.
Del resto, Mihaly Csikszentmihalyi (Csikszentmihalyi, 1990, tr. it. 1992, p. 87) nella sua importante ricerca sul benessere interiore osserva che ci sono delle esperienze che sono soddisfacenti in se stesse, e che procurano uno stato di benessere mentre si realizzano. Così, scalare una montagna, dipingere, scrivere musica o eseguirla, scrivere un libro, possono rappresentare esempi di "esperienza autotelica" che procurano un "benessere interiore", ma che comportano uno sforzo nella loro realizzazione. All'inizio non si è ben disposti nei confronti di questo tipo di esperienze perché comportano un certo impegno, ma quando poi si ricevono dei feedback sulle proprie capacità, allora si trova piacevole l'esperienza, e si continua a realizzarla, prendendo le distanze dall'ambiente esterno, ossia sperimentando questo tipo di esperienza in autonomia. Nella visione di questo studioso, la cultura, dunque il fare-cultura, viene vista come una via contro il caos interiore. L' "esperienza autotelica", in altre parole, ha la funzione favorevole di mettere ordine dove invece sussiste, di solito, il disordine: la mente. Si potrebbe ipotizzare, e anche proporre, che quando una persona soffre troppo d'invidia, dunque di un sentimento e un meccanismo di difesa basato sull'aggressività e l'odio, ha bisogno di riequilibrare la mente, e che immergersi in qualche forma di esperienza autotelica potrebbe essere di aiuto a tale scopo.
Riferimenti bibliografici
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