sabato 6 giugno 2009

Conflitto e coinvolgimento solidale nella modernità narcisista

INDICE DEI PARAGRAFI

  • La Prima Grande Depressione Economica del XXI secolo
  • Conseguenze psicologiche della modernità narcisista
  • Conflitto, scontro, ricerca di una coerenza del vivere tra identità personale e libertà
  • La pratica della solidarietà attraverso il conflitto
  • Conflitto e vita
  • Riflessione di congedo
  • Riferimenti bibliografici


La Prima grande Depressione Economica del XXI secolo

La crisi economica mondiale legata alle speculazioni della finanza creativa, a un turbocapitalismo dagli interessi grettamente narcisistici, slegato dallo sviluppo industriale e lavorativo del territorio nei confronti del quale ha assunto un atteggiamento di grave cinismo egoistico, si è configurato nella centralità delle banche disoneste coinvolte in operazioni azionarie fasulle, i mutui subprime, i facili prestiti bancari. Le banche che poi sono fallite negli Usa, una dopo l'altra, hanno coinvolto nella crisi economica e finanziaria anche l'Ue e gli altri Paesi del mondo.
Diversi osservatori hanno interpretato tale crisi come dovuta all'avidità della ricchezza economica da parte dei capitalisti con scarsa propensione all'etica, ossia la maggioranza. La corruzione ha coinvolto i vari poteri in gioco. La globalizzazione economica ben presto ha mostrato i suoi frutti velenosi e le conseguenze catastrofiche mondiali, mettendo in ginocchio i vari Stati-nazione e portando le élite governative sull'orlo di una crisi di nervi, non sapendo quale strategia politica adottare per arginare la crisi in atto, diventata simile
a una nave piena di falle, che quando tenti di chiuderne una ecco che se ne apre un'altra immediatamente dopo.
Il cinismo capitalista delle buone intenzioni in realtà ha aperto altri sentieri per l'inferno, un inferno da cui le borse mondiali non hanno fatto altro che registrare crolli, un giorno dopo l'altro. George Walter Bush, ossia il precedente presidente degli Stati Uniti, ha dato un notevole contributo al dissesto delle economie mondiali, oltre a mettere in ginocchio il suo stesso Paese. Bush junior si è mostrato paladino del pensiero unico conservatore, a favore degli interessi dei ricchi, ha abbondantemente tradito la pratica della democrazia, portando avanti una leadership autoritaria che fungeva da paravento rispetto a chi esercitava effettivamente il potere vero, ossia lo staff dei suoi più stretti collaboratori.
Naomi Klein ha parlato efficacemente e dettagliatamente di tutto questo nel suo notevole saggio Shock Economy ( Klein, 2007, tr. it. 2007). Lo psicologo israeliano Daniel Kahneman, che nel 2002 ha ricevuto il Premio Nobel per l'Economia, in una intervista insieme all'economista italiano Marcello De Cecco, ha osservato che gli Stati Uniti sono non solo amanti del rischio, ma anche orientati verso un esagerato "individualismo egoista", dando un'enorme importanza al denaro. (Occorsio, 2009, in la Repubblica Affari & Finanza, pp. 1 e 6-7.
Con la svolta alla presidenza degli Stati Uniti del professor Barack Obama, a partire da gennaio 2009, le cose stanno cambiando in direzione opposta rispetto alla politica neoliberista, e si spera che nel 2010 l'economia mondiale, grazie agli interventi di risanamento, dovrebbe uscire fuori dal tunnel della Prima Grande Depressione Economica del XXI secolo.
Intanto, diverse pubblicazioni saggistiche cercano di dare forma alle differenti mentalità che caratterizzano la Weltanschauung dei ricchi, dei "capitalisti egoisti", per dirla con lo psicologo Oliver James (James, 2007, tr. it. 2008; James, 2008, tr. it. 2009), e la possibilità di inaugurare una forma di "capitalismo sociale" orientato verso una gestione etica della ricchezza economica o, come direbbe l'israeliano Jacob Burak, nelle parole del giornalista Nessia Laniado, "promuovere una nuova etica di business con responsabilità sociale" (Laniado, 2009, in la Repubblica delle Donne, 23 maggio, p. 69). In questo modo, si creerebbero posti di lavoro che durino nel tempo e facendola finita con l'invenzione capitalistica del deleterio "lavoro flessibile" che distrugge le identità dei lavoratori (Sennett, 1998, tr. it. 1999).
Jean-Paul Fitoussi ed Eloi Laurent (Fitoussi, Laurent, 2008, tr. it. 2009) rispetto alla crisi del XXI secolo del supercapitalismo, che sta provocando un terremoto alle fondamenta stesse delle discipline economiche, formulano delle interessanti riflessioni per una svolta alternativa ad esso. A partire da questa crisi, osservano i due Autori, occorre ripensare a uno sviluppo differente, rimettendo in discussione ciò che ormai era diventato il senso comune del modo di fare economia. Gli Autori sostengono che occorre una "economia aperta", cioè una economia che prenda sul serio gli aspetti sociali, politici, ambientali della realtà. Esiste una relazione tra "ecologia, giustizia sociale e democrazia" e che riguarda il rapporto tra i "mezzi di sussistenza" e il "diritto a sussistere", e questa consapevolezza deriva dalla crisi che stiamo attraversando rispetto all'alimentazione e all'energia, a livello mondiale. Bisogna lottare, allora, per uno sviluppo sostenibile democratico, perché solo ciò potrà permettere a tutti "il diritto di sussistere".
Tuttavia, il saggio della filosofa Michela Marzano (Marzano, 2008, tr. it. 2009) registra, nella sua ricerca, dei dati sconfortanti rispetto alla mentalità attuale del management. Sembra che i manager non hanno nessuna intenzione di cambiare rotta di fronte alla crisi economica che stiamo attraversando. Alla Renault ci sono stati diversi casi di lavoratori che si sono suicidati. La direzione si è difesa sostenendo che non c'è nessuna correlazione tra il gesto insano di quei lavoratori e il clima aziendale della loro casa automobilistica. Opportune verifiche invece hanno dimostrato che questa correlazione c'è, e che il suicidio di quei lavoratori in casa Renault è dovuto al cattivo clima organizzativo dell'azienda, basato su un esasperato individualismo competitivo e nel far coincidere la vita con il lavoro! Si tratta di una degenerazione psicologico-sociale relativa alla mentalità capitalistica, che occorre cambiare. Il lavoro non è il fine della vita, ma semmai un mezzo per vivere la propria esistenza al di fuori dell'ambiente di lavoro. Nella mentalità manageriale attuale, invece, si vuole fare coincidere, ideologicamente, che il senso della vita non può che essere assorbito totalmente dal lavoro, e che solo nel lavoro la vita assume l'unico senso possibile dell'esistenza. Si tratta di una perversione morale che imperversa negli ambienti di lavoro e che ha come obiettivo quello di controllare socialmente, in modo sottile, i lavoratori, dando luogo a non pochi disastri nei rapporti interpersonali vissuti come coercitivi, obbligatori, quanto esasperanti, che tentano di strozzare quella libertà personale che caratterizza le singole vite umane e di cui ognuno non può fare a meno se vuole vivere come essere umano, mentre la coercizione relazionale non fa che accrescere quella alienazione, già talmente pervasiva, che è presente nel modo di vivere nella società tecnologica, nel suo, per dirla con Luigi Zoja, "inconscio culturale" (Zoja, 2009b).
Conseguenze psicologiche della modernità narcisista
Lo psicoanalista junghiano Luigi Zoja (Zoja, 2009a) osserva che nel mondo in cui viviamo è morto il prossimo. Nel mondo pre-tecnologico, dice Zoja, prevaleva la vicinanza con gli altri, nel mondo dominato da Internet invece prevale la lontananza. Così, nella modernità del XXI secolo prevale "il rapporto mediato e mediatico", il deserto relazionale provoca una situazione caratterizzata dal fatto che "non abbiamo più nessuno da amare". Zoja osserva che l'alienazione oggi sembra che sia scomparsa dal mondo. Un tempo si diceva che l'operaio era alienato nel suo lavoro ripetitivo. Il singolo pezzo che l'operaio realizzava alla catena di montaggio, era l'unico compito che doveva svolgere, mentre gli sfuggiva a che cosa quel pezzo potesse servire nel disegno complessivo della produzione. Zoja tuttavia sostiene che oggi non si parla che raramente di "alienazione" perché essa è dapperttutto. Sono alienati anche gli imprenditori, e non solo gli operai, perché è alienato ogni membro della società. Se prima c'era amore per gli oggetti prodotti, oggi c'è disamore. Agli imprenditori gli oggetti prodotti sono indifferenti. L'unica cosa a cui sono 'sensibili' sono invece i soldi! (Zoja, 2009a, pp. 24-27). Le aziende capitalistiche della società post-industriale, sottolinea Zoja, soffrono di una "psicopatia industriale" (corporate psychopathy) per la loro elevata disumanità (ibidem, pp. 27-34). Così viviamo una "inflazione della distanza".
Lo psicoanalista Adam Phillips e la storica Barbara Taylor (Phillips, Taylor, 2009, tr. it. 2009) considerano il coraggio e la gentilezza anche in termini storici, oltre che psicoanalitici. Riconoscono al filosofo Thomas Hobbes il 'merito' di aver inaugurato la concezione filosofica basata sull'homo homini lupus, dunque della lotta per il potere e della vittoria del più cinico, competitivo, individualista. Hobbes è convinto che questa sia la dimensione fondamentale della "natura umana". D'altra parte, il filosofo David Hume, contemporaneo di Hobbes, disse che l'essere umano non è tale se non vive la sua realtà emotiva, e questo si contrappone al cinismo di Hobbes. Adam Phillips fa derivare i traumi psichici, che ci si porta dentro anche da adulti, da un'infanzia non-gentile che il bambino ha avuto rispetto alle sue figure di attaccamento, in particolare i genitori (ma non solo loro, ovviamente). I due studiosi britannici osservano che la gentilezza invece di essere considerata una qualità favorevole, nel modo di essere della persona nelle relazioni umane, nell'epoca in cui viviamo viene considerata una debolezza, naturalmente a torto.
Nella società del turbocapitalismo, caratterizzata dalla competizione aggressiva, dall'individualismo radicale, dall'egoismo narcisistico, che pratica perversioni morali nelle relazioni (il provocare, l'infastidire, il vessare, il molestare), e non solo sessuali, la paranoia è normalizzata come modo di essere nei rapporti di potere istituzionali. In contesti istituzionali del genere, come può essere considerata una qualità dell'essere come la "gentilezza", se non come un modo d'essere di altri tempi, se mai si è stati gentili, un modo d'essere scarsamente virile e che non aiuta nella guerra della competizione sul lavoro, in politica, in economia e in ogni altro ambito delle relazioni umane, per cui la "gentilezza" viene rimossa dal campo d'interazione.
Gli esseri umani traumatizzati, dall'infanzia in poi, diventano dei 'guerrieri della vita' che hanno negato i buchi neri della loro personalità, diventando duri e insensibili, considerando 'sciocchezze per signorine' il coltivare tra simili la gentilezza, perché i 'simili' possono essere dei 'nemici' con cui combattere una guerra senza esclusione di colpi. La paranoia impregna così le relazioni umane nelle sue varie forme. Nel bullismo, nello stalking, nel mobbing, nell'ideologia della guerra, cosa c'è se non ansie persecutorie, ben studiate da Melanie Klein, e dove l'altro è il 'nemico' da cui guardarsi e/o combattere?
La lotta di classe, di marxiana memoria, per esempio, è intrisa di paranoia, dove il 'conflitto', di per sé fisiologico sia in ogni essere umano che nelle lotte sociali, si trasforma in scontro distruttivo nei confronti del nemico. La politica è piena di paranoici, basta pensare all'ex presidente degli Stati Uniti George Walter Bush che ha inventato, insieme alla sua amministrazione governativa, gli "Stati canaglia", scindendo il pianeta in 'buoni' e 'cattivi'. Naturalmente, gli "Stati canaglia" si mettono tra i 'nemici' da combattere. Bush junior ha avuto bisogno di mettere in atto la sua paranoia e questo intento gli è riuscito con l'invasione dell'Iraq, giustificando questa azione di guerra con la menzogna che quel Paese avesse delle armi di distruzione di massa e che così mettesse a repentaglio la sicurezza dell'Occidente, e dunque degli Stati Uniti. Il resto lo sappiamo, è storia recente. Così, Bush è l'esempio più radicale di individuo anti-solidale con il prossimo. E' l'archetipo impersonificato dell'egoismo stesso.
Se nel mondo ci sarà una svolta nel modo di intendere la politica, l'economia, le relazioni donna-uomo, l'ecologia, e altro ancora, non potrà che orientarsi verso la solidarietà tra gli esseri umani. La politica del professor Barack Obama, in questo senso, sembra promettente. Diffondere la solidarietà nelle relazioni internazionali tra gli Stati-nazione e all'interno di ognuno di questi nei rapporti interpersonali quotidiani comporta la possibilità di inaugurare un nuovo modo di intendere il "senso comune" (v. Bauman, 1976, tr. it. 1982; Jedlowski, 2008), le evidenze dell'"ovvietà" nei vari microcontesti relazionali (famiglia, lavoro, amicizia, volontariato, e altro). Si tratta anche di costruire le basi psicologiche, politiche e sociali affinché la solidarietà diventi un elemento fondamentale delle istituzioni in senso generale. D'altra parte, la solidarietà tra gli esseri umani si costruisce se le relazioni interpersonali sono praticate nel segno del bene comune, secondo un'etica che include tutti gli esseri umani, promuovendo un'etica della solidarietà. In questo senso, bisogna riabilitare il "prossimo", resuscitarlo dalla sua "morte", come invece sarebbe la sua condizione attuale secondo la percezione di Luigi Zoja (Zoja, 2009a). La solidarietà comporta anche la comprensione adeguata di cosa sia la "gentilezza" e riabitarla nelle relazioni umane, per ridurre il più possibile le occasioni traumatologiche nelle famiglie nei confronti dei figli (v. Phillips, Taylor, 2009, tr. it. 2009). Del resto, il quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso considera, nei suoi scritti, l'importanza della "gentilezza" nei rapporti interpersonali.
Conflitto, scontro, ricerca di una coerenza del vivere tra identità personale e libertà
La psicoanalisi si è occupata del conflitto intrapsichico e dei suoi destini. Nel caso in cui il conflitto interiore tra le istanze psichiche (Es, Io, Super-io, principio di realtà) rimane irrisolto, le conseguenze che si profilano sono il disturbo mentale o l'acting out, l'uso di difese meno evolute. Nel caso in cui, al contrario, il conflitto viene elaborato mentalmente, allora viene sciolta la contrapposizione tra le istanze psichiche e l'esito del conflitto può essere una sublimazione (per esempio, il fare artistico), un nuovo atteggiamento nei confronti della realtà esterna, capace di superare le difficoltà di adattamento nei vari contesti ambientali, l'uso di meccanismi di difesa evoluti come l'umorismo, l'anticipazione degli eventi, l'autosservazione, l'autoaffermazione (comportamento autoassertivo), comportamento altruistico, l'affiliazione (entrare in un rapporto di aiuto, di sostegno, di consiglio, con gli altri, di confidenza). (v. Lingiardi, Madeddu, 1994).
Tra le difese evolute, dunque, troviamo anche l'altruismo. Altruismo però non è solo una forma di difesa evoluta, ma anche un sentimento e un comportamento approvato socialmente. L'altruismo viene valorizzato dalle religioni, ha una sua nobiltà politica, militare, nei comportamenti all'interno di una famiglia, di un aggregato sociale di varia natura. L'altruismo lo troviamo nella forma dell'abnegazione, della solidarietà, dei comportamenti in cui diamo valore all'altro prima di darlo al nostro egoismo. Anche la generosità è una forma di altruismo, la capacità di essere gentili. Far sedere una donna incinta o una persona anziana in un sedile di un bus, piuttosto che sederci noi, è una forma di gentilezza, di piccolo altruismo. Eppure, spesso assistiamo a forme di egoismo cinico e nei confronti degli altri si mostra indifferenza, se non di cattiveria gratuita.
Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista argentino, trapiantato in Francia, distingue tra conflitto e scontro. Osserva che il conflitto è un atteggiamento costruttivo contro le ingiustizie, mentre lo scontro no, perché può essere distruttivo. Il conflitto, egli sostiene, è in ognuno di noi e nella realtà delle cose, per cui dobbiamo farcene carico. Scrive Benasayag:
"Invece di temere il conflitto dovremmo cercarlo: perché rappresenta la vita. La nostra società lo nega, e lo riduce a uno scontro violento, negativo, da debellare, reprimere. Ma respingendolo si creano solo scontri. Quali legami possiamo mai creare se non sviluppiamo la capacità di tollerare il conflitto, la capacità di non trasformarlo in scontro? Il conflitto è dentro di noi, è nel rapporto con l'altro, è in rapporto alla vita. Non tollerandolo ci condanniamo a uno scontro permanente. Eppure bisognerebbe guardarlo in chiave positiva: capire cosa farne, cioè entro quali limiti esso può manifestarsi e con quali mezzi deve essere affrontato."
(Benasayag, 2009, "Può funzionare una società senza conflitti?", in la Repubblica delle Donne, 23 maggio, p. 23).
Miguel Benasayag e Angélique Del Rey, filosofa, hanno pubblicato insieme un saggio dal titolo, in italiano, Elogio del conflitto (Benasayag, Del Rey, 2007, tr. it. 2008), da cui il primo dei due Autori ha tratto le tesi fondamentali del suo articolo per la rivista su menzionata. Nel loro saggio, gli Autori considerano il conflitto come "una dimensione fisiologica della convivenza: negarlo significa minare le sue stesse basi."
Un conflitto fondamentale che ogni persona si trova a dover affrontare è quello tra l'identità e la libertà, come osserva il filosofo e psicologo junghiano Umberto Galimberti. L'identità personale ha le sue radici fondamentali nelle basi caratteriali che si formano entro i primi anni di vita. L'animale, prosegue Galimberti nel suo ragionamento, ha un codice genetico riassunto nel termine istinto, per cui sa già comportarsi in base a questo programma biologico dato. L'uomo, invece, non è un essere istintivo, per cui ha bisogno di una formazione educativa che si prolunga nel tempo al fine di apprendere le mappe cognitive basilari per orientarsi all'interno della sua sociocultura. Così, la libertà nasce "dall'indeterminazione" della biologia dell'uomo. Secondo il filosofo italiano, tra identità personale e libertà non può che esserci un conflitto permanente irrisolvibile. L'identità di una persona è basata su elementi psicologici stabili e continuativi che ci permettono di riconoscerla proprio per questa sua invariabilità, mentre la libertà è basata sulla dinamica di scelte mutevoli e indeterminate, che si decidono in modo contestuale. Tra identità e libertà, allora, non può esserci che una tensione creativa che spetta ad ognuno di noi orientarla, nel mondo in cui viviamo. Galimberti però osserva che di solito "facciamo più affidamento sull'identità di una persona che sulla sua presunta libertà di cambiare se stessa." (Galimberti, 2009, in la Repubblica delle Donne, 23 maggio, p. 166).
Jean-Paul Sartre della libertà ne ha fatto il valore fondante della filosofia esistenziale, tuttavia la particolarità della sua prospettiva filsosofica e letteraria consiste, a mio modo di vedere, nell'idealizzazione con cui ne ha parlato, sia in saggi che romanzi. Per esempio, in L'esistenzialimo è un umanismo Sartre scrive, a proposito della libertà:
"Allorché dico che la libertà in ogni circostanza concreta non può avere altro scopo che di volere se stessa, una volta che l'uomo abbia riconosciuto che egli pone dei valori - nell'abbandono -, egli stesso non può più volere che una cosa: la libertà come fondamento di tutti i valori. Questo non significa che egli la voglia in astratto: vuol dire semplicemente che gli atti dell'uomo di buona fede hanno come significato ultimo la ricerca della libertà come tale."
(Sartre, 1946, tr. it. 1979, pp. 98-99).
A parte una certa idealizzazione della libertà, essa è però presente nella vita, nel modo di dialogare, di scrivere, di Sartre. Se leggiamo le biografie dedicate a lui (per esempio: Madsen, 1977, tr. it. 1977; Cohen-Solal, 1985, tr. it. 1986), risulta vero che Sartre abbia vissuto da uomo libero, risolvendo il conflitto tra identità personale e libertà in una sua elaborazione creativa, cioè trasformando la libertà in un elemento caratterizzante la sua stessa identità personale. Così anche il suo sguardo sul mondo, la relazione tra teoria e azione della sua filosofia esistenziale, soprattutto quando, più tardi, si apre verso il coinvolgimento politico della sua epoca, e secondo forme differenti in base alle fasi storiche da lui vissute. Sartre, così, è un esempio di persona creativa, di grande scrittore, che ha voluto vivere la sua vita in una forma lontana dalle convenzioni borghesi (come il matrimonio e i figli, per esempio), con i suoi modi di fare eccentrici, come tenere grandi somme di denaro in tasca, lasciare mance generose ai camerieri nei locali, o provvedere economicamente ad alcune amiche ed amici, che oltre a caratterizzarlo nel suo modo di vivere originale o antiborghese, condiviso anche dalla sua compagna di vita, Simone de Beauvoir, ne segnalano un modo piuttosto libero di vivere secondo il suo arbitrio, nella ricerca di una coerenza tra l'idea di libertà e il suo modo di vivere pratico, coinvolgendo, in tutto questo, i legami con le persone per lui significative. (v. Cohen-Solal, 1985, tr. it. 1986, pp. 334-335).
La pratica della solidarietà attraverso il conflitto
"Civilizzare la Terra? Passare dalla specie umana all'umanità? Ma che cosa sperare per l'Homo sapiens demens? E' poi possibile dissimulare il gigantesco e terrificante problema delle carenze dell'essere umano? Ovunque, in tutti i tempi, la dominazione e lo sfruttamento hanno prevalso sull'aiuto reciproco e sulla solidarietà; ovunque, in tutti i tempi, l'odio e il disprezzo hanno predominato sull'amicizia e sulla comprensione, ovunque le religioni d'amore e le ideologie di fraternità hanno portato più odio e incomprensione che amore e fraternità."
(Morin, Kern, 1993, tr. it. 1994, p. 192).
Siamo testimoni di un ritorno dell'importanza dell'opera di Karl Marx, per comprendere la crisi che stiamo attraversando e del bisogno di una nuova etica basata sulla fratellanza e l'uguaglianza degli esseri umani. In altri termini, la rilettura delle opere di Marx da parte di diversi studiosi -tra cui Jacques Attali (Attali, 2005, tr. it. 2008), Reinhard Marx (Marx, 2008, tr. it. 2009), Slavoj Zizek (Zizek, 2009, in il Venerdì di Repubblica, 22 maggio, pp. 24-27) - non può che condannare l'avidità e la distruttività del "supercapitalismo" che ha portato alla crisi economica mondiale e a voltare pagina, per inaugurare un nuovo modo di fare economia orientata verso il valore della solidarietà, sia in senso macroscopisco (la logica del sistema economico globale) che microscopico (la psicologia delle relazioni locali negli ambienti economici, cioè nelle imprese e nelle sedi di lavoro).
D'altra parte, la pratica della solidarietà non bisogna considerarla come per scontata e qualcosa di mellifluo, affettato, un valore di facciata, ipocrita. In realtà, la pratica della solidarietà non può che passare attraverso il conflitto intrapsichico e relazionale, per accettarla come 'valore' dopo averne elaborato le resistenze contro di essa. Karl Marx avrebbe voluto realizzare, nella sua filosofia della storia, una società senza classi, attraverso la lotta di classe. Aveva immaginato tappe intermedie prima di arrivare a realizzare la società comunista. Le cose però non sono andate così nei Paesi dell'Est, come sappiamo, mentre in Occidente il marxismo non è attecchito come regime politico e orientamento delle forze governative nei vari Stati-nazione. Come scrive Giovanni Armillotta, dei quaranta Paesi ad orientamento politico marxista, oggi ne sono rimasti solo sette (Cina, Corea del Nord, Cuba, Laos, Birmania, Vietnam, Moldavia). Di questi Paesi, a parte Cuba, in America, e la Moldavia, uno dei Paesi dell'Est, le altre sono nazioni asiatiche. Ad esse si debbono aggiungere tre stati indiani a orientamento politico comunista (Kerala, Bengala occidentale, Tripura) (Armillotta, 2009, in il Vernedì di Repubblica, 22 maggio, p. 27).
La lotta di classe è una teoria del conflitto che non necessariamente si deve configurare, in pratica, come scontro distruttivo tra le parti antagoniste. La politica c'è per mediare i conflitti e trovare dei 'compromessi' soddisfacenti tra le parti in causa. Anche se spesso questi 'compromessi' non sono per nulla soddisfacenti e vengono imposti dal soggetto politico più forte, più che trovare delle vere risposte che siano gradite anche dalla controparte. Il conflitto può darsi come una forma democratica di "rivolta" (Camus), un dire "no" davanti alle ingiustizie e alle discriminazioni, come alle umiliazioni: "Che cos'è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi." (Camus, 1951, tr. it. nona ed., 1976, p. 19). Quell'uomo che dice di "sì", dice di sì alla vita, ma dice di "no" ai soprusi.
Il conflitto può assumere la forma della contestazione, della trasgressione, come la messa alla prova - osserva Miguel Benasayag (Benasayag, 2009, "Puo funzionare una società senza conflitti?", in la Repubblica delle Donne, 23 maggio, p. 23) - e in ogni caso queste espressioni sociali conflittuali sono positive, perché fanno migliorare la società. Benasayag invece lamenta che nell'epoca in cui viviamo c'è una repressione del conflitto. Il conflitto, di conseguenza, viene considerato rischioso e viene stigmatizzato.
Il contrario della solidarietà, come sappiamo, non è il conflitto, ma l'egoismo. Il conflitto, al contrario, è la posizione di chi desidera una chiarificazione onesta sulle cose per realizzare, alla fine, una pratica di fratellanza e di solidarietà. Il conflitto mira a spazzare via l'alienazione delle difese egoiste che impediscono di sentirci tutti per quello che siamo, cioè esseri umani che desiderano, come direbbe Edgar Morin, l'amicizia, la fratellanza, la dimensione poetica della vita, (Morin, 1999, tr. it. 1999).
La solidarietà non è pietà verso l'altro, non è debolezza come vorrebbe l'individualismo egoista. La solidarietà è il riconoscimento reciproco tra esseri umani, la fratellanza al di là della necessaria differenziazione delle individualità, l'aiuto e la dipendenza relativa tra le persone, che invece la mentalità competitiva, rapace, nega e interpreta a torto, come falsità e ipocrisia (v. l'ideologia dell'individualismo egoista e competitivo in Thomas Hobbes), mentre nasconde e alimenta pulsioni egoiste e malevole, facendo anche un cattivo uso della psicoanalisi.
Conflitto e vita
Una sera tardi, di recente, incontro il mio amico, che chiamerò Leone Toscay, per una delle nostre solite e belle passeggiate socratiche. A Leone piace fumare il sigaro, e tollero questa sua passione tabagica solo perché l'amicizia supera il fastidio che provo per quel fumo pesante e puzzolente. In comune però abbiamo il rito di un buon caffé che, a vicenda, ci offriamo reciprocamente. Vagabondiamo nella zona vicino casa, visitando i cortili-piazza di edifici che sono stati restaurati da un architetto italiano di talento, e poi ci avviciamo vicino al marciapiede delimitato dal muretto al di là del quale c'è il fiume che scorre nel cuore della città, a goderci l'estetica del bel paesaggio di case in collina illuminate da fioche luci in lontananza. Si parla di tante cose, come si fa tra due buoni amici. Poi, al ritorno, Leone mi accenna a un episodio che gli è successo con la moglie, e che lo ha lasciato sconcertato.
Arriva la sera a casa con le buste piene di spesa. Dopo aver varcato la soglia della porta d'ingresso, la moglie lo accoglie con ostilità e risentimento, dicendogli, all'incirca, "sei stato fuori a non far niente!". Questa provocazione bella e buona, con tanto di pregiudizio e di proiezione di uno stato umorale negativo della moglie, che chiamerò Madrilena Mistici, naturalmente irrita Leone. Lui è andato a fare la spesa per la famiglia, e inoltre ha comprato un regalo per un parente della moglie, che va a trovare, insieme a lei e al figlioletto, nel mese successivo in cui si mettono in viaggio per la loro vacanza. L'atteggiamento ostile e gratuito della moglie, che misconosce come Toscay si sia comportato quel pomeriggio fuori di casa, provoca in lui rabbia.
Allorché mi azzardo ad accennare a Leone che il Dalai Lama (Gyatso, 1991, tr. it. 2004) osserva che di fronte alle persone, anche care, come una moglie, nei momenti difficili bisogna avere pazienza e tollerare la loro ostilità. Toscay sbuffa e manifesta una certa impazienza, dicendo che il Dalai Lama non comprende nulla! In fondo, Leone non ha del tutto torto, quando dice questo, anche se fino a un certo punto.
Se consideriamo che il Dalai Lama esprime parole di saggezza a partire da un vertice generale e universale, come dare torto a Leone. Il vertice di pensiero di Tanzin Gyatso, appunto il quattordicesimo Dalai Lama, è quello di una persona eccezionale. Fin da bambino è stato considerato il futuro Dalai Lama nel suo paese natio che è il Tibet. Fin da bambino è stato iniziato a una particolare educazione buddhista che poi, da adulto, è culminata con il Premio Nobel per la Pace. Ha vissuto buona parte della sua vita in esilio da quando la Cina ha avanzato pretese colonialistiche nei confronti del Tibet, che poi ha annesso con la forza militare al suo territorio. Dall'esilio, il Dalai Lama non ha fatto che far sentire la sua pacifica protesta, visitando capi di governo di molteplici nazioni del mondo, nei confronti della Cina, affermando che non gli importa tanto che la Cina restituisca il Tibet a se stesso, ma che almeno rispetti una certa autonomia del suo popolo che non chiede altro che vivere in pace. Credo che a causa, tra l'altro, di questa sofferenza politica fondamentale, Tenzin Gyatso, in quanto capo spirituale del suo popolo tibetano, abbia sperimentato nella propria anima cosa sia il "conflitto".
Il Dalai Lama ha conosciuto scienziati, filosofi, psicologi, con cui ha confrontato il punto di vista buddhista con il loro, su svariati argomenti esistenziali. Ha, dunque, conosciuto quelli che sono i problemi fondamentali delle persone e in base all'incontro conoscitivo con formazione buddhista ed esperienze ha formulato pensieri umanistici di saggezza. Il Dalai Lama, che ha residenza in India, non vive come una famiglia occidentale mediamente acculturata, con tutte le difficoltà relazionali, i conflitti che nascono dalla quotidiana convivenza, per esempio, tra una coppia e un figlio. Non di rado, le relazioni tra i componenti una famiglia occidentale nucleare soffrono di nevrosi, se non di disturbi più rilevanti.
Il Dalai Lama sostiene che un'amicizia non si può coltivare con il conflitto, ma con l'affetto. Questa convinzione del Dalai Lama però lascia perplessi, perché la vita, come già abbiamo visto, tira in ballo continuamente il conflitto, per grandi come per piccole cose. Lo abbiamo visto con il piccolo episodio di Leone Toscay e Madrilena Mistici. L'impressione è che la nostra mente non può che essere continuamente chiamata in causa da situazioni conflittuali che richiedono, da parte della persona, la presa di una posizione che se non risolve il conflitto, almeno lo sa gestire.
In una famiglia nucleare tipicamente occidentale, formata, per esempio, da coppia e figlio, ogni giorno ci sono da gestire i conflitti tra moglie-marito, quelli tra madre-figlio, padre-figlio, madre-padre-figlio. In più ci sono i conflitti che ognuno di loro si trova a dover affrontare fuori dalla famiglia nei contesti relazionali usuali in cui sono protagonisti (lavoro, scuola, e altro ancora). I conflitti, dunque, sono onnipervasivi nell'esistenza di ognuno di noi e richiedono una gestione da parte del soggetto, l'apprendimento di strategie generali culturali per affrontarli. Se le cose stanno così, la questione non è tanto quella di rimuovere il conflitto dalla nostra esistenza, ma, lo ripeto, di saperlo gestire.
Secondo la filosofia della vita di Georg Simmel (Simmel, tr. it. 1999), il conflitto fa parte dell'esistenza, è ineliminabile. Un conflitto o una problematica (esistenziale) non possono essere risolti o eliminati. Essi sono vissuti nella vita. Ciò che accade è che a un problema, nel corso della vita, ne subentra un altro, come un conflitto lascia il posto a un altro conflitto. Il futuro ha solo la funzione di smorzare un conflitto, non tanto di eliminarlo. Fa parte della vita la lotta, la gestione tra la guerra e la pace. La vita è caratterizzata da una contraddizione nei confronti di ciò che consideriamo l' "essenza della vita stessa". Proprio perché la vita necessita di configurarsi come "reale", essa lo diventa tramite la "forma", ossia il suo contrario. Il conflitto fondamentale, dice Simmel, che si trova ad affrontare la vita, quando diventa "civile e colta", "creatrice" o che cerca di "appropriarsi ciò che è stato creato", è che si trova a dover creare forme o a districarsi tra le forme. Dunque, per Simmel il conflitto fa parte della vita e non riceve nessuna risoluzione. Semmai, con lo scorrere della vita, esso viene sostituito con un nuovo conflitto.
Se il conflitto è un elemento ineludibile e caratterizzante la vita degli esseri umani, allora deve essere gestito in maniera consapevole. E' quando l'individuo non si fa carico, in maniera autoresponsabile, dei conflitti che la vita gli pone davanti - attraverso la forma che contiene e dà senso (Simmel) e anche l'accettazione del limite (v. Jedlowski, 2008; Zoja, 2009c), possibilità che coinvolgono attivamente le elaborazioni della mente - che essi possono degenerare in scontri distruttivi che agiscono la violenza. A proposito dell'importanza dell'autoriconoscimento dei limiti personali, scrive significativamente il sociologo Paolo Jedlowaki:
"Riconoscere la specificità e i limiti del proprio modo di percepire il mondo è tuttavia l'esito in cui l'esperienza - riconosciuta - conduce. E, a sua volta, ciò pone su nuove basi la comunicazione: riconoscere i miei limiti è convenire sul fatto che comunicare è una questione di rispetto, e che è possibile solo riconoscendo, in principio, l'alterità del partner, la sua non riducibilità a ciò che credo di sapere già su di lui o su di lei. Sapere i miei confini è la sola condizione che mi permette di entrare in relazione con l'altro (con l'altra)."
(Jedlowski, 2008, p. 173).
Il bel saggio di Luigi Zoja Contro Ismene. Considerazioni sulla violenza (Zoja, 2009c) si occupa delle radici che stanno alla base dei comportamenti violenti. Da una prospettiva archetipica, Zoja osserva che alla base dello scatenarsi del comportamento distruttivo c'è la personificazione mentale di un daimon, come, per esempio, accade agli spettatori dell'antica Roma assetati di sangue, quando vanno ad assistere allo scontro forzato dei gladiatori al Colosseo, e che non aspettano altro il momento in cui uno dei due uccide l'altro, per soddisfare il loro voyerismo sadico tramite un soggetto interposto che ha lo statuto di schiavo. Oggi come nel passato, il male si attiva quando il daimon si impossessa della personalità dell'individuo e trova nella violenza una sua sadica soddisfazione. Ciò che dall'antichità è cambiato, rispetto ai nostri tempi, riguarda lo sviluppo enorme della tecnologia, per cui oggi basta schiacciare un pulsante e si invia una bomba atomica sul bersaglio da colpire, uccidendo una quantità sterminata di esseri umani innocenti, senza sporcarsi la camicia.
Zoja sottolinea come nella modernità più vicina a noi gli individui giocano con l'onnipotenza, hanno rimosso il senso del limite, il senso della morale, sono diventati incapaci di riflettere ed elaborare mentalmente i loro vissuti, presi come sono dal ritmo frenetico delle loro vite vissute secondo sollecitazioni esterne, seguendo il ritmo veloce imposto dalla sociocultura, della mentalità usa e getta del consumismo. Come contenere la violenza individuale e collettiva della specie homo nel XXI secolo, dopo il secolo della violenza di massa che è stato il XX secolo? Secondo Zoja bisogna dare spazio all' "educazione etica", solo che la via etica rimane "personale e lenta". E' questa la proposta preventiva che, alla fine del saggio, propone lo psicologo junghiano per contenere la violenza nel mondo. L'uomo, dice Zoja, è insieme buono e cattivo. Per cadere nella violenza basta poco e i suoi effetti sono devastanti, anche per il soggetto che provoca la violenza, e non solo per chi la subisce. Per costruire la strada che porta al bene ci vuole un bel pò di tempo, plasmando la propria mente secondo un percorso educativo orientato eticamente.
Il conflitto è, come sostiene Benasayag, la vita stessa, è, come sostiene Simmel, ineludibile e sostituibile con un altro conflitto nel corso del tempo. Se le cose stanno così, il problema non è quello di eliminare i conflitti dalla nostra vita, tanto poi, subito dopo, ne spuntano altri. I conflitti sono sempre presenti nelle situazioni esistenziali e nelle trame relazionali in cui veniamo coinvolti nei differenti contesti fondamentali in cui la nostra esistenza si svolge nel corso della vita quotidiana. Abbiamo bisogno di dare più spazio alla psiche per le sue riflessioni, resistendo alle seduzioni alienanti che provengono dalla realtà esterna plasmata dalla sociocultura. Abbiamo bisogno di elaborare i conflitti con le nostre riflessioni, in modo da poterli gestire per quello che sono e in chiave costruttiva, invece di evacuarli in forme distruttive e in balia di un demone interiore del male.
Riflessione di congedo
L'Io ragiona sui suoi conflitti e su come affrontarli, anche se non sempre ne è consapevole. I meccanismi di difesa, a vari livelli di sviluppo mentale, si attivano quando si decide come gestire il conflitto. Esso ha a che fare anche con il quantum di energia mentale che si rende disponibile per supportare la sua via d'espressione con cui si viene a configurare, sia nel mondo interiore della persona, che nella mediazione relazionale, o nel caso in cui si abbia un agito. La psicoanalisi classica e quella neofreudiana (per esempio, Karen Horney) si sono occupati sia della qualità che della quantità dei conflitti che provocano un funzionamento anti-economico della mente, individuando nelle nevrosi questo 'consumismo' energetico disfunzionale. In generale, i conflitti però non sono né buoni né cattivi, sono invece fedeli 'compagni' della mente che li deve elaborare.
Solo se facciamo i conti in maniera costruttiva con i nostri conflitti, poi possiamo aprirci al coinvolgimento solidale con gli altri, disponendo di gradi di libertà per le attività sociali, per l'amiciza, l'amore, le attività della vita mentale e le sue produzioni artistiche e intellettuali. Le forme della solidarietà sono varie. Tra le altre comprendono la generosità, l'altruismo, la gentilezza, il porsi al servizio degli altri (come nel caso delle professioni d'aiuto).
Il Dalai Lama (Gyatso, 1991, tr. it. 2004) direbbe che la solidarietà comporta un animo compassionevole. A differenza del Dalai Lama, conservando tuttavia nel cassetto dei nostri cuori i suoi preziosi insegnamenti, e tenendo conto degli Autori qui considerati, è possibile sostenere che il conflitto è un dato strutturale dell'esistenza e che solo se viene elaborato mentalmente - dandogli forma, configurandolo nel suo senso, mettendolo in rapporto col perimetro dei nostri limiti umani - può curvarsi su se stesso, e su questo lavoro mentale di curvatura il conflitto può trasformarsi in pensiero e forza mentale costruttiva e assertiva. Su queste basi di gestione favorevole dei nostri conflitti interni ed esterni, poi il nostro rapporto con l'alterità degli altri può convergere su umani intenti solidali di riconoscimento reciproco.
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