INDICE DEI PARAGRAFI
- Dediche
- La vita urbana tra anonimato e cerchie sociali
- Il potere creativo
- L'artista Jackson Pollock
- I mezzi di comunicazione collettivi e il riconoscimento individuale
- Le difficoltà a ottenere riconoscimento
- Il riconoscimento negato praticato nelle istituzioni e negli istituti di psicoanalisi, tra umiliazioni subite e inibizione della creatività degli allievi candidati
- I tre livelli del riconoscimento negato
- i tre livelli del riconoscimento
- Note sul potere perverso e diniego del riconoscimento reciproco
- Una breve riflessione di congedo
- Riferimenti bibliografici
- Riferimento cinematografico
- Riferimenti sitografici
Jackson Pollock, Number 8, 1949
Dediche
Dedico questo saggio ai diritti e ai doveri dei cittadini che considerano la democrazia la migliore forma di governo, nonostante le sue inevitabili imperfezioni, e ai seguenti articoli fondamentali di principio della Costituzione della Repubblica Italiana, comparsa nella Gazzetta Ufficiale delle leggi il 27 dicembre 1947:
Art. 1, comma primo: "L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro."
Art. 2: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale."
Art. 3: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E' compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese."
Art. 4: "La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società."
Art. 21, primo comma: "Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione."
Il presente scritto, come dice il titolo, si occupa del rapporto tra potere e riconoscimento. Questo tema viene da me sviluppato considerando aree di esperienza tra loro apparentemente lontane, ma che toccano al fondo della loro essenza la questione del potere e del riconoscimento. A mio avviso, il mobbing, cioè l'accerchiamento violento del branco di aggressori contro il singolo a cui non viene riconosciuta e rispettata la sua 'differenza', sia nel senso delle sue risorse che dei suoi deficit, e che risulta inassimilabile al conformismo e alla psicopatologia del gruppo, è un altro fenomeno che qui viene trattato rispetto alla dialettica del potere (e dei suoi abusi) e del misconoscimento della persona mobbizzata soprattutto nel senso delle discriminazioni che subisce nei contesti di lavoro. Il fenomeno del mobbing è ancora più grave quando viene realizzato nell'ambito di un'istituzione sanitaria, e soprattutto nell'ambito della psichiatria, che al contrario dovrebbe combatterlo con la cultura del conflitto e risolvere, favorevolmente, con la mediazione relazionale le difficoltà sorte nella propria équipe. Il mobbing oltre ad essere una violenza morale negli ambienti di lavoro, è la negazione, tra l'altro, degli articoli della Carta costituzionale della Repubblica Italiana citati sopra, è la negazione di ogni elementare forma di riconoscimento che sta alla base della "salute mentale". Ai mobber (gli aggressori perversi) lo so che queste parole fanno loro semplicemente il 'solletico' e se la 'ridono', perché la loro struttura mentale è prigioniera della psicopatologia del potere e dell'uso dell'istituzione in cui lavorano come se fossero loro i padroni della stessa, oltrepassando i sani limiti che configurano la loro professione. Come dice il detto, 'chi la fa, se l'aspetti!' Ciò significa che se oggi si è mobber, un domani si potrebbe diventare mobbizzati, a sua volta! Questo scritto è dedicato anche ai mobber (individui insensibili, che non sanno cosa sia l'empatia e che non si fanno scrupoli nel provocare sofferenza alla loro 'vittima designata' ), oltre che ai lavoratori mobbizzati.
Jackson Pollock, Number 1, 1950 (Lavander Mist), olio, smalto e alluminio su tela, 221 x 299,7 cm, 1950.
La vita urbana tra anonimato e cerchie sociali
Nelle società complesse come quelle occidentali, in particolare modo nella vita urbana delle città di media e grande popolazione, si conduce, non di rado, un'esistenza anonima. Il filosofo Emile Cioran si rallegrava di vivere a Parigi un'esistenza quotidiana anonima, mentre era consapevole degli aspetti infelici del successo, e che di solito vengono taciuti. Del resto, il noto economista americano Robert B. Reich ha pubblicato un saggio proprio sul tema dell'"infelicità del successo" (Reich, 2001, tr. it. 2004). Il caso di Cioran, bisogna precisare, appare però quello di un individuo che vuole vivere nell'anonimato per scelta.
Le persone che di solito abitano in un posto, i cosiddetti 'residenti', frequentano altri individui che fanno parte dei loro gruppi di riferimento, o, in particolare, di un loro gruppo o di poche persone. Si formano così delle "cerchie sociali", come osservava il sociologo Georg Simmel. Queste cerchie sono chiuse e hanno dei filtri per far entrare altri membri al loro interno. In questo senso, una cerchia è conservatrice ed esercita un potere nei confronti dei suoi membri, nel senso che per farne parte essi devono adattarsi a un regolamento interno o a delle consuetudini non scritte, pena una sanzione in caso contrario e, in casi estremi di non conformismo alla cerchia, l'espulsione dal gruppo. Ci sono anche individui che non frequentano cerchie sociali particolari, e rimangono ai margini della vita sociale per scelta, come è ancora il caso di Cioran, volendo citare un nome di pubblico dominio.
Se nell'infanzia e nell'adolescenza è facile socializzare e farsi degli amici, per esempio, attraverso la partecipazione a un gioco di gruppo (giocare a nascondino, giocare al pallone, giocare a carte, e così via), nella vita degli adulti le cose cambiano radicalmente. Gli adulti rimuovono la freschezza e la genuinità dell'infanzia e dell'adolescenza, non mettono più al primo posto l'amicizia e gli amori, ma li subordinano a 'cose più importanti' che riguardano la lotta per la sopravvivenza e la possibilità di assicurarsi una vita dignitosa a livello individuale. Gli adulti, nella vita urbana, sono alla ricerca del proprio posto nella società, si muovono così tra un'esistenza anonima e l'appartenenza a un gruppo particolare, rivendicando, nella propria interiorità, un progetto di vita e immaginando un'esistenza soddisfacente che rivendica a sé la possibilità di realizzarsi come persona creativa, almeno in parte.
Jackson Pollock, Enchanted Forest, olio su tela, 221,3 x 114,6 cm, 1947.
Il potere creativo
Gli ambiziosi vogliono di più e intraprendono la 'lotta per il potere'. Quale potere? Sappiamo che esistono diverse forme di potere. Per esempio, il potere economico, il potere politico, il potere burocratico, il potere sindacale, il potere giuridico e, soprattutto, il potere che pone in gioco una valenza esistenziale, per eccellenza inventivo, da cui dipende il senso da dare alla propria presenza nel mondo, individuando quelle qualità del 'fare' che più ci caratterizzano come specie umana, ossia la capacità di essere creativi, dunque il potere creativo. Tutti gli esseri umani, tranne alcune eccezioni, hanno un loro potere creativo e cercano l'ambiente adatto che incoraggi le loro potenzialità ad esprimersi. Tuttavia, capita spesso che l'ambiente umano sia ostile alla creatività particolare di una singola persona, soprattutto se questa creatività minaccia di mettere in crisi il conformismo rigido e chiuso del gruppo di riferimento o della comunità in cui il singolo si trova a vivere. Carl Gustav Jung ha scritto, giustamente, che una comunità ha da guadagnarci dalla creatività del singolo, in quanto i prodotti dell'attività del suo ingegno diventano un arricchimento sociale, patrimonio simbolo collettivo quando ne venga riconosciuta la sua rilevanza. Il sociologo Richard Sennett (Sennett, 2008, tr. it. 2008) ha pubblicato un bel saggio su l'uomo artigiano, dove mette in evidenza che la nostra epoca ha bisogno di persone che si dedichino a quelle professioni che diano valore al 'fare della qualità', come, del resto, lo psicoterapeuta E. Cobb (Cobb, 1999) che aveva già fatto notare l'importanza di dedicarci al 'fare come artigiani', nell'amore per le cose ben fatte.
Il potere creativo consiste, allora, nell'impegno personale a maturare le proprie risorse, i propri talenti, nell'educarli, o autoeducarli, affinché da questo lungo impegno in una particolare direzione di studi e pratiche possa scaturire l'opera del proprio ingegno. Affinché questa 'opera' abbia un valore anche per gli altri, deve essere socialmente riconosciuta, come del resto sottolineava anche lo scrittore Charles Bukowski, altrimenti rimane una pratica, un 'esercizio', che ha un valore solo per se stessi. Questo vale per il falegname che mette a punto una bella porta di legno, come per qualsiasi altro lavoro 'fatto bene', sia manuale che intellettuale. Dunque, l'opera creativa, di qualunque genere essa sia, può essere il frutto dell'ingegno del singolo e non può rimanere un segreto personale, a lungo andare, anche se tale segreto è importante, per la persona creativa, nel periodo di gestazione dell'opera. Quando l'opera è messa a punto, nella fase successiva, va resa nota. E' qui che inizia la "lotta per il riconoscimento" (Honneth, 1992, tr. it. 2002) e il superamento dell'anonimato. E' qui che la personalità anonima di un 'tal dei tali', poniamo Albert Einstein quando lavorava come un semplice impiegato a Berna (1903-1905), chiede di essere percepita dagli altri non più come anonima, ma per la sua singolare individualità. Del resto, quando chiunque di noi si dedica a un lavoro artigianale ci tiene che nessuno lo veda se non dopo che sia finito. Questo vale per le opere importanti, così come per quelle di minor respiro.
Specialmente le società complesse, ossia gli agglomerati urbani con maggiore densità di popolazione, sono formati da individui che vivono nell'alienazione dell'anonimato che la stessa metropoli genera, caratteristica peculiare del vivere nelle grandi città. Emile Durkheim, non a caso, aveva parlato di anomia, rispetto alla frammentazione degli stili di vita che derivano dalla divisione sociale del lavoro e che comporta un vivere frenetico nella quotidianità urbana.
Georg Simmel, filosofo e sociologo tedesco (1858-1918)
Simmel, osservando il disagio degli individui che vivono nelle metropoli, notava che le persone delle grandi città diventano più nervose. In questo senso, constatava lo svilupparsi negli individui metropolitani di un atteggiamento difensivo nei confronti dei continui stimoli cangianti offerti dalla vita urbana, ossia lo sviluppo di un atteggiamento blasé che è dato da una certa indifferenza, da una insensibilità verso alle tante cose che differiscono tra loro. Nella vita urbana l'atteggiamento blasé diventa necessario, protettivo, impedendo la disintegrazione della personalità. Ciononostante, l'individuo urbano è anche capace di vivere una vita cosmopolita che gli permette di espandere la sua personalità attraverso l'apertura all'esperienza. Nelle città prevalgono due forme particolari di individualismo: da una parte l'indipendenza personale, dall'altra la distinzione del singolo che pone al centro la sua particolare originalità. In sostanza, una volta che gli individui si sono liberati dai vincoli storici, cercano di distinguersi, di porre come valore la loro unicità irripetibile. E' probabile che la ricerca di distinzione abbia a che fare anche con il bisogno di essere riconosciuti dall'altro nelle grandi città, dove si rischia di perdersi, di sentirsi abbandonati, a differenza dell'abitare in una piccola città di provincia dove ognuno conosce tutti e viceversa. Certo, nella piccola città a lungo andare ci si può sentire ristretti, dove si esercita un certo controllo sociale. Così se la cerchia di persone è limitata nell'ambiente della piccola città, può accadere che le relazioni che vanno oltre tale cerchia diventano motivo di controllo sociale. Perché? Proprio perché si vuole mantenere l'ambiente sociale così com'è. In tal senso, nella piccola città diventa difficile sviluppare la propria individualità, perché la cerchia piccola è anche chiusa e si difende da altre cerchie, che sono altre, diverse dalla propria. In questo clima, non c'è possibilità per il singolo di sviluppare la propria individualità nel piccolo centro urbano. (Simmel, 1903, tr. it. 2003, pp. 413-428).
Jackson Pollock, Cathedral, vernice e alluminio su tela, 181,6 x 89 cm, 1947.
L'artista Jackson Pollock
Ho scelto alcuni dipinti di Jackson Pollock (1912-1956) per illustrare questo saggio, tra un paragrafo e l'altro, in onore di Georg Simmel, oltre che per lo stesso Pollock, per il contributo del sociologo tedesco alla comprensione della sociologia e della psicologia sociale della metropoli. Pollock visse a New Jork circa 15 anni, dal 1930 al 1945, dove ebbe crisi nervose e visse da alcolista. L'artista si sottopose a tre trattamenti psichiatrici, clinici, psicoterapeutici contro l'alcolismo nel corso del tempo (1937, 1938-1939, 1951). La 'fuga dalla realtà', attraverso l'alcol, quale parte della personalità di Pollock ne aveva 'bisogno'? Possiamo ipotizzare che la fuga dal mondo attraverso l'alcol fosse una necessità di quella parte di sé che corrisponde al 'narcisimo ferito' di Jackson, al suo bambino interiore traumatizzato nel corpo dell'adulto. E' attraverso l'arte che Pollock cercava di prendersi cura del suo trauma narcisistico.
Il fare-arte fa appello alle risorse personali dell'artista per realizzare le sue performance. Da questo punto di vista, l'arte assume tre compiti: quello auto-terapeutico, quello espressivo e quello sociale. Il 'vero artista', in questo senso, è colui che con l'arte dà risposta a queste tre esigenze. L'arte vera, inconsapevolmente, è dedizione religiosa all'invenzione di immagini, attraverso la materia se, per esempio, si tratta di un dipinto o una scultura, o di una performance corporea come nella danza o, ancora, attraverso il linguaggio delle parole e dei gesti, come nel caso dell'artista di teatro o di un comico di satira politica. Come tutti sappiamo, l'arte esprime la verità del sogno attraverso i movimenti dell'immaginazione, la comunicazione non verbale, le forme e i colori di una tela, le performance spaziali (per esempio, il caso dell'Arte Povera dell'artista greco Jannis Kounellis o le strutture architettoniche impacchettate di Christo), oppure l'automatismo inconscio, o subconscio, della pittura di Jackson Pollock.
Il 'caso Pollock' esemplifica bene la tesi di Simmel che nelle grandi città le persone diventano nevrotiche. Dopo che Pollock conobbe la pittrice Lee Krasner, che sposò nell'ottobre 1945, con lei andò a vivere a Springs dalle parti di East Hampton. Si tratta di una zona geografica del Long Island. Grazie a un prestito di denaro ottenuto da Peggy Guggenheim, i due sposi comprarono in campagna una casa con un capannone incluso. Pollock svuotò il capannone che così diventò il suo atelier dove andava a dipingere. In campagna, Jackson cominciò a stare meglio, riuscì a concentrarsi sempre di più nel suo lavoro di artista, si attaccò sempre meno ai superalcolici, anche se questo miglioramento era fragile, e nei momenti di crisi ritornava a bere i liquidi ad alta gradazione alcolica. In ogni caso, per Pollock la bottiglia di birra rimase un consumo quotidiano.
Jackson Pollock in azione nella tecnica del drip painting.
L'arte di Pollock, al suo culmine, è geniale e sembra che dipinge, inconsapevolmente, qualcosa di simile alla geografia dei circuiti neuronali del cervello, così come gli studiosi sono riusciti, con gli strumenti della tecnologia, a visualizzarne i tessuti. Qualcuno dice che i dipinti di Pollock rappresentano il caos della mente. Anche questa è una tesi affascinante, diciamo formulabile più in senso estetico. In ogni caso, il risultato artistico a cui pervenne Pollock era notevole per l'arte del XX secolo, sia come innovazione tecnica che come bellezza dei dipinti. D'altra parte, l'arte di Pollock rappresentava anche la reazione di un essere umano, con tutte le fragilità e il potenziale creativo, alla disumanità annichilente della grande metropoli in cui era vissuto: New Jork. Simmel aveva osservato che l'uomo metropolitano non può che rifugiarsi, di fronte al rischio della frantumazione psichica, nel suo mondo interiore (psicologismo). Pollock credo che rappresenti bene questo esito e anche la fuga dall'alienazione urbana, dove il riconoscimento reciproco è carente.
Se nella grande città, ma se vogliamo anche nella media città, una persona in quanto tale, con le sue peculiarità caratteristiche che la rendono unica, viene sostituita dall' 'individuo anonimo e impersonale', per potersi distinguere dagli altri, per poter essere riconosciuto in quanto singolo dalla 'massa', deve realizzare un comportamento o un gesto eccessivo che lo rende come una figura che emerge da uno sfondo. E' questa una acuta osservazione formulata da Simmel. In fondo, se guardiamo a certi comportamenti delle star dello spettacolo, oppure anche dei politici più o meno affermati, i mezzi di comunicazione collettivi non fanno che parlare dei loro "eccessi". Che cos'è il gossip, termine tradotto in italiano con 'pettegolezzo', che incuriosisce il lettore di giornali o lo spettatore della tv meno pretenziosi nei loro gusti culturali, se non la curiosità per gli 'eccessi' delle star del mondo dello spettacolo, della politica, dell'economia, della cultura? I lettori dei giornali scandalistici e delle notizie frivole della tv la loro 'curiosità' ce l'hanno soprattutto nel rapporto con le proprie pulsioni del basso ventre e, allo stesso tempo, male-educano la loro mente con le notizie sensazionalistiche e scandalistiche, ossia con il materiale mass-medialogico buono per il cassonetto dei rifiuti.
A New Jork, gli 'eccessi' di Pollock erano le ubriacature alcoliche, l'alienazione per non sentirsi che un individuo anonimo e impersonale, lui che invece era un pittore dalle grandi potenzialità creative e che si amareggiava credendo che nell'arte moderna Picasso avesse detto tutto e che non c'era più niente da dire, mentre lui voleva 'sfondare' e, in fondo, essere riconosciuto là dove invece viveva un'enorme frustrazione personale e sociale. Era il suo sano narcisismo a soffrire, il suo genio creativo, che ancora non si era manifestato in tutto il suo potenziale e che non aveva percorso quel lavoro mentale e manuale che lo avrebbe fatto realizzare come grande pittore innovativo. Quando Pollock riuscì a realizzare il suo segno artistico peculiare, il suo 'eccesso' creativo, il successo gli arrivò, i giornali e la radio si interessarono di lui, divenne una celebrità, anche se controversa, di cui il mondo sociale allargato veniva finalmente a conoscenza.
La relazione intima e poi il matrimonio con Lee Krasner permise a Jackson di vivere, giorno dopo giorno, un riconoscimento reciproco privato, un riconoscimento che si concretizzò nel sostegno affettuoso che la moglie mostrò di avere verso il marito, fungendo da "oggetto-Sé" (Kohut) per il Sé fragile del compagno e collega. Lee così creò, per Jackson, l'ambiente umano favorevole affinché lui potesse concentrarsi nella sua pittura, prendendo su di sé la responsabilità della gestione globale della vita quotidiana della coppia. La relazione matrimoniale tra i due sembrò funzionare, ma finì con l'incrinarsi, con continui litigi, quando Pollock, a partire dal 1954, si sentì bloccato nel dipingere. Allora l'artista ripiombò nell'alcol e si diede alle avventure extra-coniugali.
Lee decise di partire per l'Europa mentre tra lei e il marito imperversava la crisi coniugale. Nonostante tutto, lei continuava a volergli bene. L'11 agosto 1956 Jackson era ubriaco e si trovava insieme a due giovani ragazze (la studentessa in arte Ruth Kligman, con cui aveva una relazione, e l'amica di quest'ultima Edith Metzger). Tutti e tre montarono nell'auto dell'artista. Alla guida c'era Jackson, e ad un certo punto, mentre viveva una crisi depressiva e si trovava in uno stato di ubriachezza alcolica, lui perse il controllo dell'auto ed uscì di strada, andando a sbattere contro un albero. Morì così Jackson Pollock, a l'età di soli quarantaquattro anni.
Il film su Pollock è stato fortemente voluto da Ed Harris. D'altra parte, è Harris a svolgere il ruolo sia di regista che di interprete eccezionale del ruolo principale, assomigliando in viso in maniera impressionante al pittore americano (Pollock, 2000, Ed Harris, Marcia Gay Harden, Amy Madigan, Val Kilmer, Jennifer Connelly. Regia: Ed Harris). Il film mette bene in evidenza la brama di riconoscimento che Pollock desiderava, e che voleva ottenere da parte della società quando si realizzò come genio artistico e mentre viveva in una condizione da povero. Pollock aveva ingaggiato la "lotta per il riconoscimento" (Honneth) come artista e per l'indiscussa originalità della sua arte. D'altronde, egli era stato uno dei massimi rappresentanti dell'espressionismo astratto americano, il pioniere dell'Action Painting, l'ideatore della tecnica delle 'sgocciolature' (drippings). Tra l'altro, per il film su Pollock, Ed Harris ricevette la Nomination Oscar 2000 come Migliore Attore, mentre Marcia Gay Harden, che interpeta il ruolo di Lee Krasner, vinse l'Oscar 2000 come Migliore Attrice non Protagonista. La sceneggiatura del film è stata tratta dal libro di Steven Naifeh e Gregory White Smith, Jackson Pollock: An American Saga. Dopo la morte di Pollock, Lee Krasner visse ancora ventotto anni e gestì il patrimonio artistico del marito, affermandosi anche lei come pittrice.
Jackson Pollock, Blue Poles 11, 1952, smalto e alluminio dipinto con vetro su tela,212,09 x 488,95 cm, 1952.
I mezzi di comunicazione collettivi e il riconoscimento individuale
Nella "società dello spettacolo", a partire dalla tarda seconda metà del XX secolo, l'individuo che viene riconosciuto come quella particolare e singolare persona che è da un numero sempre maggiore di altri individui comporta un'operazione dei mezzi di comunicazione collettiva e globale. Certo, con Internet oggi ci si può aprire un sito personale, un blog, per esempio, e farlo circolare nella comunità globale. In questo senso, il fascino di onnipotenza narcisistica che prima aveva la televisione, in quanto fabbrica di idoli e miti per la collettività degli spettatori anonimi, si è incrinato. Questa frattura è sorta poco dopo che la tv satellitare ha inaugurato una nuova era nel campo della telecomunicazione, dal momento che si è fatta avanti l'era globale con Internet. Nell'era globale chiunque può far parte della rete comunicativa del pianeta. Basta saper utilizzare la tecnologia del computer e collegarsi con Internet per pubblicizzare la propria esistenza, i propri pensieri, le cose che fa nella vita.
Prima la televisione e poi in sincronia con Internet, il secolo XX è stato quello che ha inventato dei formidabili mezzi di comunicazione collettiva. Certo, anche la radio è un'invenzione del Novecento, mentre la stampa, con i caratteri tipografici, (Gutenberg e collaboratori, inizialmente) ha origine nel Quattrocento. Inizialmente la stampa a caratteri mobili mette a punto la Bibbia, successivamente libri teologici e poi classici dell'antichità (Cicerone, Sant'Agostino, Lattanzio). Nel corso del tempo, oltre ai libri si riproducono immagini, nascono i giornali. Nel Settecento Diderot, D'Alambert e collaboratori mettono a punto l'Enciclopedia, un grande lavoro intellettuale di gruppo a Parigi. E' l'epoca dell'Illuminismo. L'Ottocento dà vita a tanti giornali, a periodici e quotidiani. Nella seconda metà dell'Ottocento nasce la fotografia e al finire di questo secolo i fratelli Lumiere danno vita al cinematografo. Oggi basta un dischetto formattato o un cd-rom per contenere pagine di un libro intero, immagini, musica, film. Basta conoscere in maniera appropriata, con un minimo di preparazione, queste tecnologie per comunicare nella rete globale tutto ciò che si vuole. E' nato, come sappiamo, anche un servizio postale elettronico (l'e-mail) che in pochissimo tempo permette di inviare una comunicazione, una lettera, una foto o qualsiasi altro materiale al destinatario. E questo senza soppiantare il servizio postale tradizionale, ma affiancandolo come un servizio in più.
L'era globale nasce nella culla ideologica del cosiddetto "postmoderno". Il postmoderno, ci dicono gli studiosi, è caratterizzato dalla coesistenza delle temporalità culturali. In altre parole, le culture del passato si mescolano con le culture del presente e quelle ipotetiche del futuro, per cui tutti gli stili, tutte le mode, tutte le epoche storiche e culturali convivono nel nostro presente. Non è un caso che si hanno continui revival di mode dei decenni passati nel vestiario e nella musica. In questo senso, possiamo aggiungere, che anche le varie forme di comunicazione collettiva convivono tutte assieme nell'era postmoderna e globale. Negli ultimi anni non si è fatto che parlare della 'morte del libro' con l'affermarsi di Internet, ma poi questa ipotesi è stata sconfessata e si è affermato che il libro continuerà ad esistere anche nelle epoche future. Servizio postale, libri, giornali, radio, televisione, telefono, Internet, servizio postale elettronico, cellulare (telefono senza fili mobile, grande quanto un pacchetto di chewing gum, di cui dispongono moltissime persone), dunque comunicazione satellitare via etere, sono i nostri mezzi di comunicazione collettiva e privata. Tutti questi mezzi sono utilizzati da noi esseri umani in molteplici modi, ma tutti rispondono allo stesso bisogno: essere riconosciuti dall'altro, che in ogni caso rappresenta il non-io, l'altro con cui instauriamo un significativo riconoscimento reciproco, quella relazione Io-Tu (Buber) che valorizza entrambi gli interlocutori.
Jackson Pollock, Number 4, 1948: Gray and Red, smalto su carta, 57,5 x 78,4 cm, 1948.
Le difficoltà a ottenere riconoscimento
Noi esistiamo, e l'esistere è un processo dialettico tra il vivere per noi stessi e il vivere con gli altri. Il filosofo Soren Kierkegaard, nei suoi scritti sulla comunicazione (Kierkegaard, 1849-1855, in tr. it. 1979, vol. 1, pp. 189-210), ha sottolineato l'importanza dell'esistenza individuale contrapposta all'insignificanza della condizione di "Folla". Kierkegaard scrisse di "quel Singolo" riferendosi a se stesso, ma universalizzando l'importanza del vivere secondo la propria unicità esistenziale, dunque come persona particolare e irripetibile. D'altro canto, se consideriamo uno psicoanalista come Donald W. Winnicott, possiamo imbattarci nelle sue riflessioni sulla capacità di stare da soli e il porsi in relazione con gli altri. Winnicott osservava che se nel corso del tempo diventiamo degli individui che si relazionano con gli altri, non dobbiamo rinunciare per nulla al mondo al nostro auto-isolamento. La stessa esistenza di Winnicott è, d'altra parte, testimone di come lui vivesse da individuo solitario che non voleva appartenere a nessun gruppo in particolare. Il riferimento è qui specialmente ai due gruppi fondamentali e antagonisti che si erano formati all'interno dell' Associazione psicoanalitica britannica: quello che aveva come capo indiscusso Melanie Klein e quello che ruotava intorno ad Anna Freud, negli anni '40 del XX secolo a Londra. Winnicott dunque dava un significato favorevole alla capacità di stare da soli, come del resto lui stesso viveva così. Stare da soli, tuttavia, non si deve intendere, in senso assoluto, come un non-relazionarsi con gli altri, ma semmai una 'posizione' da cui entrare in un rapporto significativo con l'altro, promuovendo il riconosimento reciproco. E' quello che tuttavia non accade nelle istituzioni civili malate di burocrazia e organizzate gerarchicamente e in modo autoritario e paternalistico, secondo un modo di intendere le relazioni che è di tipo militare (v. Sennett, 2006, tr. it. 2006). Ciò vale anche per la psicoanalisi classica, in quanto sappiamo che Sigmund Freud quando diede vita alla sua disciplina come istituzione si mostrò autoritario e utilizzò le etichette psichiatriche come armi paranoiche e politiche per stigmatizzare la creatività degli psicoanalisti più dotati, che alla fine in stragrande maggioranza decisero di uscire fuori da quella associazione. Si trattava di Jung, Adler, Rank e altri ancora. Ferenczi, anche lui uno psicoanalista di genio, decise invece di restare nell'ambito dell'associazione freudiana, nonostante il solito giochetto stigmatizzante di Freud nei suoi confronti perché stava proponendo delle nuove tecniche psicoterapiche che erano in contrasto con le idee del 'maestro'. Alla fine però è stato Ferenczi, presso i posteri, a trovare più consenso di Freud rispetto alle sue proposte di psicoterapia, soprattutto presso analisti come Erich Fromm, fino ad arrivare agli attuali analisti ferencziani, tra cui anche non pochi italiani. Purtroppo ancora oggi, nell'ambito delle scuole psicoanalitiche, ci sono analisiti che hanno gravi problemi di autoritarismo, paranoia e perversione. Come del resto ha osservato la psicoanalista francese lacaniana Roudinesco (Roudinesco, 2007, tr. it. 2008), in una sua recente pubblicazione sul 'lato oscuro' della personalità, tradotto anche in italiano: i perversi sono presenti anche tra gli psicoanalisti.
Le difficoltà a ottenere riconoscimento
Noi esistiamo, e l'esistere è un processo dialettico tra il vivere per noi stessi e il vivere con gli altri. Il filosofo Soren Kierkegaard, nei suoi scritti sulla comunicazione (Kierkegaard, 1849-1855, in tr. it. 1979, vol. 1, pp. 189-210), ha sottolineato l'importanza dell'esistenza individuale contrapposta all'insignificanza della condizione di "Folla". Kierkegaard scrisse di "quel Singolo" riferendosi a se stesso, ma universalizzando l'importanza del vivere secondo la propria unicità esistenziale, dunque come persona particolare e irripetibile. D'altro canto, se consideriamo uno psicoanalista come Donald W. Winnicott, possiamo imbattarci nelle sue riflessioni sulla capacità di stare da soli e il porsi in relazione con gli altri. Winnicott osservava che se nel corso del tempo diventiamo degli individui che si relazionano con gli altri, non dobbiamo rinunciare per nulla al mondo al nostro auto-isolamento. La stessa esistenza di Winnicott è, d'altra parte, testimone di come lui vivesse da individuo solitario che non voleva appartenere a nessun gruppo in particolare. Il riferimento è qui specialmente ai due gruppi fondamentali e antagonisti che si erano formati all'interno dell' Associazione psicoanalitica britannica: quello che aveva come capo indiscusso Melanie Klein e quello che ruotava intorno ad Anna Freud, negli anni '40 del XX secolo a Londra. Winnicott dunque dava un significato favorevole alla capacità di stare da soli, come del resto lui stesso viveva così. Stare da soli, tuttavia, non si deve intendere, in senso assoluto, come un non-relazionarsi con gli altri, ma semmai una 'posizione' da cui entrare in un rapporto significativo con l'altro, promuovendo il riconosimento reciproco. E' quello che tuttavia non accade nelle istituzioni civili malate di burocrazia e organizzate gerarchicamente e in modo autoritario e paternalistico, secondo un modo di intendere le relazioni che è di tipo militare (v. Sennett, 2006, tr. it. 2006). Ciò vale anche per la psicoanalisi classica, in quanto sappiamo che Sigmund Freud quando diede vita alla sua disciplina come istituzione si mostrò autoritario e utilizzò le etichette psichiatriche come armi paranoiche e politiche per stigmatizzare la creatività degli psicoanalisti più dotati, che alla fine in stragrande maggioranza decisero di uscire fuori da quella associazione. Si trattava di Jung, Adler, Rank e altri ancora. Ferenczi, anche lui uno psicoanalista di genio, decise invece di restare nell'ambito dell'associazione freudiana, nonostante il solito giochetto stigmatizzante di Freud nei suoi confronti perché stava proponendo delle nuove tecniche psicoterapiche che erano in contrasto con le idee del 'maestro'. Alla fine però è stato Ferenczi, presso i posteri, a trovare più consenso di Freud rispetto alle sue proposte di psicoterapia, soprattutto presso analisti come Erich Fromm, fino ad arrivare agli attuali analisti ferencziani, tra cui anche non pochi italiani. Purtroppo ancora oggi, nell'ambito delle scuole psicoanalitiche, ci sono analisiti che hanno gravi problemi di autoritarismo, paranoia e perversione. Come del resto ha osservato la psicoanalista francese lacaniana Roudinesco (Roudinesco, 2007, tr. it. 2008), in una sua recente pubblicazione sul 'lato oscuro' della personalità, tradotto anche in italiano: i perversi sono presenti anche tra gli psicoanalisti.
Per non parlare dello psicanalismo, quel fenomeno che consiste nell' ideologizzazione della psicoanalisi e del suo rapporto opaco con il potere e il denaro, di cui, negli anni '70 del XX secolo, scrisse un importante lavoro il sociologo Robert Castel (Castel, 1973, tr. it. 1975). Fu denunciata la psicoanalisi come una pratica di classe limitata solo alla borghesia, mentre gli individui che in quella fase storica venivano considerati parte del proletariato non solo non potevano permettersi un trattamento analitico, ma non sapevano nemmeno cosa fosse la psicoanalisi, avendo altro per la testa, come soddisfare i bisogni più elementari. Franco e Franca Basaglia (Basaglia e Basaglia, in Castel, 1973, tr. it. 1975, pp. VII-XI) scrissero per l'opera di Castel una "Introduzione" dove denunciavano anche loro la mistificazione della psicoanalisi e il fatto che fin dall'inizio, con Sigmund Freud, essa era diretta esclusivamente ai borghesi danarosi. Oggi, nel mondo globale e della società del precariato e del lavoro flessibile, la psicoanalisi si ripropone ancora una volta come pratica per pochi e nel privato. La "salute mentale" dell'ascolto psicologico, oggi, è stata svenduta nei servizi pubblici a favore di una pratica privata di marca neoliberista.
Negli anni '90 del XX secolo, nel Ssn si praticava gratuitamente la psicoterapia a favore di tutti gli "utenti" che ne avessero fatta richiesta, senza distinzione di classe. Nel primo decennio del XXI secolo, almeno in Italia, la psicoterapia nel pubblico è stata stravolta, a favore del privato. Questa strategia di discriminazione neoliberista che accentua le disuguaglianze sociali ed economiche a discapito del diritto alla "salute mentale" esclude dall'aiuto psicologico le persone che non possono permettersi il pagamento dell'analisi o della psicoterapia, ripropone il tema del riconoscimento negato di cui parlo in uno dei paragrafi seguenti, in riferimento all'etica del riconoscimento reciproco di Axil Honneth, ossia dell'umiliazione che così viene a subire una persona non potendo soddisfare uno dei diritti fondamentali che è quello dell'accesso a una pratica di "salute mentale". Questo naturalmente accade in un'epoca in cui lo Stato assistenziale (welfare State) è stato ridotto ai minimi termini a causa di una politica classista a favore dei ricchi e contro la stragrande maggioranza dei cittadini. Gli effetti di tale politica - soprattutto in tempi di crisi economica mondiale nella seconda metà del primo decennio del XXI secolo, e ancora di più dal 2007 a oggi - sono esplosi innanzitutto negli Stati Uniti di George Walter Bush, di cui Silvio Berlusconi ha cercato di copiare la politica disastrosa nel 'piccolo' dell'Italia, senza badare agli effetti catastrofici che già si erano visti in quella grande nazione. Bush junior non si è occupato assolutamente dei bisogni dei cittadini statunitensi, mentre ha cercato di arricchirsi con la guerra in Iraq, favorendo i suoi amici capitalisti. Anche qui siamo di fronte alle umiliazioni che hanno dovuto subire i cittadini americani perché la politica di Bush, orientata verso l'arricchimento e i privilegi delle classi alte, non poteva soddisfare, per esempio, il loro bisogno di psicoterapia in quanto non potevano permettersi di pagare trattamenti lunghi e costosi, e che le compagnie di assicurazioni non avrebbero rimborsato. Ciò vale soprattutto per la psicoanalisi. Siamo di fronte alla negazione del principio etico della solidarietà e dunque della pratica del riconoscimento reciproco.
Consideriamo, adesso, la pratica di potere che i gruppi di analisti, all'interno della Società di psicoanalisi britannica, mettevano in atto identificandosi con una delle due leader principali (da una parte Melanie Klein e dall'altra Anna Freud), di come invece Winnicott soffrisse per non essere riconosciuto sufficientemente dai due gruppi analitici, secondo il talento e il potere creativo di originale psicoanalista (Rodman, 2003, tr. it. 2004, p. 221), e per rappresentare la 'terza via' della psicoanalisi britannica nell'epoca in cui i due gruppi fondamentali entravano in un esasperato conflitto che diede luogo alle cosiddette "Discussioni controverse" nel periodo tra il 1942 e il 1944. Winnicott fece parte del "Gruppo di Mezzo", ossia del gruppo di psicoanalisti che non aderivano del tutto né al gruppo di Melanie Klein né a quello di Anna Freud, e che fu chiamato anche il gruppo degli Indipendenti. Rispetto al punto di vista kleiniano, Winnicott lottava per il riconoscimento dei fattori ambientali nel favorire o sfavorire lo sviluppo psichico del bambino. Rispetto ad Anna Freud, egli si sentiva a lei vicino perché dava spazio, nelle sue formulazioni teoriche, all'importanza dell'educazione, e dunque all'ambiente. Tuttavia Winnicott era anche legato alla psicoanalisi kleiniana a cui non disconosceva i suoi meriti, e in fondo il suo modo di teorizzare, anche se più spostato sul riconoscimento dei fattori ambientali, risentiva dello stile kleiniano e non poteva prescindere dai concetti kleiniani, che da Winnicott venivano riscritti secondo una sua particolare concettualizzazione, più vicina alla sua stessa psicologia.
Winnicott ci teneva ad essere un Indipendente, ma allo stesso tempo chiedeva di essere riconosciuto come psicoanalista creativo e autorevole dagli altri due gruppi. Queste difficoltà ad ottenere il riconoscimento lo visse con sofferenza. Il 'caso Winnicott', se lo vogliamo chiamare così, ripropone il problema del conflitto tra individuo e gruppi di riferimento. Il singolo individuo vuole essere riconosciuto per i suoi talenti e i suoi meriti, ma gli altri non sono così facilmente disponibili a concederlo per svariati motivi, alcuni 'buoni' e altri 'cattivi'.
Un altro esempio di difficoltà ad ottenere il riconoscimento è l'episodio del filosofo Ludwig Wittgenstein quando cercava un editore per pubblicare il suo Tractatus logico-philosophicus (1921), trovando ostilità e resistenza. Un editore glielo avrebbe pubblicato il suo manoscritto, ma a pagamento, ma lui si indignò in maniera collerica per questa risposta. Lo scritto, del resto, era un saggio difficile e che non avrebbe trovato facilmente dei lettori, da qui le riserve dell'editore. Il filosofo viennese invece prese queste riserve dell'editore come un rifiuto e un mancato riconoscimento del suo genio. (v. Monk, 1990, tr. it. 2000).
La difficoltà ad essere riconosciuti è conosciuta da non pochi artisti di valore. Il collettivo, conservatore e conformista, si chiude al nuovo e alle proposte creative innovative, anche se si tratta di opere di indiscutibile originalità. Si tratta di un atteggiamento di difesa contro chi vuole sfidare il classico, il tradizionale, il conosciuto, l'accademico, il canonico. Così, per esempio, è accaduto di ricevere un'accoglienza negativa del pubblico mostre di artisti del calibro di Edvard Munch o di René Magritte.
Quando Francis Bacon, all'inizio della carriera di pittore, voleva presentare dei suoi dipinti a una mostra di arte surrealista, l'organizzatore della manifestazione si rifiutò di accettare le sue opere perché non sufficiententemente surrealiste. Bacon fu talmente deluso che decise di distruggere quelle tele, ma qualcuna si salvò. Dopo l'iniziale fallimento della sua attività d'artista, Bacon decise di lasciar perdere. Fu grazie all'incoraggiamento di un suo amico benestante, dopo qualche anno di pausa, amico con cui aveva una relazione amorosa, che Bacon decise di riprendere a dipingere. Erano gli anni '40 del XX secolo. La prima tela che dipinse, dopo questo periodo di pausa, fu talmente originale e sconvolgente che decretò fin da subito il suo successo quando venne presentata a una galleria di Londra. Il suo genio, finalmente, veniva riconosciuto. Credo che il risveglio inusuale della creatività pittorica di Bacon fu dovuto, in senso psicologico, anche grazie all'appoggio materiale, affettivo e alla grande stima che ricevette dal suo compagno di coppia di quel periodo. Tutti i dipinti che da allora Bacon creò furono un successo strepitoso, e divenne un'artista molto quotato, addirittura l'artista britannico più grande della sua generazione.
Anche Sigmund Freud, del resto, conobbe l'esperienza del mancato riconoscimento delle sue idee geniali presso la comunità scientifica dei medici viennesi, universitari e non, soffrendo per l'isolamento e il disconoscimento delle sue teorie quando, per esempio, voleva far comprendere che l'isteria era un disagio di tipo psichico e che poteva essere trattato con la "psicoterapia".
Giordano Bruno (Nola, 1548 - Roma, 1600) fu un libero pensatore. Era un frate domenicano, filosofo e scrittore. I signori dell'Inquisizione cattolica però considerarono i suoi scritti come eretici e siccome, alla fine, non ritrattò le sue idee, fu emessa una sentenza di morte a suo carico, che venne eseguita con il rogo. Il 17 febbraio 1600 Bruno morì bruciato a Campo de' Fiori, dove, a partire dal 9 giugno 1889, si erge la statua a lui consacrata per opera dello scultore Ettore Ferrari. Bruno fu vittima del dogmatico pensiero unico del clero cattolico, anti-democratico per eccellenza.
Lo scienziato pisano Galileo Galilei (1564-1642) venne costretto a ritrattare le sue idee scientifiche che andavano oltre la filosofia di Aristotele sulla natura e la concezione creaturale della Bibbia. La Chiesa cattolica, a causa delle sue innovazioni scientifiche, stigmatizzò Galilei come "eretico". Il 22 giugno 1633 lo scienziato dovette abiurare le sue teorie astronomiche. Da quel momento in poi, Galilei fu costretto a vivere in isolamento, all'età di sessantanove anni. Così, Galilei trascorse otto anni isolato dagli altri, fino a quando non venne la morte, ad Arcetri, l'8 gennaio 1642. Qui al mancato riconoscimento si aggiunse una sofferenza più radicale: la minaccia di torture e della sentenza di morte da parte dei religiosi se Galilei non avesse abiurato alle sue teorie scientifiche innovative. A quei tempi, gli inquisitori erano detentori di un dogmatico pensiero unico che, come il già ricordato caso di Giordano Bruno, ricorda, anche se in maniera apparentemente più light, i nostri tempi recenti al finire del primo decennio del XXI secolo in Italia. Tra il Cinquecento e il Seicento i religiosi avevano il potere politico di vita e di morte sulle persone, potendo decidere, in maniera autoritaria e criminale, sul loro destino.
Lo stesso discorso lo si potrebbe formulare per tantissimi altri casi in cui sono sorti dei conflitti radicali tra il "Singolo", per dirla con Kierkegaard, e la collettività. Al potere creativo di un singolo, ma anche di un gruppo di lavoro di ricercatori universitari impegnati a un progetto scientifico, non di rado si contrappone la mediocrità del potere politico. Questi politici, di solito coloro che detengono il potere, si arrogano la presunzione di giudicare sulla base non dei meriti degli studiosi e dei creativi, ma in riferimento alla loro ideologia arcaica e agli interessi politici di parte, se non della loro stessa ignoranza, di meschinerie bigotte, di sentimenti distruttivi (invidia, gelosia, vendetta, risentimento, disprezzo, e altro ancora), di chiusure mentali provinciali. Può accadere anche che tra questi politici ci sia qualche mediocre professore universitario che intende vendicarsi delle frustrazioni subite durante la propria carriera accademica, utilizzando il suo potere per colpire lavoratori innocenti, la cui unica 'colpa' è quella di dedicarsi a un lavoro che viene stigmatizzato dal politico solo perché questi ha qualche pregiudizio nei confronti di una determinata categoria di lavoratori, come, per esempio, può 'pensare' che quel tipo di lavoratori è orientato politicamente verso l'opposizione al suo schieramento politico.
Jackson Pollock, Number 20, 1949, smalto su carta montata su pannello, 71,1 x 50,8 cm, 1949.
Il riconoscimento negato praticato nelle istituzioni e negli istituti di psicoanalisi, tra umiliazioni subite e inibizione della creatività degli allievi candidati
Johannes Cremerius (1918-2002) è stato un personaggio di spicco della psicoanalisi tedesca. Per fortuna sua e nostra, ha considerato la psicoanalisi come una disciplina 'aperta', a differenza della Associazione Internazionale di Psicoanalisi (IPA), un'istituzione voluta già da Sigmund Freud. Cremerius è stato uno studioso fedele alla ricerca della verità e i suoi saggi spaziano trasversalmente tra diverse aree di sapere, pur rimanendo uno psicoanalista. Cremerius ha praticato gli ideali della Scuola di Francoforte, per cui per lui rimaneva importante lo spirito illuministico di sviluppare una coscienza critica verso il sapere, e soprattutto nei confronti della psicoanalisi. Cremerius era contro l'autoritarismo in ogni sua forma e favorevole alla democrazia. Nel corso del tempo, la sua formazione si è arricchita di varie specializzazioni. Aveva studiato medicina a Pavia nel 1939. Dopo la laurea si è specializzato in psichiatria, in medicina interna, in psicosomatica e compiuto una formazione psicoanalitica. Negli Stati Uniti, nel 1950, ha conosciuto diversi psicoanalisti europei di rilievo che erano emigrati in quel Paese a causa del nazismo. Ritornato in Germania svolse attività di psicosomatista al policlinico di Monaco. Più tardi, divenne professore universitario prima a Giessen e dopo a Friburgo.
Cremerius il 3 giugno 1988 lesse una relazione a Milano in occasione del Terzo Convegno del "Collegamento psicoanalitico internazionale". Questa relazione è stata poi ampliata e tradotta in italiano dal tedesco da parte di Marco Conci. Il lavoro si chiama Analisi didattica e potere. La trasformazione di un metodo di insegnamento-apprendimento in strumento di potere della psicoanalisi istituzionalizzata, pubblicato nel n. 3 del 1989 di Psicoterapia e scienze umane. Si tratta di una riflessione importante sull'istituzione psicoanalitica e della sua deriva dovuta alla "politica di potere" che si è perpetuata nel corso del tempo e voluta dallo stesso Sigmund Freud. Il discorso sanamente critico di Cremerius si riferisce, in particolare modo, all'analisi didattica a cui si deve sottoporre obbligatoriamente l'allievo analista. Dell'analisi didattica si potrebbe fare a meno, perché serve solo per finalità di potere, per stabilire e rafforzare l'identificazione dell'allievo con il suo didatta, in modo che quando l'allievo diventa analista venga a far parte del clan del suo ex didatta, rafforzandolo politicamente all'interno dell'associazione. D'altra parte, l'analisi didattica svolge anche un'altra funzione, quella di reperire facilmente una fonte di guadagno economico. In questo modo, l'analista didatta si assicura un introito finanziario che lo pone al riparo da crisi economiche, vedendo ogni candidato analista per quattro ore la settimana, essendo questi 'pazienti' in grado di potersi pagare una psicoanalisi freudiana così onerosa, a differenza dei pazienti che non se la possono permettere e ricorrono a psicoterapie della mutua [naturalmente Cremerius si riferisce al contesto tedesco, ma lo si potrebbe generalizzare anche per altre nazioni, compresi gli Stati Uniti].
Cremerius il 3 giugno 1988 lesse una relazione a Milano in occasione del Terzo Convegno del "Collegamento psicoanalitico internazionale". Questa relazione è stata poi ampliata e tradotta in italiano dal tedesco da parte di Marco Conci. Il lavoro si chiama Analisi didattica e potere. La trasformazione di un metodo di insegnamento-apprendimento in strumento di potere della psicoanalisi istituzionalizzata, pubblicato nel n. 3 del 1989 di Psicoterapia e scienze umane. Si tratta di una riflessione importante sull'istituzione psicoanalitica e della sua deriva dovuta alla "politica di potere" che si è perpetuata nel corso del tempo e voluta dallo stesso Sigmund Freud. Il discorso sanamente critico di Cremerius si riferisce, in particolare modo, all'analisi didattica a cui si deve sottoporre obbligatoriamente l'allievo analista. Dell'analisi didattica si potrebbe fare a meno, perché serve solo per finalità di potere, per stabilire e rafforzare l'identificazione dell'allievo con il suo didatta, in modo che quando l'allievo diventa analista venga a far parte del clan del suo ex didatta, rafforzandolo politicamente all'interno dell'associazione. D'altra parte, l'analisi didattica svolge anche un'altra funzione, quella di reperire facilmente una fonte di guadagno economico. In questo modo, l'analista didatta si assicura un introito finanziario che lo pone al riparo da crisi economiche, vedendo ogni candidato analista per quattro ore la settimana, essendo questi 'pazienti' in grado di potersi pagare una psicoanalisi freudiana così onerosa, a differenza dei pazienti che non se la possono permettere e ricorrono a psicoterapie della mutua [naturalmente Cremerius si riferisce al contesto tedesco, ma lo si potrebbe generalizzare anche per altre nazioni, compresi gli Stati Uniti].
Cremerius osserva che l'analisi didattica era già stata criticata da Anna Freud in uno scritto comparso in una periferica rivista israeliana. Questo scritto annafreudiano, pubblicato in un contesto dove solo pochi lettori potevano accedervi, riguarda la "politica di potere" della psicoanalisi istituzionalizzata, e per evitare contestazioni che andassero contro gli interessi di potere e di denaro degli psicoanalisti didatti, e che sono parte delle generazioni di analisti che costituiscono il "comitato segreto" istituito già da Freud. Il "comitato segreto", d'altronde, costituisce "la storia segreta dell'Ipa, e di una storia segreta si tratta perché è una storia vergognosa" - scrive Cremerius.
L'analisi didattica è, per Anna Freud, una cattiva analisi che provoca gravi errori, con risultati negativi e transfert irrisolti negli allievi analisti, con conseguenze nocive sul loro "atteggiamento scientifico". Inoltre, la psicoanalisi istituzionalizzata è diventata una roccaforte del potere simile a "una comunità religiosa". Osserva Cremerius, in tal senso, che "carattere essenziale delle comunità religiose è l'accettazione acritica di tutto ciò che il capo dice e fa" (Cremerius, 1988, tr. it. in 1989, p. 5). L'analisi didattica dalla psicoanalisi istituzionalizzata è stata concepita come "un rituale di sottomissione" che ha lo scopo di indottrinare l'allievo analista. In questo modo, l'analisi didattica diventa "politica di potere" istituzionale. Tutto ciò non ha niente a che fare con la pratica psicoanalitica, che invece viene rinnegata, come viene rinnegato lo spirito critico della psicoanalisi stessa.
La psicoanalisi istituzionalizzata è così formata da una élite del potere di analisti anziani didatti. Cremerius rimarca più volte che l'analisi didattica ha come obiettivo l'indottrinamento dei candidati analisti, trasformando la psicoanalisi in dogma. Era già opinione di Freud che chi non si fosse identificato in tutto e per tutto con le regole auree della psicoanalisi, stabilite da lui stesso, non poteva considerarsi uno psicoanalista. Questo atteggiamento autoritario e dogmatico di Freud, in fondo, contraddice lo spirito creativamente rivoluzionario del metodo psicoanalitico. Da questo atteggiamento paranoico dell'inventore della psicoanalisi, emerge la 'linea partitica' di 'chi non è con me, è contro di me!'. Coloro che, ai tempi di Freud, venivano individuati come "eretici" erano degli "elementi deviazionisti". Cremerius si chiede: 'deviazionisti' rispetto a che?... In questo senso, osserva Cremerius, l'analisi didattica svolge "una funzione analoga a quella dell'inquisitore impegnato nelle lotte che la Chiesa nel medioevo conduceva per difendersi contro dissidenza ed eresia." (Ibidem, pp. 11-12).
Del resto, Erich Fromm nel suo saggio La missione di Sigmund Freud denuncia l'autoritarismo e la dipendenza di Freud dagli altri. Freud era "intollerante" nei confronti di coloro che criticavano o avevano un atteggiamento scettico verso la psicoanalisi, mentre era "gentile e tollerante" verso coloro che erano compiacenti con lui, mostrando acriticità verso la sua disciplina. (Fromm, 1959, tr. it. terza ed. 1978, p. 81). Mi pare che in questo modo di fare in Freud ci fosse poco di 'scientifico', e molto di politico o religioso.
Johannes Cremerius, psicosomatista, psicoanalista, professore universitario.
Cremerius ribadisce, nel suo lavoro qui citato, che è sufficiente l' analisi personale per praticare la professione di psicoanalista, a patto che il futuro analista sia in grado di progredire personalmente in essa. Ci sono Paesi come Canada, Francia e Svizzera dove le Associazioni psicoanalitiche accettano ai corsi teorici gli allievi che hanno compiuto la loro analisi personale, senza bisogno di quella didattica. Cremerius denuncia la pratica dei didatti di fare rapporto sul candidato al comitato di training rispetto ai suoi 'progressi' dove l'istituzione psicoanalitica è chiusa. La stessa denuncia viene formulata da Otto Kernberg, come vedremo più avanti.
Cremerius considera anche la questione della creatività dei giovani candidati analisti che nella psicoanalisi istituzionalizzata viene accantonata in un angolino. La stessa questione della creatività degli allievi analisti, in maniera più ampia, viene trattata da Otto Kernberg e anche questo lo vedremo tra poco. Cremerius scrive, ancora a proposito dell'analisi didattica: "Attraverso l'analisi didattica passa la tradizione autoritaria e si conserva la dottrina." (Cremerius, 1988, tr. it in 1989, p. 18). In questo modo viene costruito il "conformismo" della "realtà sociale dell'Ipa". Rispetto all'università, Cremerius dice che nella facoltà di filosofia sono molto più aperti rispetto al clima che si respira nel chiuso delle stanze dell'istituzione psicoanalitica. Così Cremerius scrive: "Invece di cercare un dialogo con le discipline ad esse vicine, [gli psicoanalisti] si trattengono nel loro splendid isolation; anzi, essi addirittura guardano ai contatti universitari con preoccupazione e scetticismo." (Ibidem, p. 23). Ciò non può che portare alla "stagnazione".
Possiamo allora chiederci se è cambiata la situazione della psicoanalisi istituzionalizzata dal 1988 al 2009, o se le cose continuano ad essere sempre le stesse, come nella Chiesa cattolica, il massimo esempio di istituzione iper-conservatrice.
La psicoanalisi doveva essere la ricerca della verità della mente per ottenere un risultato etico: la liberazione del "paziente" dalla sofferenza e dalla conflittualità nevrotica. Se la questione della "verità" è presente in Sigmund Freud come in Wilfred Bion, la questione del business è presente anch'essa tra i pionieri della disciplina e raggiunge il suo acme durante l'epoca neoliberista, più vicina a noi, dove tutti non desiderano altro che 'fare soldi'.
L'ideologia neoliberista inaugura l'epoca dell'avidità, come già nel 1929 rimarcava il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosvelt a proposito della crisi economica devastante che si era abbattuta nel suo Paese. Ad essere accusata era la ricerca di ricchezza sfrenata, al di fuori di ogni regola. Ieri come oggi, è il capitalismo delle speculazioni, dei mutui subprime, dei prestiti facili, delle azioni di carta straccia dei debiti, a rappresentare la ricerca facile di denaro, l'avidità capitalistica. Se negli Stati Uniti si spera che il neoliberismo economico venga liquidato con la fuoriuscita dal campo politico di Bush junior e l'elezione a presidente degli Stati Uniti di Barack Obama, in Italia, ahimé, il neoliberismo continua a dominare con Silvio Berlusconi come premier del governo italiano. Dunque, l'avidità al potere.
Durante l'epoca in cui viviamo, gli individui si industriano a farsi furbi per ottenere il proprio business. Nelle istituzioni i più ambiziosi sgomitano a destra e a sinistra per fare carriera e per ottenere uno stipendio sempre più alto. Anche se il comportamento dei furbi, che vogliono fare carriera, è sgradevole e e basato su cattiverie, come recita il detto del filosofo Thomas Hobbes homo homini lupus, non hanno nessuna remora a danneggiare colleghi e sottoposti, perché non guardano in faccia nessuno e il loro è un comportamento individualista strumentale per raggiungere il loro fine: il ruolo istituzionale che dia loro più potere possibile e, dunque, anche più libertà d'azione, meno vincoli burocratici, ottenendo la 'simpatia' dell'alta dirigenza e del capo dei capi, con la loro deferenza e compiacenza studiate machiavellicamente: il fine giustifica i mezzi, c'est tout.
Che i carrieristi siano degli individui machiavellici, furbi, sgradevoli, che mettono in atto delle strategie di potere, che si comportano male con il personale a loro sottoposto, che sono anche coloro che mettono in atto il mobbing nel servizio che dirigono, sono ormai cose che tutti possiamo constatare. D'altra parte, i carrieristi hanno una 'testa di Giano' con due facce: una di deferenza per i loro superiori, a cui devono rendere conto e nei confronti dei quali, per ottenere approvazione e appoggio, raccontano delle versioni dei loro comportamenti basate sulla 'buona immagine di sé' che non è altro che costituita da razionalizzazioni difensive; l'altra faccia di Giano è quella verso il personale a loro subordinato, e nei confronti dei quali possono avere nessun riguardo, soprattutto scegliendo chi tra loro è più indifeso come 'capro espiatorio'. Nei confronti dei loro superiori, i 'carrieristi' hanno così una faccia d'agnello, mostrandosi compiacenti e, come se si trovassero in un ambiente militare, dicono sempre 'signor sì, è come dice lei'; nei confronti del personale subordinato, i 'carrieristi' invece possono permettersi di fare la voce grossa, così hanno una faccia da lupo che incute paura e pretendono, a sua volta, che i sottoposti, come in un ambiente militare, dicano 'signor sì, è come dice lei (o come dici 'tu'). Così nasce il sadomasochismo istituzionale e il conformismo di gruppo obbligato, come in uno Stato totalitario tipo ex URSS o l'ex Stato nazista. Chi vuole sottrarsi a questa logica perversa, viene mobbizzato. Al responsabile di servizio 'carrierista' si deve la massima e passiva obbiedenza, come un soldato semplice con il suo sergente nell'esercito, altrimenti il subordinato rischia di 'essere fatto fuori' dal gruppo manipolato dal suo capo.
Al prezzo di contraddire la 'verità' e la 'realtà' delle cose, quello che nell'istituzione deve prevalere è la politica dell'immagine positiva. Così si rischia di negare i veri problemi dell'organizzazione di lavoro e questo perché deve prevalere l'ottimismo e la buona immagine dell'istituzione, al prezzo della falsità. Se le cose stanno così, significa che non interessa a nessuno, nemmeno a chi sta ai vertici dell'istituzione, considerare i nodi critici degli ambienti di lavoro per quelli che sono e dargli una risposta favorevole e con cognizione di causa. Solo in quest'ultimo caso si può 'migliorare' l'ambiente di lavoro. Invece si insiste nel recitare la maschera del ruolo, sospettando che dietro quella maschera ci sia ben poco da salvare.
Nell'istituzione organizzata con una rigida gerarchia, sembra che siano importanti queste due cose: 1) avere potere e lottare per averlo, anche subdolamente; 2) identificarsi con chi il potere ce l'ha per non subire ritorsioni, e questo vale per il personale subordinato. Ciò significa che nell'organizzazione di lavoro prevalgono le strategie dei 'rapporti di forza' e ogni lavoratore è 'costretto' a dare più importanza alla 'politica', attraverso l'iscrizione al sindacato se non al partito che va per la maggiore, che non, paradossalmente, alla competenza per cui è stato assunto. Tra le ritorsioni mobbizzanti ci sono: le manipolazioni relazionali, che consistono nell'utilizzare il gruppo di lavoro, che 'si identifica con l'aggressore' stesso, nel mettere in giro nell'intera istituzione il 'passa parola' contro l'operatore preso di mira, in modo da isolarlo, stigmatizzarlo, emarginarlo (altro che Conferenza di Helsinki del 2005 dell'OMS, che raccomanda la prevenzione in "salute mentale" contro lo stigma e l'esclusione nella società e negli ambienti di lavoro!); il sottrarre, 'misteriosamente', all'operatore 'vittima designata', i documenti di servizio a lui intestati; impedirgli o rendergli difficile i contatti telematici all'interno dell'istituzione, non fornendolo di computer nella sua stanza; storpiare il suo nome e cognome nei documenti di posta elettronica che riceve; non inviargli più "pazienti", se si tratta di uno psicologo, e isolarlo dai contatti di lavoro con gli altri operatori; impedirgli il trasferimento in un altro servizio dell'istituzione e tenerlo in ostaggio del servizio con il responsabile, perverso e paranoico, che è dunque un cattivo leader, che lo mobbizza, danneggiandolo nella reputazione professionale e nella salute psicofisica; assegnare all'operatore mobbizzato un'etichetta psichiatrica che, in realtà, è la proiezione di un aspetto malato della mente dell'aggressore (bullo adulto, mobber) (vedi Sigmund Freud, che 'sano' non era dal punto di vista mentale, e ce lo dicono tutte le buone biografie su di lui, che stigmatizzava, in senso psichiatrico, chi non la pensava come lui stesso in seno al Movimento psicoanalitico di Vienna); essere costretti a subire l'aggressione sistematica del branco con formule derisorie. L'elenco potrebbe continuare, ma credo che la fenomenologia dei soprusi è in parte sovrapponibile e in parte specifica dei singoli casi di mobbing. In tal senso, rimando alla copiosa saggistica intorno al fenomeno delle vessazioni sul lavoro.
Chi 'fa' sindacato è un 'personaggio importante' nell'istituzione e gode di 'certi' privilegi, se non di una libertà d'azione a volte non giustificata rispetto agli altri colleghi di lavoro. Chi 'fa' sindacato, d'altra parte, gode di un certo 'riconoscimento' da parte degli altri, legittimo se si 'lavora' come sindacalista a favore e in modo onesto nei confronti degli iscritti al sindacato, mentre quando subentra una forte ambivalenza nel gestire tale ruolo nei confronti degli altri allora la legittimazione viene meno e può succedere che gli iscritti prendano le distanze, o non riconfermano la quota associativa.
Ritorniamo, adesso, a considerare l'istituzione psicoanalitica. E' interessante come sia uno dei massimi e prestigiosi protagonisti della psicoanalisi negli Stati Uniti, Otto Kernberg, ad assumere una posizione critica nei suoi confronti. Kernberg, fin troppo intelligente e onesto, non gioca a dare dell'istituzione psicoanalitica una 'bella immagine', un' 'immagine positiva' ma vuota o falsa, come fanno politiche di certe istituzioni che consigliano ai dipendenti di dare all'esterno di essa, o anche tra colleghi (sic!), un'immagine 'sempre' positiva, un'immagine, dunque, che nega i problemi di cui è afflitta. Tuttavia, l'eterna 'immagine positiva' dell'istituzione appare come un'operazione di marketing che ha lo scopo di vendere un prodotto, anche di scarsa qualità, che però luccica grazie alla sua esteriorità decorativa e che dovrebbe sedurre all'acquisto il potenziale 'consumatore'. Kernberg, invece, attacca l'istituzione psicoanalitica nei suoi nodi nevralgici, sfidando i potenti dell'establishment psicoanalitico statunitense, probabilmente perché lui se l'è potuto permettere, grazie al suo prestigio e alla sua autorità autorevole, ma anche al grande coraggio e agli ideali con cui ha saputo 'essere psicoanalista'.
Otto Kernberg, psichiatra, psicoanalista, professore universitario, saggista, è stato presidente dell'International Psychoanalytical Association.
In maniera sarcastica, Kernberg scrive "Trenta metodi per distruggere la creatività degli allievi degli istituti di psicoanalisi", capitolo XIV del suo saggio tradotto in italiano con il titolo Le relazioni nei gruppi. Ideologia, conflitto e leadership (Kernberg, 1998, tr. it. 1999) che farebbero
bene a leggere tutti gli operatori della "salute mentale" di ogni servizio, perché fa comprendere cosa significhi vivere in un'"atmosfera paranoide" come, del resto, l'interessante capitolo VIII sulla "paranoiagenesi nelle organizzazioni". In altri capitoli, come quello sul conformismo (capitolo XV), Kernberg fa capire cosa significa essere manipolati dall'alto, da parte di chi fa pressione affinché si raggiunga il conformismo di gruppo, fenomeno deleterio per lo sviluppo della personalità individuale, favorendo la regressione gruppale di fronte a una leadership autoritaria e paternalistica, in sostanza, mantenendo i membri del gruppo a uno stato infantile. Riprenderò il capitolo VIII sulla "paranoiagenesi nelle organizzazioni" un poco più avanti, a proposito del carrierismo e del mobbing.
Per adesso consideriamo il capitolo XIV del saggio Le relazioni nei gruppi a proposito dei "Trenta metodi...", scritto in realtà nel 1996 quando Kernberg si accingeva a presiedere la carica di presidente dell'International Psychoanalytic Association. Quello che in questo lavoro il grande psicoanalista mette in evidenza sono le strategie utilizzate dagli analisti didatti e/o anziani per inibire la creatività e la presa di posizioni indipendenti dei candidati analisti.
Negli istituti di psicoanalisi americani, probabilmente non in tutti, si viene a creare, in sostanza, un clima paranoide. Sembra assurdo, ma è così secondo l'esperienza che Kernberg ha avuto di tali istituti in tanti anni di frequentazione. Invece di favorire lo sviluppo della personalità e della creatività degli allievi analisti, in certi istituti di psicoanalisi li si mantiene in una condizione di insicurezza, dubbio, sospetto, diffidenza, timorosi dell'autorità, nel rispetto della gerarchia, costringendoli all'assimilazione sterile di tutti gli scritti di Freud, invece di incoraggiarli a pensare con la propria testa, evitando di conoscere gli ultimi saggi di psicoanalisi. In questo modo si cerca di rinforzare la dipendenza dall'istituzione e dai rappresentanti che hanno più potere.
Una cosa veramente vergognosa è quella, operata da parte dell'analista didatta, di riferire dell'analisi del candidato al gruppo direttivo dell'istituto. Ciò non può che accentuare il clima paranoide e, come osserva Paolo Migone nella sua "Introduzione" a "Trenta metodi..." di Kernberg, che lui pubblica monograficamente nella rivista Psychomedia Telematic Review, nell'"Area: Problemi di Psicoterapia", viene a costituire una "regola perversa per cui in certi istituti gli analisti didatti possono tradire il segreto professionale facendo rapporto sul progresso del candidato".
Gli psicoanalisti Maria Ponsi e Mario Rossi Monti, nel loro commento al lavoro di Kernberg, concordano almeno su una cosa con l'illustre collega americano: anche nella Società di Psicoanalisi Italiana (SPI) c'è un'ansia paranoide. Così i due colleghi italiani scrivono in Psychomedia, nel loro commento a "Trenta metodi...": "Dogmatismo, atmosfera di segretezza, sapere iniziatico, sottomissione all'autorità, adeguamento al pensiero comune sono gli ingredienti ma anche i sintomi di questa atmosfera".
Secondo i due psicoanalisti italiani, l'"assetto paranoide" degli istituti di psicoanalisi corrisponde all'esigenza di preservare l'identità gruppale dei primi analisti, in modo da evitare la disgregazione della disciplina. Ponsi e Rossi Monti tuttavia sono consapevoli degli effetti nocivi che la "struttura paranoicale" degli istituti psicoanalitici provocano, come impedire che si realizzino scambi con l'ambiente esterno alla SPI. Così, tutto ciò che non è 'psicoanalitico' e di pertinenza dell'istituzione psicoanalitica viene guardato con sospetto e diffidenza, o viene rifiutato per timore che minacci l'identità unitaria del gruppo degli psicoanalisti. Si vengono a costituire, allora, caratteristiche che impoveriscono l'istituzione psicoanalitica, come la sua chiusura verso l'esterno e, come accennato prima, l'atteggiamento che ci sono segreti da proteggere.
Kernberg sottolinea l'insicurezza e la paranoia, la rigidità del Super-io, la pressione verso il conformismo che in maniera soffocante si respira negli istituti di psicoanalisi.
Consideriamo adesso il discorso sul carrierismo e il mobbing, di cui ho accennato in questo paragrafo prima di parlare di Kernberg. Scrive questi nel capitolo VIII "La paranoiagenesi nelle organizzazioni" del saggio Le relazioni nei gruppi, a proposito di due tipi di organizzazioni, di cui uno sano e un'altro malato:
"Jacques (1976) distingue due tipi di organizzazioni sociali: quelle essenziali e quelle paranoiageniche. Le organizzazioni essenziali sono strutturalmente sane, vale a dire che l'autorita coincide con la responsabilità e che è possibile avere il giusto numero di persone per il compito giusto al momento giusto: si tratta di organizzazioni con una struttura gestionale funzionale. Queste organizzazioni, scrive Jacques, consentono anche alle persone "di comunicare reciprocamente con fiducia e di precludere la via al sospetto e alla sfiducia". Le organizzazioni paranoiageniche, invece, rendono "impossibile agli individui avere relazioni normali improntate alla fiducia e alla confidenza. Esse forzano le organizzazioni sociali in un'armatura che richiede forme di comportamento facili a generare sospetti, invidie, rivalità ostile e ansia, e ingabbiano le relazioni sociali a prescindere dalla buona disposizione individuale" "(p.6).
(Kernberg, 1998, tr. it. 1999, p. 133).
Nel capitolo VII, "La dimensione morale della leadership", Kernberg formula delle interessanti osservazioni sulle cause che provocano il carrierismo e la ricerca di "vittime sacrificali":
"Come sottolinea Zinoviev (1984), nei grandi gruppi in cui l'autorità è proiettata al di fuori o in alto, sui superiori gerarchici, la leadership mostra una tendenza al comportamento corrotto che i singoli membri aborrirebbero nella loro vita personale. Anch'io, come Zinoviev, ritengo che una struttura autoritaria favorisca la proiezione delle funzioni del Super-io su autorità esterne o gerarchicamente superiori; ne consegue una regressione gruppale in direzione narcisistico-dipendente o paranoide e il comportamento corrotto si intensifica. Come dice Zinoviev, condizioni simili promuovono il carrierismo, l'egoismo, l'indifferenza verso i compiti, il compiacimento verso gli errori altrui, l'ostilità verso chi ha successo, la ricerca di vittime sacrificali, la tendenza a screditare i valori morali e le differenze individuali, il rancore verso coloro che appaiono autonomi o coraggiosi e infine la tendenza a un cieco egualitarismo e un paradossale rinforzo delle autorità dei leader autoritari come difesa contro l'invidia reciproca. Queste conclusioni collimono con quelle di Chasseguet-Smirgel (1975) e Anzieu (1981) circa i processi regressivi di gruppo."
Nel capitolo VII, "La dimensione morale della leadership", Kernberg formula delle interessanti osservazioni sulle cause che provocano il carrierismo e la ricerca di "vittime sacrificali":
"Come sottolinea Zinoviev (1984), nei grandi gruppi in cui l'autorità è proiettata al di fuori o in alto, sui superiori gerarchici, la leadership mostra una tendenza al comportamento corrotto che i singoli membri aborrirebbero nella loro vita personale. Anch'io, come Zinoviev, ritengo che una struttura autoritaria favorisca la proiezione delle funzioni del Super-io su autorità esterne o gerarchicamente superiori; ne consegue una regressione gruppale in direzione narcisistico-dipendente o paranoide e il comportamento corrotto si intensifica. Come dice Zinoviev, condizioni simili promuovono il carrierismo, l'egoismo, l'indifferenza verso i compiti, il compiacimento verso gli errori altrui, l'ostilità verso chi ha successo, la ricerca di vittime sacrificali, la tendenza a screditare i valori morali e le differenze individuali, il rancore verso coloro che appaiono autonomi o coraggiosi e infine la tendenza a un cieco egualitarismo e un paradossale rinforzo delle autorità dei leader autoritari come difesa contro l'invidia reciproca. Queste conclusioni collimono con quelle di Chasseguet-Smirgel (1975) e Anzieu (1981) circa i processi regressivi di gruppo."
(Kernberg, 1998, tr. it. 1999, pp. 131-132).
Riprendiamo il capitolo VIII. In un ambiente di lavoro malato di potere e che basa le relazioni sull'autoritarismo e l'atteggiamento persecutorio mobbizzante da parte della dirigenza e del suo responsabile, cosa può fare un operatore con una personalità normale? Kernberg risponde che nelle "istituzioni paranoiageniche" le "persone normali" sono quelle che soffrono di più, che si sentono "più alienate". Le risposte psicologiche delle "persone normali" in una istituzione malata di paranoia, secondo Kernberg, possono essere due: 1) esse cadono in depressione; 2) per proteggersi, le persone si ritirano in modo schizoide nei confronti del "doloroso deterioramento della condizione umana all'interno dell'istituzione" (Kernberg, op. cit., p. 136).
Riprendiamo il capitolo VIII. In un ambiente di lavoro malato di potere e che basa le relazioni sull'autoritarismo e l'atteggiamento persecutorio mobbizzante da parte della dirigenza e del suo responsabile, cosa può fare un operatore con una personalità normale? Kernberg risponde che nelle "istituzioni paranoiageniche" le "persone normali" sono quelle che soffrono di più, che si sentono "più alienate". Le risposte psicologiche delle "persone normali" in una istituzione malata di paranoia, secondo Kernberg, possono essere due: 1) esse cadono in depressione; 2) per proteggersi, le persone si ritirano in modo schizoide nei confronti del "doloroso deterioramento della condizione umana all'interno dell'istituzione" (Kernberg, op. cit., p. 136).
Quali possono essere le cause che provocano la"paranoiagenesi istituzionale", secondo Kernberg? "Una leadership istituzionale deficitaria può essere una causa essenziale del crollo della produttività [...]". "La leadership deficitaria può derivare dalle caratteristiche personali dei leader che occupano posizioni-chiave [...]". Kernberg cita un passo da un saggio di Elliott Jacques del 1976 a proposito delle istituzioni sociali anti-essenziali. A proposito di tali istituzioni anti-essenziali, scrive Jacques, "le istituzioni anti-essenziali fanno nascere una oggettiva sospettosità per via della loro perenne angoscia persecutoria; l'angoscia a sua volta mina il funzionamento individuale [...] facendo funzionare peggio l'istituzione sociale" (pp.8-9)." (Kernberg, op. cit. p. 137). Del resto, un'altra causa che si riscontra spesso nella paranoiagenesi istituzionale è la carenza di risorse da utilizzare per assolvere i compiti istituzionali. Anche "la politica istituzionale" è causa di paranoiagenesi, e riguarda la rivalità, come osserva Masters in un saggio del 1989, rispetto alla scelta del soggetto di prestigio che deve comunicare messaggi importanti a tutti gli altri membri dell'organizzazione (ibidem, pp. 137-138).
Kernberg formula, d'altra parte, il ritratto del "leader incompetente" e del "leader inadeguato". Consideriamo il primo caso con le stesse parole di Kernberg:
Kernberg formula, d'altra parte, il ritratto del "leader incompetente" e del "leader inadeguato". Consideriamo il primo caso con le stesse parole di Kernberg:
"L'incompetenza del leader non ha solo un effetto devastante sul funzionamento dell'organizzazione, ma è anche enormemente paranoiagenica. I leader incompetenti, per proteggere se stessi dai subordinati competenti, diventano inaffidabili, sospettosi e bugiardi; diventano autoritari con i subordinati e servili con i superiori. Queste qualità attivano la regressione paranoiagenica, in particolare per quanto riguarda le sue caratteristiche paranoidi e francamente psicopatiche. La corruzione indotta dalla disonestà dei leader prepara il terreno alle reazioni psicopatiche generalizzate in tutta l'organizzazione, e il potenziale paranoide sottostante può essere mascherato da questo equilibrio superficiale di corruzione generale."
(Kernberg, op. cit., p. 141).
Del "leader inadeguato", Kernberg scrive:
"Il leader inadeguato di una struttura burocratica, in particolare un leader con gravi tendenze narcisistiche e paranoidi, può trasformare un sistema burocratico regredito in un incubo sociale. Questi leader si aspettano, e favoriscono, un comportamento servile da parte dei subordinati, premiano l'idealizzazione della leadership e sono pronti a perseguitare coloro che sentono critici nei loro confronti."
Del "leader inadeguato", Kernberg scrive:
"Il leader inadeguato di una struttura burocratica, in particolare un leader con gravi tendenze narcisistiche e paranoidi, può trasformare un sistema burocratico regredito in un incubo sociale. Questi leader si aspettano, e favoriscono, un comportamento servile da parte dei subordinati, premiano l'idealizzazione della leadership e sono pronti a perseguitare coloro che sentono critici nei loro confronti."
(Kernberg, op. cit., p. 145).
Dunque, è il leader, sia quello incompetente sia quello inadeguato, che provoca "un'atmosfera paranoide" in un'istituzione. Il clima generale che un'istituzione siffatta genera è anche quello di una corruzione nei rapporti generali tra i loro membri.
Consideriamo il caso di uno psichiatra che diventi pure uno psicoanalista della SPI e diriga un servizio di "salute mentale". Questo psichiatra mostra una struttura caratteriale autoritaria e paternalistica, rigidità superegoica, tendenze paranoicali, manipola il gruppo di operatori verso il conformismo di gruppo, non comunica selettivamente con i pochi psicologi del gruppo perché li ritiene inferiori agli psichiatri, però 'corteggia' con una 'socievolezza' manierata gli infermieri per tenerseli buoni. Così, introduce nel gruppo delle evidenti discriminazioni per sotto-gruppi professionali.
Dunque, è il leader, sia quello incompetente sia quello inadeguato, che provoca "un'atmosfera paranoide" in un'istituzione. Il clima generale che un'istituzione siffatta genera è anche quello di una corruzione nei rapporti generali tra i loro membri.
Consideriamo il caso di uno psichiatra che diventi pure uno psicoanalista della SPI e diriga un servizio di "salute mentale". Questo psichiatra mostra una struttura caratteriale autoritaria e paternalistica, rigidità superegoica, tendenze paranoicali, manipola il gruppo di operatori verso il conformismo di gruppo, non comunica selettivamente con i pochi psicologi del gruppo perché li ritiene inferiori agli psichiatri, però 'corteggia' con una 'socievolezza' manierata gli infermieri per tenerseli buoni. Così, introduce nel gruppo delle evidenti discriminazioni per sotto-gruppi professionali.
Rispetto a uno psichiatra-psicoanalista del genere, responsabile di un servizio di "salute mentale", c'è da chiedersi fino a che punto abbia 'importato' nel servizio il clima paranoide che ha appreso nell'istituto di psicoanalisi in cui si è formato e in cui tiene una carica burocratica. Probabilmente si tratta di uno psichiatra ambizioso e carrierista, probabilmente narcisista, che mette in atto delle strategie gruppali perverse e paranoicali, che non ha nessun sano senso di colpa nell'orchestrare mobbing ai danni di qualche operatore che gli impedisce di 'brillare' solo lui o le 'perle' del suo staff, e di cui tutto il gruppo si vuole disfare perché non aderisce né alla loro psicopatologia né al loro conformismo.
La cosa che tuttavia rincresce, enormemente, per un servizio di "salute mentale" siffatto è che invece di prevenire le dinamiche mobbizzanti a danno di un operatore, chiunque esso sia, con la chiarificazione, la mediazione relazionale e il superamento del conflitto, è proprio un servizio simile a provocarle. Il fatto che non ci sia un atteggiamento di sana autocritica, di messa in discussione genuina del responsabile di servizio e del gruppo, lascia pensare che il disagio psicopatologico gruppale non preoccupa nessuno. Al contrario, c'è da preoccuparsi perché le ricadute, alla fin fine, di questo cattivo funzionamento di un servizio di "salute mentale" poi ricade, a caro prezzo, sugli stessi "pazienti".
Ritornando ai "Trenta metodi..." di Kernberg, in sostanza, emerge che certi istituti di psicoanalisi sono diventati, anche in Italia, palestre di mobbing per i loro membri. Così, il candidato analista che non si conforma e non accetta le umiliazioni continue di riconoscimento negato, se non 'tollera' le continue frustrazioni-non-necessarie di un mondo paranoico di relazioni malate di potere, voluto dagli analisti didatti e/o anziani, allora, se ci tiene al 'rispetto di sé' (v. il saggio di Sennett, 2003, tr. it. 2004) e se la sua mente riesce a discriminare ciò che è mentalmente 'sano' e 'malato', non può che optare per un'autoselezione e andarsene. In un ambiente del genere, l'unica cosa sensata che rimane da fare non è che cercare altrove la propria strada, magari orientarsi per una scuola di psicoterapia più 'sana' e meno pretenziosa dell'istituzione psicoanalitica e che favorisca realmente la crescita mentale degli iscritti della scuola.
C'è da chiedersi, ancora, se ha senso andare in analisi con un analista malato di potere, considerato un 'pezzo grosso' della Società di Psicoanalisi o di qualsiasi altra scuola di 'psicologia del profondo' anche junghiana. C'è da aspettarsi che la relazione che un tale "analista" può stabilire con il "paziente" sia permeata da un eccesso di asimmetria, dunque di potere sull'altro, e di scarsa empatia. Un "analista" di siffatta fattura non può dare al "paziente" che la sua mediocrità e il suo narcisismo. Quest'ultimo, alla fine di ogni seduta, si chiederà, legittimamente, 'ma che vado a fare da questo analista, che tra l'altro pago le sedute a un prezzo non da poco?' (v. Jamis, 2003, tr. it. 2008). Con un'"analista" del genere c'è poco da chiarire e dialogare sui dubbi e il conflitto che il "paziente" si porta dentro, se restare o cambiare "analista" (v. Migone, ""E se cambiassi analista?", in http://www.vertici.com/servizi/print.asp?cod=1553). Quest'ultimo, che in realtà non interessa tanto il bene del "paziente" ma l'introito che realizza con le sedute, non potrà che, in maniera manipolatoria, convincerlo a rimanere. Invece, l'unica cosa sensata e 'sana' che può fare il "paziente" è quella di cambiare "terapeuta", "analista" o no che sia, nel caso in cui vuole continuare una "relazione terapeutica". Per esempio, può rivolgersi a uno psicoterapeuta bravo anche se non ha un nome altisonante nell'ambito delle maggiori società analitiche e né appartiene ad esse, che a livello pratico non può voler dire niente per il "paziente" in termini di sperimentare una 'relazione sana ed empatica'.
Jackson Pollock, Number 3: Tiger, 1949
I tre livelli del riconoscimento negato
Nel presente paragrafo considero la teoria del riconoscimento del filosofo Axel Honneth, ex allievo di J. Habermas presso la Scuola di Francoforte, facendo riferimento al suo scritto Riconoscimento e disprezzo. Sui fondamenti di un'etica post-tradizionale (Honneth, tr. it. 1993). Honneth individua tre livelli fondamentali del riconoscimento e il loro rovescio al negativo. La sua riflessione è di grande interesse per comprendere cosa significhi la "vita buona" per la singola persona e la collettività e cosa minacci questo valore.
Secondo Honneth, gli esseri umani si individuano attraverso un processo che forma un' "identità pratica". Essa ha bisogno di essere costantemente confermata dall'interazione intersoggettiva che comprende cerchie sempre più ampie di interlocutori della comunicazione. In questo modo, la persona riconosce se stessa. L'identità del soggetto si forma così per mezzo di innumerevoli interazioni sociali. In questo processo il conflitto ha un valore fondamentale per il riconoscimento di sé di fronte all'altro. Se viene meno la "lotta per il riconoscimento" passando attraverso il conflitto, che è sempre presente nelle interazioni sociali, al suo posto si stabilisce il "disprezzo", lo "sfregio" o l' "umiliazione" per se stessi.
Se la dignità umana è un valore centrale per l'essere umano, allora si devono combattere le esperienze distruttive dell' "offesa" e dell' "umiliazione", facendo di tale lotta un fine normativo. La dignità umana comporta l'integrità della persona, e ciò presuppone l'"esperienza del riconoscimento intersoggettivo". Honneth considera un contributo del 1961 di Ernst Bloch, in cui, tra l'altro, tratta anche il riconoscimento (v. nota 1 dello scritto di Honneth, p. 46), che però non sviluppa a pieno. Così Honneth osserva che l'integrità delle persone, nella prospettiva di Bloch, comporta una reciprocità nel riconoscimento. Se questo presupposto non c'è, allora nei rapporti intersoggettivi incombe la minaccia che tale integrità personale venga attaccata con l'offesa e il disprezzo. Consiste in ciò il "riconoscimento negato", negazione che lede la stima favorevole che le persone hanno di se stesse. Tenendo conto del contributo di Bloch, Honneth precisa che il riconoscimento va inteso in seno a una "teoria dell'intersoggettività". In questo senso, l'integrità della persona e il suo rispetto non possono che essere considerati "in un rapporto di dipendenza dall'approvazione di altri" (Honneth, tr. it. 1993, p. 18).
L'immagine che la persona ha di sé, sul piano normativo, è un'immagine dinamica che ha bisogno di costanti conferme che gli provengono dall'altro. Se queste conferme vengono negate, se la persona nella sua integrità viene disprezzata, allora subisce una violenza che lede la sua identità complessiva. Honneth osserva che ci sono diverse forme di violenza. Ci può essere, per esempio, l'umiliazione in cui vengono rifiutati i "diritti fondamentali elementari", come la violenza, più fine, che consiste in velate allusioni, in contesti pubblici, dell' "insuccesso di una persona".
Lo "spregio" può "sconvolgere" un soggetto nella propria intimità psicologica. Questa "umiliazione" può arrivare al punto di togliergli il riconoscimento legato a particolari qualità identitarie. A parte le conseguenze traumatiche provocate dal maltrattamento fisico (tortura, stupro, lesioni del corpo in seguito a scontri con gli altri), da cui deriva una certa vergogna sociale e un danno al sentimento di fiducia in se stessi e nei confronti dei contesti ambientali in cui si vive, ciò che viene negata, in questo caso, è la persona. Una tortura, uno stupro, delle molestie morali in un ambiente di lavoro, provocano un'interruzione nell'immagine favorevole che l'individuo ha di se stesso. Tuttavia, a questo primo livello di "sfregio" è l'interruzione nella possibilità di poter disporre del proprio corpo in maniera autonoma che provoca sofferenza individuale.
Nel caso, invece, in cui si viene umiliati nella "comprensione normativa di sé", l'individuo viene escluso "dal possesso di determinati diritti nell'ambito della società" (op. cit., p. 21). Qui siamo di fronte al secondo livello di "sfregio" della persona. In tale contesto cosa si deve intendere per "diritti"? Honneth dice che i diritti sono delle "pretese individuali" legittime che un individuo può rivendicare in quanto membro di una comunità, affinché siano soddisfatti dal sociale. In tal caso, un membro della comunità, come gli altri, può usufruire del diritto di partecipare al buon uso delle istituzioni sociali. Se, al contrario, alla persona viene negato questo diritto allora "è implicita la conseguenza che non le viene attribuita una capacità morale di intendere e volere pari a quella degli altri membri" (op. cit., pp. 21-22).
Adesso cerco di considerare il ragionamento di Honneth sul riconoscimento negato rispetto alla questione delle vessazioni che viene a subire un lavoratore nell'istituzione in cui è stato assunto. Nel corso del tempo, queste molestie che subisce vengono a configurarsi in un vero e proprio mobbing. Non c'è dubbio che il problema è radicato nell'ambiente di lavoro, che mette in atto dei propri e veri abusi di potere. Il lavoratore preso di mira subisce uno spregio da parte del gruppo di riferimento. Egli non solo viene danneggiato nel suo diritto fondamentale di esercitare il lavoro per cui è stato assunto con un regolare concorso dall'istituzione, ma viene a subire delle angherie, una svalutazione come persona e professionista, l'emarginazione sociale e il disprezzo. I mobber mettono in giro delle false dicerie sul suo conto con il passa parola, in modo che in ogni contesto di interazione sociale dell'istituzione in cui lavora venga ad essere isolato dagli altri. Il lavoratore mobbizzato è uno in gamba, preparato e impegnato nel suo lavoro, ma proprio questo è il punto che il gruppo non ama, proprio perché egli bada più al suo lavoro e meno alle interazioni con il gruppo. Allora il gruppo di riferimento si trasforma in branco e si vendica su di lui con delle vessazioni che i loro membri concordano tutti assieme, volendo punire così la sua 'differenza' rispetto alla mediocrità del gruppo da cui lui ha preso le distanze. Così, la vittima designata dai mobber, o aggressori, non solo subisce limitazioni rispetto all'autonomia individuale, ma vive, nella propria persona, tale limitazione insieme alla convinzione emozionale che non ha diritto allo "status di partner della comunità" come tutti gli altri. Questo spregio che il lavoratore mobbizzato subisce lo deruba, dal punto di vista del riconoscimento, della stima di sé legata alla consapevolezza di essere un soggetto morale che è in grado di intendere e di volere. Del resto, la capacità morale, osserva Honneth, si sviluppa come risultato di un processo di continue interazioni sociali (Honneth, tr. it. 1993, p. 22).
Nel terzo livello di "sfregio", che consiste nella negazione del riconoscimento del "valore sociale a singoli o gruppi", si raggiunge il culmine del "disprezzo" e dell' "offesa". E' questo lo si può percepire chiaramente, ancora una volta, quando un lavoratore viene mobbizzato, nelle strategie di svalutazione gruppale del branco nei suoi confronti. Nella negazione del "valore sociale" di una persona, l'aggressore, sia individuale che gruppale, mette in moto una strategia di svilimento atta a considerare il mobbizzato come un individuo inferiore o difettoso, come direbbe Honneth parlando del riconoscimento mancato o negato. In questo modo, il mobbizzato viene deprivato, dagli aggressori dell'ambiente di lavoro malato, del "valore sociale" delle sue capacità lavorative.
Il soggetto che subisce una svalutazione sociale vive così una perdita relativa al "rispetto di sé", venendo meno l'immagine che ha di se stesso "come un essere apprezzato nelle sue qualità e capacità caratteristiche". In questo modo, il terzo tipo di umiliazione provoca un danno in termini di riconoscimento che è relativo alla realizzazione di sé attraverso l'approvazione sociale. Il consenso da parte degli altri, d'altra parte, si costruisce con fatica grazie alla solidarietà che il singolo riceve dal gruppo di riferimento e che lo incoraggia nella sua forma di autorealizzazione (op. cit., p. 23). Da questo punto di vista, nel caso del mobbizzato accade che il gruppo di riferimento, nell'ambiente di lavoro, invece di valorizzare, incoraggiare, sostenere, dare solidarietà, tende, al contrario, a svalorizzare, scoraggiare, disprezzare, emarginare, rifiutare il soggetto preso di mira, che di solito è un lavoratore in gamba, ma che per qualche motivo legato alla sua peculiarità, differenziandosi dal conformismo distruttivo del gruppo, gruppo che soffoca le idiosincrasie individuali e costringe alla mediocre uniformazione del branco, si tiene a distanza e non socializza secondo il 'desiderio del gruppo', preferendo dedicarsi soltanto al suo lavoro. Certo, il lavoratore designato come capro espiatorio del gruppo ha le sue motivazioni per comportarsi con distacco, e gli altri non dovrebbero attaccarlo per come egli è, ma rispettarlo in quanto tale, come lui fa con costoro. Il modo come la vittima designata dal gruppo si comporta, non significa minimamente che ce l'abbia con il gruppo. Il gruppo invece distorce paranoicamente i modi di fare del lavoratore che mantiene le sue peculiarità individuale, e proprio per questo adotta una tattica per estrometterlo dal gruppo, o, almeno, mantenerlo ai suoi margini svalorizzandolo e facendolo soffrire con vessazioni sadiche nei suoi confronti, di cui tutti i membri del branco sono d'accordo e la cui decisione hanno preso alle sue spalle. Così, il lavoratore che vuole fare il suo lavoro e dedicarsi ad esso con serietà non può farlo in un'ambiente di lavoro malato di potere, in cui il controllo sociale del gruppo sui singoli membri vuole essere onnipotente e soffocante, mettendo in atto quelle forme patologiche di costrizioni organizzative che rendono impossibile lavorare con serenità al lavoratore stigmatizzato. Il gruppo non si rende conto che prroprio quel lavoratore che invece di ricevere apprezzamento ottiene ostilità, ci tiene tanto a cosa pensa il gruppo di lui, e che sarebbe pronto ad apprezzare anche loro. Le cose però non vanno in questo senso, anche per i tanti 'non detti' e per i fraintendimenti comunicativi che non vengono risolti in una comunicazione più franca e onesta. Il branco allora esercita su di lui delle ritorsioni mobbizzanti, nella misura in cui il lavoratore mobbizzato mantiene le sue caratteristiche individuali e non si uniformizza alle pressioni sociali del gruppo. Questo tipo di gruppo però sembra inconsapevole della propria malattia ambientale, malattia psichica gruppale, paranoica e perversa (sadismo istituzionale), a cui contribuiscono tutti i loro membri, soprattutto il personale dell'alta dirigenza.
I tre livelli, allora, in cui consiste il "riconoscimento negato" o "mancato" secondo Axil Honneth, li schematizzo nel seguente modo:
Riconoscimento negato
*Primo livello di sfregio/disprezzo/umiliazione della persona: maltrattamento fisico che impedisce di disporre in maniera autonoma del proprio corpo;
Riconoscimento negato
*Primo livello di sfregio/disprezzo/umiliazione della persona: maltrattamento fisico che impedisce di disporre in maniera autonoma del proprio corpo;
*Secondo livello di sfregio/disprezzo/umiliazione della persona: esclusione dal godimento dei diritti giuridici che la società garantisce ai suoi membri e che comporta un danno al rispetto di sé;
*Terzo livello di sfregio/disprezzo/umiliazione della persona: negazione del valore sociale del proprio Sé da parte dell'altro, individuo o gruppo che sia.
Passiamo, adesso, a trattare della pratica intersoggettiva del riconoscimento nelle relazioni salutari tra le persone che si trovano a vivere in contesti di vita favorevoli, sia nel loro mondo privato che nei contesti di lavoro. In questi ambienti positivi le persone riescono a praticare il riconoscimento reciproco, a vantaggio di tutti i soggetti che comunicano tra loro.
Jackson Pollock, Number 34, 1949, smalto su carta montata su pannello, 55,9 x 77,5 cm, 1949.
I tre livelli del riconoscimento
Il discorso di Honneth sui tre livelli favorevoli del riconoscimento, e che sono al servizio dello sviluppo della personalità e di un ambiente relazionale di benessere, non è estraneo a delle considerazioni psicologiche, e in particolare tiene conto del punto di vista della psicoanalisi delle relazioni oggettuali. Honneth intende pervenire a un'etica della buona vita, com'è nella tradizione della filosofia morale, ma arricchendo e innovando la prospettiva etica tenendo conto del punto di vista psicologico. Così, la prospettiva etica di Honneth della buona vita può essere formulata solo se si tiene presente la soddisfazione dei bisogni psicologici che favoriscono la "salute mentale".
L'amore, i bisogni, gli affetti, il contatto corporeo tra persone che si vogliono bene, rappresentano le motivazioni primarie della persona, perché dall'amore, che ha una base intersoggettiva, dipende lo sviluppo della fiducia in se stessi. A questo livello, la simpatia spontanea, gli affetti, l'attrazione, emergono tra persone che condividono dei legami interpersonali significativi. Così l'amore tra due coniugi, tra genitori e figli, tra amici. Questo tipo di riconoscimento si realizza quando le persone tra loro si corrispondono, si approvano, si incoraggiano. A questo livello del riconoscimento, le persone sentono, reciprocamente, dei sentimenti e si comunicano la stima che ognuno prova per l'altro, si fanno dei sinceri complimenti, e reciprocamente ci si sente crescere in valore personale. Questo primo livello di riconoscimento permette alla persona di sperimentarsi in senso positivo, di provare una sicurezza emozionale che ha radici nel corpo e che costituisce una precondizione fondamentale per sentire la fiducia di sé. Questo primo riconoscimento sta alla base dello sviluppo dei successivi atteggiamenti dell'autostima. Si tratta però di un riconoscimento circoscritto ai legami primari nella cerchia dei parenti, degli amici, della coppia. Questi legami, di tipo emotivo, si sottraggono alla sfera della razionalità e non possono essere moltiplicati a piacimento dalla volontà individuale. Questo primo livello fondamentale del riconoscimento non può allora essere generalizzato e obbedisce al principo del "particolarismo morale". (Honneth, tr. it. 1993, pp. 26-27).
A un secondo livello dell'intersoggettività del riconoscimento favorevole della persona, Honneth pone i diritti giuridici, ossia il riconoscimento giuridico. Questo tipo di riconoscimento permette di preservare il rispetto di sé. Questo secondo livello del riconoscimento favorevole riguarda la percezione di se stessi come soggetto morale capace di intendere e di volere.
Apro, adesso, una parentesi per accennare al bel saggio del sociologo Richard Sennett Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali (Sennett, 2003, tr. it. 2004). Scrive Sennett:
"La mancanza di rispetto, anche se meno aggressiva di un insulto diretto, può ferire in maniera altrettanto viva. Non c'è insulto, ma nemmeno riconoscimento; la persona coinvolta semplicemente non viene "vista" come essere umano pieno, la cui presenza conti qualcosa.
Quando una società tratta la massa della gente in questo modo, accordando solo a pochi il riconoscimento, crea una carenza di rispetto, quasi come se si trattasse di una sostanza troppo preziosa da far circolare. Al pari di altre carestie, anche questa è opera dell'uomo; ma a differenza del cibo, il rispetto non costa niente. Perché, allora, ne viene dispensato così poco?"
(Sennett, 2003, tr. it. 2004, p. 21).
Honneth considera il rispetto di sé una qualità non solo psicologica, ma anche morale. Solo se una persona si percepisce come soggetto morale che gode di diritti giuridici, per fare rispettare il proprio Sé, viene riconosciuta dagli altri pari a loro. Anche il riconoscimento giuridico viene a fare parte di quella "identità pratica" che si costruisce nell'intersoggettività delle relazioni e nell'allargamento delle cerchie sociali in cui diventano sempre più numerosi i propri interlocutori e le interazioni sociali di cui si nutre e si arricchisce la personalità. A questo secondo livello di riconoscimento vale il principio etico dell' "universalismo di principio" che si è affermato attraverso delle "battaglie storiche". Il soggetto apprende a mettersi nei panni dell'altro all'interno di una relazione caratterizzata dall reciprocità del riconoscimento. Il soggetto così si rende conto che, come l'altro, può rivendicare dei diritti per sé, ma si deve anche responsabilizzare di certi doveri. Qui Honneth richiama il concetto di G. H. Mead di "altro generalizzato" per rendere chiaro il discorso sul riconoscimento giuridico. Il soggetto e l'altro sono entrambi "persone giuridiche" che conoscono le stesse norme, attraverso cui, all'interno della comunità di cui fanno parte, regolano i loro rapporti giuridici in termini di diritti e doveri. Poter condividere le stesse norme all'interno della stessa comunità, percepire se stesso come gli altri in termini di diritti e doveri sul piano giuridico, favorisce l'assunzione di un "atteggiamento positivo" di fronte al riconoscimento normativo, e su questa base il soggetto sperimenta un senso di "autorispetto", la possibile che i suoi diritti si possano ampliare sia sul piano materiale che sociale, percependosi come soggetto morale capace di intendere e di volere. (op. cit., pp. 27-28).
Il terzo livello del riconoscimento favorevole è dato dal "valore sociale" che viene ad assumere il soggetto e la positiva socializzazione che egli viene ad avere con gli altri membri della sua comunità. In questo favorevole contesto di interazioni sociali, vengono valorizzati gli interessi culturali delle persone sulla base di un riconoscimento reciproco di solidarietà. Le persone crescono, si arricchiscono nella loro umanità, solo se ognuno per l'altro ha un valore sociale, solo se la personalità di ognuno viene reciprocamente riconosciuta. E' all'interno di questo campo di valore sociale reciproco che si alimenta l'autostima delle persone, che emerge una approvazione basata sulla solidarietà e un incoraggiamento reciproco. Ciò comporta che ognuno, all'interno della stessa comunità, deve potersi mettere nei panni dell'altro (v. il concetto di Mead dell' "altro generalizzato") per ricevere solidarietà e consenso. Ogni persona vuole che l'altro, su basi intersoggettive, riconosca la propria unicità di persona e la sua non-intercambiabilità con un altro, e questo considerando che anche il proprio interlocutore desidera la solidarietà dello stesso riconoscimento reciproco. A questo terzo livello di riconoscimento favorevole, si pone così un fattore di natura affettiva che è la "partecipazione solidale". Quando un soggetto viene riconosciuto come persona individuata, con una sua biografia, stimata dalla persone con cui ha delle relazioni significative, allora può facilmente identificarsi con le sue stesse risorse e accrescere la sua autostima. In questo quadro concettuale che concerne il terzo tipo di riconoscimento, Honneth osserva che le persone riconoscono l'altro per la sua unicità, ponendosi tuttavia tutti sullo stesso piano egualitario. In questo senso, il principio etico che viene formulato da Honnet per questo terzo livello di riconoscimento è la "differenza egualitaria".
Riassumo, adesso, in uno schema i tre livelli del riconoscimento favorevole di Honneth che stanno alla base dell'etica della buona vita:
Riconoscimento
*Primo livello del riconoscimento:
Sentimento di base: fiducia in se stessi;
Relazione fondamentale: l'amore;
Principio etico: particolarismo morale.
*Secondo livello del riconoscimento:
Sentimento di base: il rispetto di sé;
Relazione fondamentale: diritti giuridici;
Principio etico: universalismo di principio.
*Terzo livello del riconoscimento:
Sentimento di base: autostima;
Relazione fondamentale: solidarietà;
Principio etico: differenza egualitaria.
Le persone che immaginano, pensano, riflettono e interagiscono secondo i tre livelli di riconoscimento favorevole stanno bene con se stesse sul piano della "salute mentale" e creano delle buone relazioni intersoggettive. Si tratta di precondizioni psicologiche fondamentali che contribuiscono alla costituzione di un'etica della buona vita. In questo senso, l'etica del riconoscimento è in sintonia, a mio avviso, con le linee guida sulla "salute mentale" stabilite alla Conferenza di Helsinki del 2005 dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e che promuovono la prevenzione contro ogni forma di stigma ed esclusione delle persone dal loro ambiente sociale e da quello lavorativo, in quanto, come recita l'affermazione fondamentale di quella cconferenza, 'non c'è salute se non c'è salute mentale'. Da qui l'importanza dell'etica nei comportamenti umani basata sul sapere psicologico, come lo stesso Honneth ha saputo formulare nella sua etica del riconoscimento.
Un altro discorso è invece il fatto che tali linee guida non vengono 'incarnate' dagli operatori della "salute mentale" nella loro prassi quotidiana negli ambienti di lavoro, che ancora considerano irrilevanti i fattori ambientali per la "salute mentale", a partire da come loro stessi si comportano con i colleghi, se non con i pazienti. Se fosse ancora vivo Winnicott e se lavorasse in Italia, sicuramente ne farebbe una polemica, come del resto Gregory Bateson, entrambi difensori dei fattori ambientali. Il secondo, poi, ben consapevole delle conseguenze negative relative alle scissioni tra l'uomo e l'ambiente. Questo vale sia in senso psicologico che extra psicologico. Gli scempi della natura provocati dall'uomo, per esempio, hanno portato ai disastri ecologici che sappiamo come l'effetto serra, il buco dell'ozono, lo scioglimento dei ghiacciai, lo stravolgimento del clima, la trasformazione del pianeta in una discarica dei rifiuti. Sull'emergere di tali disastri, l' irresponsabilità dell'uomo e della sua tecnica (v. i contributi del filosofo Umberto Galimberti sulle problematiche che concernono l' "era della tecnica") è senz'altro quasi totale.
Jackson Pollock, Number 17, 1949, smalto e pittura d'alluminio su carta montata su pannello, 57,2 x 72,4 cm, 1949.
Note sul potere perverso e diniego del riconoscimento reciproco
Ogni forma di potere che minaccia l'etica del riconoscimento, etica della reciprocità intersoggettiva che sta alla base della buona vita, rappresenta un rischio nei confronti della "salute mentale". Il potere patologico può essere esercitato su piani differenti del sociale, dal livello macro-relazionale a quello micro-relazionale. Nel primo caso abbiamo a che fare con gli abusi di potere che si agiscono ai piani alti della politica istituzionale di un Paese, mentre nel secondo caso abbiamo a che fare con gli abusi di potere che avvengono, soprattutto nella vita privata (relazione tra partner, relazione tra genitori, relazione tra genitori e figli, relazioni tra amici, relazioni tra conoscenti e non conoscenti). Naturalmente, tra questi due poli estremi ci mettiamo di mezzo, come lungo un continuum, gli abusi di potere che coinvolgono le gradazioni intermedie di relazioni e che interessano le istituzioni locali degli agglomerati urbani e le dinamiche che si sviluppano tra le persone che chiedono la soddisfazione dei loro bisogni/desideri e la controparte che ha il potere di soddisfarli ma a certe condizioni. Queste 'condizioni' non sempre sono trasparenti, e possono sfruttare la richiesta dell'altro al fine di soddisfare gli interessi egoistici, le pulsioni personali o il sadismo di cui è malata la "volontà di potenza" del soggetto 'più forte' nella relazione con la controparte.
Purtroppo, le istituzioni malate di potere, come osserva il sociologo Franco Crespi (Crespi, 2004), invece di favorire lo sviluppo della personalità, l'emancipazione e l'autonomia dei suoi dipendenti, anche per motivarli a una migliore qualità del lavoro, adottano una psicologia dell'asservimento morale, al fine di renderli il più possibile dipendenti dall'istituzione, di conseguenza più conformisti. In questo modo, l'istituzione malata di potere, per avere 'potere sull'altro', tenta di infantilizzare il dipendente attraverso l'autoritarismo e il paternalismo - stili di leadership arcaici e distruttivi per la persona adulta - al fine di accrescere le costrizioni organizzative della dipendenza al servizio dell'alta dirigenza, nonostante tutto quello che gli studiosi della psicologia e della sociologia del lavoro (per esempio, gli specialisti in management Cynthia D. Scott e Dennis T. Jaffe; la psicologa Donata Francescato; il sociologo Domenico De Masi) hanno detto sull'importanza dell'empowerment e del miglioramento degli ambienti di lavoro affinché ogni lavoratore possa gestire i suoi compiti istituzionali nel miglior modo possibile, motivati al lavoro proprio perché valorizzati dall'alta dirigenza e dalla stima del riconoscimento reciproco tra colleghi.
Se non è l'ambiente di lavoro a cambiare, se l'ambiente di lavoro è patologizzato da un'alta dirigenza mediocre, paternalistica e autoritaria che non sa gestire la leadership in funzione dell'emancipazione psicologica e del benessere dei lavoratori, che agisce, invece, per asservirli anche con vessazioni relazionali organizzate alle spalle dei lavoratori stessi, presi di mira soprattutto perché non si 'adattano' alla psicopatologia del gruppo, vessazioni messe in atto, in maniera furbesca e delinquenziale, dai mobber (gli aggressori) e dai loro complici vigliacchi, tra cui i cosiddetti 'spettatori', secondo un copione concordato in assenza del lavoratore eletto a 'capro espiatorio', allora questo tipo di istituzione, almeno a livello circoscritto di un'area 'locale' di relazioni, non può 'funzionare' che nel modo più perverso a livello relazionale. La cosa più triste e deprimente si ha quando le vessazioni nei confronti di un lavoratore si attuano con la complicità tra l'élite apicale e il massimo responsabile dell'istituzione, da una parte, e gli alti dirigenti con cui il lavoratore preso di mira ha a che fare nei rapporti di lavoro quotidiani o a intervalli periodici. Quando accade questo, è tutta l'istituzione che ha dei grossi problemi psicopatologici. Il paradosso è che proprio gli ambienti di lavoro più patologizzati sono quelli che negano ogni loro responsabilità rispetto agli agiti da copione mobbizzanti, a partire dagli alti dirigenti.
L'incontro tra il soggetto 'più forte' e il soggetto 'più debole' può verificarsi o nel rispetto dell'etica della relazione o nella sua perversione quando si vuole trarre vantaggio, più o meno discutibile o illecito, dalla disparità e asimmetria delle due posizioni. Di solito è il soggetto 'più forte' quello che perverte la relazione al fine di soddisfare un suo bisogno/desiderio egoistico, abusando del suo potere. Accade però che il soggetto 'più debole', in tal caso, possa aderire al pervertimento relazionale del soggetto 'più forte' invece di denunciarne l'abuso, abdicando alla sua dimensione morale. In questo caso, i due soggetti complementari del copione perverso diventano complici della trama di abuso, di cui vengono a condividiere il disegno, anche se è soltanto uno di loro due il responsabile che ha preso l'iniziativa. Nel caso del potere perverso che si insinua nella relazione intersoggettiva, il riconoscimento reciproco dei soggetti subisce un'alterazione ai danni del principio etico dell'eguaglianza nella differenza. La solidarietà viene abbandonata al posto dello sfruttamento del soggetto 'più debole' da parte del soggetto 'più forte'. Il soggetto 'più debole', di fronte alle pressioni asimmetriche del soggetto 'più forte' che detiene il potere di soddisfare i suoi bisogni/desideri, si trova in una condizione in cui non riesce a negoziare le richieste da una posizione 'alla pari', per cui può soccombere all'egoismo del 'più forte', cedendo sul piano delle richieste d'abuso di quest'ultimo. E' quello che, per esempio, alcuni anni fa successe a una giovane stellina dello spettacolo quando chiese un lavoro in una rete televisiva a un politico di governo, cedendo in cambio delle prestazioni sessuali. Il fatto si venne a sapere e comparve sui giornali. Purtroppo non si tratta di un caso isolato, e nelle istituzioni malate di potere queste cose, anche extra sessuali e che riguardano altri intrighi, sono all'ordine del giorno.
Jackson Pollock, Number 13, 1949, olio, smalto e pittura d'alluminio su carta montata su pannello, 57,8 x 78,4 cm, 1949.
Una breve riflessione di congedo
Ovviamente non ci può essere nessuna conclusione rispetto a un argomento così di ampio respiro come quello che ho abbozzato qui. Mi limiterò soltanto, in questo congedo, a osservare che per tutto il ciclo di vita abbiamo bisogno di relazioni favorevoli di riconoscimento basate sulla reciprocità, come in fondo credo che si è intuito considerando l'intero presente lavoro. Vorrei ricordare che il filosofo Paul Ricoeur è rimasto sensibilmente commosso dalla "psicologia del Sé" di Heinz Kohut, rispetto l'affermazione che per tutta la vita noi esseri umani abbiamo bisogno, l'uno con l'altro, di relazioni di sostegno, relazioni che aiutano, in maniera significativa, a realizzarci nei nostri progetti di creatività. E questo grazie anche alle persone che per noi sono care e significative, che ci incoraggiano ad esprimere il nostro potenziale umano. (Vedi Zanardo, in 2004, Bonan, Vigna, a cura di, p. 306, nota 9). Naturalmente questo vale in una prospettiva intersoggettiva, nel senso che la persona che viene incoraggiata e verso cui si nutre rispetto e stima, a sua volta incoraggia, ha rispetto e stima delle persone a lei significative. Questo, a mio avviso, non vale soltanto nella sfera della vita privata, ma anche nelle relazioni pubbliche, comprese le relazioni che si coltivano negli ambienti di lavoro. Non è raro che in certi saggi importanti l'autore formuli note di ringraziamento rivolte alle persone che lo hanno sostenuto nel corso del suo lavoro di ricerca e di stesura dello scritto poi pubblicato. In fondo, noi tutti dovremmno fare così, l'uno con l'altro e viceversa, in una cultura non abbrutita dall'individualismo e dal narcisismo distruttivi. Sappiamo, grazie al lavoro di Kohut, che c'è anche un "narcisimo sano", ma esso è quello che si esplica nell'espressione della parte migliore di noi, nelle opere della creatività e della bellezza.
Rispetto alle relazioni e alle interazioni nei contesti lavorativi, occorre, a mio avviso, una pedagogia della reciprocità del riconoscimento affinché si impari a rispettarsi a vicenda, invece di 'recitare' dei ruoli in maniera dissociata, per cui ci si mette una maschera 'relazionale' per interagire sul piano della banalità e della falsità difensiva. Necessitiamo invece di relazioni genuine, perché solo attraverso di esse possiamo crescere mentalmente. Ogni persona, per noi stessi e per l'altra, è un'opportunità di crescita, arricchimento umano, a patto, però, che non ci sia bisogno di 'difendersi dall'altro' in maniera inappropriata, che ci si apra a un rapporto "Io-Tu" che comporta l'accettazione reciproca.
Purtroppo, nel mondo patologizzato entrano in scena relazioni false e manipolatorie, viene esercitato un potere per mettere in difficoltà l'altro, per sfruttarlo intuendo le sue debolezze e traendone un proprio vantaggio, ma restituendo in cambio qualche concessione in termine di 'adesso qui io conto di più' (nel contesto delle relazioni di lavoro, per esempio, un alto dirigente che considera l'istituzione in cui lavora come se fosse di sua proprietà, soltanto perché ne è responsabile, può favorire un'operatrice frustrata di basso livello se in cambio si concede sessualmente). In questo tipo di istituzione 'il potere sull'altro' è una prassi quotidiana, così come le cattiverie machiavelliche perpetrate alle spalle di un lavoratore preso di mira. La 'relazione genuina', basata sul rispetto reciproco, in un contesto di relazioni corrotte è simile alla metafora dell'ago nel pagliaio che si vuole trovare, ma in una ricerca vana.
Occorre, dunque, se si vuole favorire un cambiamento migliorativo delle relazioni, che un ambiente di lavoro si metta in discussione, e non questo o quel soggetto. Se si vogliono costruire relazioni umane che siano basate su una 'sana' intersoggettività reciproca, è tutto il contesto interattivo che ha bisogno di sintonizzarsi secondo una prassi di riconoscimento che riveli, nel suo fondo, un'orientamento etico di rispetto, solidarietà e stima tra le persone. Se viene meno ciò, allora c'è qualcosa che non va e si cade nella corruzione relazionale e nei suoi abusi.
Qualcuno penserà che sono un 'ingenuo' a dire queste cose, o che sto accennando a qualche illusoria 'utopia', e che non si può 'raddrizzare il legno storto', pena la sua rottura. Il 'legno storto', che è in ognuno di noi, va accettato così com'è, qualcuno dirà, e che non esiste nessuna perfezione. Sono d'accordo, anche se questo 'ragionamento' ha un suo limite. Il punto non è però la 'perfezione individuale'. Certo, ci sono pratiche psicologiche e filosofiche che aiutano la persona a convivere meglio con il 'lato oscuro' della propria personalità.
Occorre però tenere presente quanto afferma il sociologo Frank Furedi a proposito del "nuovo conformismo" (Furedi, 2004, tr. it. 2005), quel conformismo che proviene da un'eccesso di psicologia nel tessuto sociale e che provoca una sorta di riduzionismo dei problemi della vita, inquadrandoli tutti in termini di un disagio che è di natura psicologica e che propone come risposta un trattamento psicoterapico, oppure una medicalizzazione psichiatrica. Furedi insorge contro questo modo di guardare ai problemi della vita, che invece vanno considerati anche e soprattutto in chiave di quel 'sociale' che occorre ripristinare, e che invece il neoliberismo ha rimosso. In questo senso, occorrono dei cambiamenti politici, economici, culturali, che ci portino a vivere un sociale 'a misura d'uomo'. Il neoliberismo di sicuro ci ha allontanato da questa prospettiva ottimale, perché per esso non esiste la società, ma solo gli individui, e al massimo le famiglie (come era convinzione di Margaret Tatcher negli anni '70 del XX secolo). Il socialismo (non quello "reale" dei Paesi dell'Est, ma quello più genuinamente umanista) era, al contrario, più vicino a vivere secondo relazioni umane di responsabilità reciproca. La socialdemocrazia svedese, per esempio, è stata quella che, nella seconda metà del XX secolo, pare che si sia avvicinata di più all''utopia' socialista di uno Stato che si pone al servizio dei cittadini, che si adopera per favorire le migliori istituzioni sociali e garantisce anche i diritti fondamentali degli individui.
Tutti noi esseri umani abbiamo bisogno di relazionarci reciprocamente. La nostra mente è, in buona parte, una vita di relazioni interiorizzate e private con cui il Sé-Io dialoga con i propri "oggetti" in solitudine. Un'altra parte di essa si nutre di relazioni sociali nel "mondo-della-vita". La mente, d'altra parte, costituita da un insieme di facoltà proprie (sensazione, percezione, memoria, immaginazione, sentimenti ed emozioni, pensiero, riflessione, umorismo, le intelligenze multiple di Howard Gardner, i sogni e altro ancora) entra in un rapporto metaforico e simbolico con tutto il materiale psichico che riceve dal mondo esterno. La personalità coordina il funzionamento di questi modi di essere della mente. Del resto, la mente può funzionare a livello "metaforico" oppure "letterale" (Hillman). Nel primo caso, la mente si 'psicologizza', mentre nel secondo viene abolita la metafora, e ciò che si 'pensa' poi si 'fa' (acting out), oppure ogni cosa che si dice viene intesa senza rimandare a un significato psicologico, senza coglierne lo spessore d'anima. Abbiamo bisogno, d'altra parte, di incanalare le nostre risorse personali nell'espressione della nostra personalità, che non è altro che il modo unico, per ogni persona umana, di essere una individualità.
George Simmel chiama "socievolezza" quel modo di entrare in relazione con gli altri senza nessun scopo egoistico, ma per amore di comunicare 'per gioco', in quanto nel comunicare con l'altro, senza fini secondari, noi ci realizziamo espressivamente, e ciò richiede, come precisa Simmel, un'arte della comunicazione, o, come direbbe Blaise Pascal, un'esprit de finesse. Si tratta di realizzare quelle 'relazioni leggere' che mettono da parte ogni elemento individuale, e dove si trova piacere nel farsi della 'comunicazione espressiva'. Ciò risulta incomprensibile per gli individui che limitano l'orizzonte delle loro relazioni alla 'seriosità'. Invece le 'relazioni leggere' favoriscono il riconoscimento reciproco tra le persone, al contrario delle 'relazioni pesanti' che nelle forme peggiori scadono in derive di "riconoscimento negato", come umiliazioni del prossimo che si potrebbero benissimo evitare.
Jackson Pollock, Senza titolo (Green Silver), smalto e pittura d'alluminio su carta montata su tela, 57,8 x 78,1 cm, 1949.
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